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Gli Occhi della Storia
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Gli Occhi della Storia

Author: Giornale Radio

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La radio diventa narrazione nel racconto degli anniversari più importanti della storia.
Ne "Gli Occhi della Storia” i giornalisti di Giornale Radio descrivono e contestualizzano i principali eventi del passato, per rivivere e comprendere appieno gli avvenimenti che hanno cambiato la nostra società.

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A cura di Daniele Biacchessi Ci sono storie che attraversano la grande Storia, dal passato al presente. Ci sono storie dimenticate che la Storia riporta a galla d'improvviso. Quella dell'astronauta russo Jurij Gagarin riguarda un giorno di aprile di tanti anni fa, ma anche ciò che accade con il conflitto tra Russia e Ucraina. Questa è la storia di un uomo semplice, umile, che aveva volato nello spazio prima di chiunque altro, in quello che sarebbe stato il suo grande sogno che si è trasformato invece nel suo ultimo viaggio, in mezzo alla Guerra fredda che opponeva Stati Uniti e Unione Sovietica, negli anni della corsa agli armamenti e alla ricerca di un primato nello spazio. «Il panorama è assolutamente bello e nuovo... la superficie terrestre cambia colore mentre viene illuminata dal cielo nero, dove posso vedere benissimo le stelle». La voce è del primo cosmonauta della storia: Jurij Gagarin. È il 12 aprile 1961. Quella giornata, al cosmodromo di Bajkonur, nel Kazakistan, sembrava una come tante altre. Fino a quando, alla base della piattaforma di lancio “numero 1”, giunge un pullmino simile a quelli impiegati per gite turistiche. L’autoveicolo bianco e arancione, si ferma a breve distanza dalla piattaforma su cui è appoggiata la grande torre a tralicci metallica, che avvolge un razzo vettore noto come “Zemiorka”. Assieme al gigantesco reticolato metallico, vi sono alcune passerelle che conducono ai “punti nevralgici” del razzo, alto circa 40 metri. Dal pullmino escono due uomini rivestiti da una tuta di volo color arancione, e con un casco pressurizzato; salutano, e poi con repentino scatto chiudono il visore esterno dei loro caschi. Prima di entrare nell’ascensore saluta, agitando entrambe le braccia, i tecnici che lo hanno atteso e quelli che lo hanno accompagnato fino alla rampa, oltre al collega (German Titov) che invece è destinato a restare a terra, e che, di fatto, ha rappresentato la sua riserva. Quando l’ascensore raggiunge la parte più alta della torre, il cosmonauta attraversa il braccio metallico e giunge fino all’apertura di un piccolo boccaporto circolare, con il portellone aperto. Entra nel boccaporto e in poco tempo si sistema, disteso, sull’unico sedile posto all’interno della navicella, e posizionato sopra un seggiolino eiettabile. La navicella è la Vostok 1 (in russo: “Oriente”). Non si conosce, in quel momento, il nome di quel cosmonauta, ma entro un’ora lo saprà il mondo intero. Jurij Gagarin era nato il 9 marzo 1934 nel villaggio russo di Klušino, nella provincia di Smolensk. Era un pilota dell’aviazione russa, con un curriculum ideale per le richieste dei responsabili del programma russo. La selezione avvenne nel 1960. Il padre era un artigiano di falegnameria, e la mamma era contadina. Il primo cosmonauta della storia era sposato con un'infermiera, Valentina, di un anno più giovane di lui. All’epoca del suo storico, primo volo orbitale, Jurij era padre di due figlie, Elena e Galina, nata appena cinque settimane prima. Il razzo vettore accendeva i suoi motori e si lanciava nel cielo del Kazakistan, quando a Mosca erano le 9,07. Ecco il sonoro originali di quegli attimi memorabili. La ricostruzione di quegli attimi del film Gagarin - Primo nello spazio, Il filmato della partenza, molto suggestivo, venne diffuso al mondo soltanto sette anni dopo: « Pojechali!, Partenza!», comunica Gagarin, che in 10 minuti entra in orbita attorno alla Terra. «Il cielo – comunica da lassù Gagarin – lo vedo nero, totalmente nero, e vedo la Terra azzurra sotto di me». E prosegue: «Lungo l’orizzonte c’è una striscia di un arancione brillante che poi assume una sfumatura d’azzurro, e poi passa al nero. Quello che mi colpisce di più è quanto sembra vicina la Terra, anche da questa altezza». La Vostok 1 stava passando sopra l’America Latina, per poi procedere verso il Sud dell’Atlantico e l’Africa. Dopo un’orbita completa attorno alla Terra, avvenne il rientro, critico, negli strati atmosferici. A circa 7 chilometri si dispiega il paracadute provvisorio, seguito a 4 chilometri di quota dall’apertura di quello principale. Poi, alla stessa quota Gagarin si lancia fuori dalla capsula con il seggiolino eiettabile e scende a terra con il paracadute, a distanza di sicurezza dal punto di atterraggio della capsula. La discesa avvenne nella regione di Smelovska, a poca distanza da una mucca e da due contadini che dalla loro fattoria osservavano con stupore e incredulità. L’atterraggio con seggiolino eiettabile verrà confermato solo trent’anni dopo. Si temeva che, con atterraggio fuori dalla capsula, la missione non venisse omologata dalla Federazione Astronautica Internazionale. I giornali di tutto il mondo giudicarono l’impresa come “leggendaria”, e alcuni definirono Gagarin come «un Cristoforo Colombo dei tempi moderni ». Era iniziata così, con quella storica missione, una nuova era: quella dell’uomo nello spazio. Il ritorno di Gagarin fu trionfale. Un lungo corteo di macchine lo fece sfilare nel centro di Mosca acclamato come un eroe nazionale, accanto a Crusciov. «Non vedo nessun Dio quassù». È una frase celebre di Gagarin. Ma lui non la pronunciò mai. Lo confermò alcuni anni fa Valentin Petrov, ex cosmonauta, sostenendo che Gagarin, battezzato nella Chiesa Ortodossa, era credente. Un fatto, quest’ultimo, confermato anche dal suo amico Alekseij Leonov, altra leggenda della cosmonautica. La stessa figlia Elena venne battezzata e la famiglia celebrava sempre Natale e Pasqua. E in casa c’erano molte icone religiose. Un altro mito sfatato insomma, per il primo leggendario uomo del cosmo e su quelle prime imprese pionieristiche dell’ex Urss. Dopo la storica impresa, Gagarin collaborò alla preparazione di altre missioni spaziali, come quella che nel 1963 porterà in orbita Valentina Tereskova. In seguito collaborerà allo sviluppo della navicella Sojuz (ancora oggi operativa) e proseguì l’addestramento, destinato a comandare il volo della Sojuz 3, primo del programma con equipaggio umano dopo quello della Sojuz 1 che nel 1967 si concluse tragicamente con a bordo Vladimir Komarov, di cui Jurij era riserva. Continuò pertanto a effettuare voli sui caccia Mig, per mantenere il numero di ore volo e addestramento. Ma il 27 marzo 1968, mentre stava effettuando con il copilota Seregin un normale volo di addestramento su un caccia Mig-15, perse il controllo del velivolo che cadde in avvitamento. Non si lanciò con il paracadute: in questo modo si sarebbero salvati, ma il Mig si sarebbe infranto su un’area abitata. Jurij morì a soli 34 anni. Maestoso è il monumento a lui dedicato in una piazza di Mosca; alto 40 metri e costruito in titanio, raffigura la scia di un razzo in cima alla quale c’è la statua del primo cosmonauta della storia. In tutto il mondo, già da alcuni anni, ogni 12 di aprile, associazioni di appassionati di astronomia e astronautica di mezzo mondo, celebrano eventi di astronomia e di divulgazione spaziale chiamata "Juri’s Night". La Notte di Jurij. Mai avrebbe immaginato Jurij di diventare oggetto di cancel culture, come si usa dire oggi, da sovietico ritornato russo, in quest’orribile tempo di guerra, e quindi soggetto a censura, come capitato a Dostoevski, alle nostre latitudini (e perfino al Moscow Mule, vodka e ginger ale che qualcuno ha ribattezzato Kiev Mule). Quella Jurij Gagarin resta una impresa che resta per sempre, indipendentemente dai conflitti, dalle guerre, dalla violenza, dalla morte. _______________________________ “Gli Occhi della Storia”, è una produzione di Giornale Radio, dove la radio diventa narrazione nel racconto degli anniversari più importanti della storia. Ne "Gli occhi della Storia” i giornalisti di Giornale Radio descrivono e contestualizzano i principali eventi del passato, per rivivere e comprendere a pieno gli avvenimenti che hanno cambiato la nostra società. Resta collegato con Giornale Radio, ascoltaci sul sito: https://www.giornaleradio.fm oppure scarica la nostra App gratuita: iOS - App Store - https://apple.co/2uW01yA Android - Google Play - http://bit.ly/2vCjiW3 Resta connesso e segui i canali social di Giornale Radio: Facebook: https://www.facebook.com/giornaleradio.fm/ Instagram: https://www.instagram.com/giornaleradio.tv/?hl=it
A cura di Daniele Biacchessi Il 27 gennaio si celebra in tutto il mondo la giornata della memoria della Shoah che ricorda lo sterminio pianificato da parte nazista di milioni di ebrei, oppositori politici, minoranze. Il simbolo dell'Olocausto è la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Vedo, racconto, e scrivo. Lo sguardo della Storia passa proprio dagli occhi dei testimoni, come quelli di Primo Levi che da sopravvissuto diventa poi lo scrittore della memoria dei campi di concentramento nazisti. Lui si ricorda quel giorno d'inverno di tanti anni fa. E' il 27 gennaio 1945. Sono le ore cruciali dell'avanzata americana e sovietica verso Berlino, il cuore del nazismo, dove Hitler e i suoi gerarchi sono sempre più accerchiati. Cadono ad uno ad uno i fronti di guerra e le truppe riunite intorno all'Asse (Germania, Italia, Giappone), lasciano sul campo una lunga scia di orrore e di morte. I soldati dell’Armata Rossa superano il cancello del campo di sterminio nazista di Auschwitz, già evacuato da alcuni giorni. Attraversano il grande cancello di ferro che porta la scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi, la stessa che hanno visto 960 mila ebrei, 74 mila polacchi, 21 mila rom, 15 mila prigionieri di guerra sovietici e 10 mila persone di altre nazionalità sterminati in pochi anni dalle SS naziste. Quel giorno termina il più imponente sterminio di massa della storia avvenuto in un unico luogo. Ma Auschwitz non è il solo campo di concentramento messo in piedi da Adolf Hitler e Himmler. Paesi disseminati da lager, come spiega Primo Levi Per comprendere questa storia bisogna tornare indietro di qualche anno. Il 1 settembre 1939, la Germania nazista invade la Polonia scatenando la Seconda Guerra Mondiale. Dopo l’invasione dell’Unione Sovietica da parte dei tedeschi nel giugno 1941, le SS di Himmler praticano quella che viene chiamata la “soluzione finale”, l'eliminazione di massa di intere comunità di ebrei in Europa. Sempre nel 1941 vengono introdotte camere a gas mobili montate su autocarri e i nazisti costruiscono numerosi campi di sterminio come quello di Auschwitz, in Polonia. Fa parte di un complesso più grande che comprende anche il campo di sterminio di Birkenau e il campo di lavoro di Monowitz. Ad Auschwitz-Birkenau alla fine della primavera del 1943, funzionano quattro camere a gas che utilizzano la sostanza tossica nota come Zyklon B. Nell’estate del 1944, l’offensiva sovietica si spinge fino alla Vistola, 200 chilometri dal campo di concentramento di Auschwitz e inizia ad espandersi verso il cuore della Germania. Sono i giorni in cui Hitler e Himmler sentono il fiato sul collo e procedono con lo smantellamento del lager. Le forze sovietiche entrano nel campo di Majdanek, vicino a Lublino, Polonia, nel luglio del 1944. Nell’estate del 1944, l’Armata Rossa conquista anche le zone in cui si trovano i campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka. Nel novembre del 1944, due mesi prima della liberazione, Himmler ordina la distruzione delle camere a gas di Birkenau rimaste ancora in funzione e il 17 gennaio 1945 ad Auschwitz viene fatto l’ultimo appello generale dei prigionieri. Le SS evacuano il campo a metà gennaio 1945. Migliaia di prigionieri vengono uccisi mentre altri, circa 60 mila, sono costretti a un’evacuazione forzata e a prendere parte a quelle che sarebbero poi divenute famose come “marce della morte”. Le marce procedono verso nord-ovest, fino a Gliwice, per 55 chilometri lungo i quali vengono raccolti anche i prigionieri dei sottocampi dell’Alta Slesia Orientale (Bismarckhuette, Althammer e Hindenburg), e verso ovest, per circa 60 chilometri, in direzione di Wodzislaw. Durante il cammino, le SS uccidono 15 mila prigionieri. Chi sopravvive viene invece caricato su treni merci e trasportato nei campi di concentramento in Germania. Si arriva all'epilogo finale. Il 27 gennaio 1945, verso mezzogiorno. Le prime truppe sovietiche del generale Kurockin varcano il cancello di Auschwitz, trovano 7 mila prigionieri lasciati nel campo. Magri, denutriti, molti sono bambini sotto gli otto anni. Un mucchio di cadaveri come ricorda Primo Levi. I sovietici trovano cumuli di vestiti e tonnellate di capelli pronti per essere venduti. E poi occhiali, valigie, utensili da cucina e scarpe. E vengono rinvenute fosse dove sono sepolti i resti di un pezzo di umanità. Da quel cancello di Auschwitz con la scritta lugubre “Arbeit macht frei” ci è passata anche Liliana Segrè e centinaia di migliaia di ebrei e oppositori politici provenienti da ogni parte d'Europa. I suoi sono gli occhi della Storia e della memoria sono gli occhi di una bambina. I suoi occhi hanno visto l'orrore a soli 13 anni, quando, il 30 gennaio 1944, viene portata al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano. Poi viene caricata su un treno merci. Infine viene deportata nel campo di concentramento e sterminio di Auschwitz e dall'inferno del nazismo. Oggi Liliana Segrè ha 90 anni. Da Auschwitz è riuscita a portare a casa la pelle per miracolo. E' una testimone, una delle ultime ancora in vita. Ha speso buona parte della sua vita a ricordare ai ragazzi, anche a quelli più giovani, che non si deve mai abbassare la guardia, perché il passato può ancora ritornare. Liliana Segrè dice che la violenza, la morte, la distruzione, la sopraffazione dell'uomo su un'altro uomo sono potuti accadere solo grazie alla indifferenza. E per affermare questo ed altri principi resta sotto scorta. Liliana ha perfettamente ragione. Il suo esempio, la sua testimonianza rappresentano oggi l'anticorpo della nostra ancora fragile democrazia. _______________________________ “Gli Occhi della Storia”, dove la radio diventa narrazione nel racconto degli anniversari più importanti della storia. Ne "Gli occhi della Storia” i giornalisti di Giornale Radio descrivono e contestualizzano i principali eventi del passato, per rivivere e comprendere a pieno gli avvenimenti che hanno cambiato la nostra società. Resta collegato con Giornale Radio, ascoltaci sul sito: https://www.giornaleradio.fm oppure scarica la nostra App gratuita: iOS - App Store - https://apple.co/2uW01yA Android - Google Play - http://bit.ly/2vCjiW3 Resta connesso e segui i canali social di Giornale Radio: Facebook: https://www.facebook.com/giornaleradio.fm/ Instagram: https://www.instagram.com/giornaleradio.tv/?hl=it Twitter: https://twitter.com/giornaleradiofm
L’attentato a Charlie Hebdo, una rivista di satira francese nel cuore di Parigi, è un episodio plateale che appartiene all’escalation del terrorismo nata dallo scontro tra due mondi. Il mondo fondamentalista da una parte e la democrazia dall’altra. Il pretesto era legato ad una serie di vignette su Maometto che fin dal 2006 avevano portato ad attentati alla sede del periodico e una stretta vigilanza della sede da parte della polizia. Prima di quel 7 gennaio 2015 la recrudescenza del terrorismo si era manifestata in particolare in Canada, Australia e la stessa Francia, creando già un senso di disagio tra la comunità. Quel giorno di gennaio alle 11:30 i terroristi armati entrano nella sede di Charlie Hebdo prendendo in ostaggio una disegnatrice e costringendola a rivelare il codice per entrare nella redazione. Una volta entrati urlano il consueto Allāhu Akbar, sparano a tutti e lasciano 12 vittime. La fuga dei terroristi entra nella storia per il protagonismo degli assassini che cercavano pubblicità, gloria e sangue, compiendo altri gesti ìnfami, come l’uccisione di un poliziotto a terra, anche se era un gesto gratuito e l’uomo si chiamava Ahmed Merabet, brigadiere di fede musulmana. I due terroristi ancora senza nome scappano, le televisioni trasmettono quelle immagini e tutto il mondo osserva con orrore mentre la polizia cerca di catturarli. I due giorni che seguono sono carichi di tensione e morte, qui ricostruiti dal TG2 Dal 2001 in avanti il terrorismo ha raggiunto lo scopo di terrorizzare ma soprattutto di creare imbarazzo e diffidenza. Per quanto si tratti di un attentato anomalo, proprio gli obbiettivi: dei vignettisti, ovvero artisti, intellettuali, non decisori politici, non soldati, nessuno che possa essere un reale pericolo per chi pretende di portare avanti una qualunque causa, crea nelle prime reazioni un sentimento di rabbia e di smarrimento. Le vittime infatti sono persone straordinarie, di grande talento, uccise in modo bestiale. La caccia intanto va avanti anche il 9 gennaio, con i terroristi in fuga che, apprenderemo quasi subito, sono fratelli e si chiamano Kouachi. Le inquadrature delle televisioni di tutto il mondo ritraggono il supermercato, la consapevolezza che da un momento all’altro potrebbe accadere qualcosa, spinge milioni di persone a seguire con apprensione le riprese di un’azione imminente. Questa è la testimonianza di una famiglia salernitana. Parla Antonio Trotta residente in Francia da tanti anni con la famiglia, il quale abita vicino alla zona e racconta dei terroristi asserragliati con gli ostaggi. I due fratelli Kouachi vengono uccisi nel pomeriggio durante l'irruzione nella tipografia dove si erano asserragliati. L’altro terrorista, Amedy Coulibaly, barricato nel supermercato Kosher, viene ucciso all'interno del supermarket dove teneva gli ostaggi. La prima ad essere colpita è una cassiera di soli 21 anni, ammazzata davanti a tutti per essere di religione o di origine ebraica, proprio come le altre vittime. Il fanatico fa in tempo a cancellare altre tre vite, con la minaccia di uccidere anche un bimbo di pochi mesi nel supermercato. La compagna di Coulibaly, Hayat Boumedienne, 26 anni, viene ricercata per essere interrogata come persona informata sui fatti, ma lei fugge e dal 2 gennaio 2015 vive in clandestinità per sfuggire alla condanna a 30 anni per associazione a delinquere finalizzata al terrorismo, coperta probabilmente dallo Stato Islamico. L’epilogo porta con sé polemiche furibonde che non risparmiano nessuno, a partire dai servizi segreti francesi che, come quelli americani nel 2001, sembrano colpevoli di un incredibile approssimazione, come sostiene il giornalista Carlo Panella Lo sostiene anche Andrea Marcelletti Consigliere per le Politiche di Sicurezza e di Contrasto al Terrorismo del Ministro della Difesa. Dietro ma anche ai lati di questo attentato ci sono sospetti, come sempre del resto, perché non è facile credere che, nonostante le tante informazioni, non si riesca a impedire preventivamente un evento del genere. L’idea è sempre che ci sia un complotto di mezzo, suggerendo implicitamente che si preferisca fingere di non sapere per avere il pretesto di fare delle azioni con interesse strategico. Lo si dice in ogni occasione, da Pearl Harbor all’attacco alle Torri Gemelle ma il tema è anche quello di una manipolazione dell’odio, diretto, guidato da Stati che speculano su questo sentimento per spingere migliaia di potenziali pedine a fungere da martiri, convinti come sono che uccidere chiunque sia persino un atto di eroismo. Sempre Carlo Panella sostiene come dietro ci sia una leva che parte da una cultura estremista degli stessi tribunali di quei Paesi I giorni che seguono creano un dibattito internazionale sulle origini del male, sulle cause che spingono gli estremisti a uccidere indiscriminatamente, privandosi di quel residuo di umanità e immolandosi per una causa che non rappresenta l’Islam. Per giorni e purtroppo anche i mesi seguenti, assisteremo ad altri episodi gravissimi, ancora più sanguinari che creano solo confusione e un corto circuito dell’informazione. Si sprecano le inchieste e si comprende solo che Al Qaeda è il nemico e che si tratta un movimento paramilitare. Si cerca di educare a non confondere tra il sostantivo islamista da islamico, che ha un significato diverso ma il nocciolo della questione è che l’attentato a Charlie Hebdo, al supermercato Kosher e tutti i morti che vengono lasciati a terra sono il risultato di un’intolleranza. C’è tanta prudenza, forse troppa nel distribuire responsabilità ed essere politicamente corretti, così tocca paradossalmente proprio alla satira, danneggiata gravemente dalla strage, dire cose che la politica non sa dire, come dimostra Maurizio Crozza che usa una dichiarazione di Hilary Clinton per riassumere i fatti, una dichiarazione tanto limpida, lucida e nello stesso tempo spiazzante I finanziamenti destinati a pedine che servano a fini strategici, qualcosa che i romanzi di Philip Roth, Robert Ludlum o Tom Clancy hanno sempre descritto. Anche il cinema con Nessuna verità di Ridley Scott o Fair Game con Sean Penn e Naomi Watts, hanno mostrato impietosamente vicende reali, descrivendo fatti che una parte dell’opinione pubblica americana ha sempre cercato di screditare o ridurre ai minimi termini. In fondo nella percezione comune un libro resta tale, a maggior ragione un film. Eppure da tempo è noto come le politiche dei grandi Stati considerino utili determinati piani. Un giorno sono gli Stati Uniti che arruolano uomini trasformandoli in soldati contro i loro nemici, un altro è la Russia che gestisce i profughi bielorussi ammassati a ridosso della frontiera polacca, lettone e lituana. Così, dopo aver usato degli uomini per uno scopo, altri ne approfittano subito dopo per adulterare le menti con la religione, gli danno una motivazione e un nemico e questi esseri, privi di consapevolezza e di interesse per la stessa propria vita, uccidono con entusiasmo. In seguito arriveranno le decapitazioni viralizzate sui youtube, sfruttando l’ambiguità degli amministratori dei social, i video promozionali di Al Qaeda e l’Isis e altre forme di condizionamento. Charlie Hebdo è stato un episodio fragoroso nel quale l’Occidente ha finalmente iniziato a domandarsi se i propri principi si siano indeboliti, semplicemente perché ci siamo abituati ad essi e ora ha scoperto la propria vulnerabilità di fronte ad un nemico primitivo, manipolato da altri Paesi. Urlare e manifestare in piazza Je suis Charlie è stato una reazione umana ed emotiva ma da quei giorni i centri delle città sono blindati, le piazze controllate, le forze di sicurezza aumentate ovunque e la diffidenza è diventata un sentimento comune usato strumentalmente da altre forze politiche. Tutti usano tutti e i terroristi, spesso giovani facilmente manipolabili, sono le perfette armi di distruzione, troppo vuoti, senza strumenti culturali e una cieca obbedienza che abbiamo imparato a conoscere sotto il nome fin troppo nobile di terrorismo. _______________________________ “Gli Occhi della Storia”, dove la radio diventa narrazione nel racconto degli anniversari più importanti della storia. Ne "Gli occhi della Storia” i giornalisti di Giornale Radio descrivono e contestualizzano i principali eventi del passato, per rivivere e comprendere a pieno gli avvenimenti che hanno cambiato la nostra società. 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A cura di Francesco Massardo Ci sono momenti in cui il silenzio è una necessità più che un dovere. Momenti in cui non si può chiudere il mondo dietro la porta di casa, lui là fuori, noi qui dentro a festeggiare. Quello del 2005 non fu un Capodanno come gli altri. Il mondo, fuori, ci era entrato in casa senza bussare: qualche giorno prima, il 26 dicembre del 2004, nella giornata di Santo Stefano, la terra intera aveva assistito sgomenta a uno dei più devastanti eventi catastrofici della storia, almeno per quanto riguarda l’umanità. E così, mentre in rigoroso ciclo da Sidney a Los Angeles, il pianeta si apprestava a entrare nel 2005, lo sgomento e le immagini di morte e devastazione erano ancora troppo vivide per lasciare spazio ai festeggiamenti. Il maremoto dell'Oceano Indiano e della placca indo-asiatica del 26 dicembre 2004 è stato uno dei più catastrofici disastri naturali dell'epoca moderna e ha causato centinaia di migliaia di morti. A stupire in modo ancora oggi indelebile fu la rapidità con la quale un’area immensa del nostro pianeta venne messa in ginocchio. L’evento ha riguardato l'intero sud-est dell'Asia, giungendo a lambire addirittura le coste dell'Africa orientale. Nello specifico, i maremoti hanno colpito e devastato parti delle regioni costiere dell'Indonesia, dello Sri Lanka, dell'India, della Thailandia, della Birmania, del Bangladesh e delle Maldive, giungendo a colpire le coste della Somalia e del Kenya (ad oltre 4.500 km dall'epicentro del sisma). L'evento ha avuto inizio alle ore 07:58:53 locali, quai le due di notte in Italia del giorno di Santo Stefano quando un violentissimo terremoto, con una magnitudo di 9,1, ha colpito l'Oceano Indiano al largo della costa nord-occidentale di Sumatra in Indonesia. Il sisma è durato 8 minuti. Tale terremoto è risultato in effetti il terzo più violento degli ultimi sessant'anni, dopo il sisma che colpì Valdivia, in Cile, il 22 maggio 1960 e quello dell'Alaska del 1964, rispettivamente con magnitudo 9,5 e 9,2, ma che per la scarsa densità abitativa di entrambi i luoghi, hanno totalizzato assieme poco più di tremila vittime, un numero alto, ma imparagonabilmente minore rispetto al dramma asiatico. Il terremoto ha scatenato nel 2004 delle grandi onde anomale che hanno colpito sotto forma di immensi maremoti (con un impressionante picco massimo di 51 metri, registrato a Lhoknga, in Indonesia) le coste dell'oceano Indiano, ma sono anche state registrate lievi fluttuazioni di livello nell'oceano Pacifico. Il numero totale di vittime accertate causate da questa serie di cataclismi è di circa 226.000 esseri umani, ma decine di migliaia di persone sono state date per disperse, mentre fra i tre ed i cinque milioni furono gli sfollati. A fronte di stime iniziali molto più conservative, il responsabile delle operazioni di soccorso dell'Unione europea, Guido Bertolaso, aveva fin dalle prime ore affermato che i morti avrebbero potuto essere alla fine ben più di 100.000, mentre in seguito sono circolate stime che pongono tra i 150.000 ed i 400.000 il numero dei morti per conseguenza diretta del terremoto e del conseguente maremoto soltanto in Indonesia. Dato ancor più devastante, secondo le organizzazioni umanitarie, circa un terzo delle vittime potrebbe essere costituito da bambini, specie in considerazione del fatto che fra le popolazioni delle regioni interessate dalla sciagura vi è un'alta proporzione di minori che hanno potuto opporre una minore resistenza alla forza straripante delle acque. Oltre alle popolazioni residenti, vi sono state tra le vittime molti turisti stranieri che si trovavano in quelle zone nel pieno delle vacanze di Natale, che nell’emisfero australe è periodo di alta stagione. Ad esempio, è notevole il fatto che questo singolo evento abbia causato quasi lo stesso numero di vittime di nazionalità svedese (543, delle quali 542 nella sola località thailandese di Khao Lak) di quante non ne avesse causate l'intera Seconda guerra mondiale (circa 600); la causa è da ricercare ovviamente nel fatto che la Thailandia è ormai la meta tradizionale del turismo invernale svedese soprattutto della terza età. Nel 2004 strumenti che oggi diamo per sContati come app di messaggistica online e social media erano ancora avveniristici: il mancato avvertimento dell'imminente arrivo dell'onda mortale, soprattutto in India e Sri Lanka, ha provocato in queste regioni 55.000 morti. alcuni storici hanno ipotizzato che questo potrebbe essere il più costoso maremoto in termini di vite umane a memoria d'uomo. La storia non si fa col senno di poi, ma se le popolazioni costiere fossero state avvertite da messaggi televisivi, o tramite i cellulari, o da veicoli muniti di altoparlanti, sarebbe bastato uno spostamento di cinquecento metri verso l'interno, o su alture vicine, per non cadere vittime del maremoto, una distanza ridicola se pensiamo che avrebbe tracciato il confine tra la vita e la morte. Il fattore del tempo è quello che ancora oggi grida più vendetta, se consideriamo che l'onda ha impiegato circa tre ore ad attraversare il Golfo del Bengala prima di infrangersi violentemente contro le coste indiane e singalesi. Casualità incontrovertibile o dramma annunciato? I maremoti sono piuttosto frequenti nell'oceano Pacifico, dove le popolazioni ed i governi sono più preparati a questo fenomeno e dove sono in funzione degli evoluti sistemi di allerta. Nell'oceano Indiano l'ultimo maremoto paragonabile a questo avvenne nel 1883, a seguito dell'eruzione e della conseguente esplosione del Krakatoa. Il numero elevato di vittime di questo maremoto potrebbe essere anche dovuto al fatto che i paesi colpiti erano anche in quel caso del tutto impreparati all'evento e che le popolazioni stesse non si sono rese conto e non hanno compreso i segnali che avrebbero potuto far riconoscere loro l'arrivo di un maremoto. Lo stato di emergenza venne dichiarato nello Sri Lanka, in Indonesia e nelle Maldive, mentre le Nazioni Unite hanno dichiarato che le operazioni umanitarie effettuate a seguito del cataclisma sono state le più costose della storia. I governi e le ONG nel frattempo avevano lanciato l'allarme sul fatto che il numero di vittime finale sarebbe potuto aumentare a causa di eventuali epidemie. La Provincia indonesiana è stata la più colpita dallo tsunami, con oltre 166 mila morti e dispersi e più di mezzo milione di persone rimaste senza casa. La scuola di Ibu, che a 10 anni dal maremoto affidò alle pagine del messaggero i suoi ricordi, è una di quelle ricostruite da Save the Children nell'ambito dei programmi di Educazione. «Abbiamo sentito il terremoto e poi un'esplosione. I bambini sono fuggiti all'esterno, urlando e chiedendo aiuto. Il mare si alzava verso la terra - racconta Ibu - Siamo tornati dopo due giorni per capire cosa fosse rimasto della scuola e intorno a noi c'erano solo cadaveri. Erano bambini che abitavano nei dintorni e abbiamo cercato nei loro zainetti per cercare di capire chi fossero e riconsegnare i corpi alle loro famiglie Mio figlio era con me e ancora oggi non riesco a immaginare come possa essersi sentito a vedere lì i corpi dei suoi amici». «Prima dello tsunami, gli studenti della nostra scuola erano 125, dopo ne sono rimasti 75 - racconta ancora Ibu - La comunità si è ridistribuita diversamente sul territorio, la maggior parte delle persone non aveva un posto dove vivere. Oggi abbiamo una scuola migliore e i bambini sono felici perché hanno una scuola più bella di quella di prima. Questa scuola, con la benedizione di Dio, può resistere al terremoto Ora siamo più sereni», conclude Ibu. C’è un dato, uno solo a dire il vero, che restituisce in parte speranza a queste pagine scure della storia umana. Gli eventi del 26 dicembre 2004, uniti certamente alle immagini impressionanti della potenza dello tsunami, hanno generato una corsa agli aiuti umanitari senza precedenti. Secondo l’UNICEF sono 230.000 le persone, in maggioranza donne e bambini, che persero la vita nella tragedia. Intere comunità sono state distrutte, case, scuole e centri sanitari sono stati spazzati via. Tuttavia, gli aiuti internazionali forniti alle popolazioni per la ricostruzione hanno permesso di ripristinare i servizi di base e di ricostruire "meglio di prima". Nel suo complesso, la comunità internazionale (governi, agenzie ONU, ONG) ha donato per l’emergenza più di 14 miliardi di dollari. L’UNICEF ha contribuito con circa 694,7 milioni di dollari, tre quarti dei quali derivanti esclusivamente dall’attività di raccolta fondi presso il settore privato da parte dei Comitati Nazionali. Come detto non soltanto è stato possibile ricostruire nuovamente e meglio alcuni servizi di base, come centri sanitari, scuole e infrastrutture idriche, ma si è anche potuta aumentare la sicurezza nelle comunità più colpite dal disastro, soprattutto per proteggere i bambini e le bambine. In Indonesia, per esempio, "la risposta internazionale a questa emergenza ha creato un’occasione senza precedenti per accelerare il processo di pace tra il governo Indonesiano e gli indipendentisti armati del Free Aceh Movement fino all’accordo di pace firmato da entrambi le parti nell’agosto del 2005. Oltre a soddisfare le necessità immediate dovute all’emergenza dello tsunami, le attività di ricostruzione portate avanti dall’UNICEF si sono concentrate sia nelle zone danneggiate dal maremoto sia nelle aree di conflitto, una scelta strategica orientata a consolidare la pace conquistata in seguito al disastro naturale. In Thailandia la ricostruzione è servita anche per favorire la nascita di sistemi nazionali a tutela dell’infanzia. Nel 2007 è stato creato un Sistema di vigilanza per la protezione dell’infanzia con lo scopo di identificare e monitorare i bambini orfani a causa del disastro e quelli a rischio. Il programma, che nel 2007 è stato applicato in 27 sotto distretti e in 36 nel 2008 e poi esteso su scala nazionale. Ovviamente non mancarono gli eventi il cui ricavato venne devoluto in aiuto dei p
A cura di Daniele Biacchessi 12 dicembre 1969. Una bomba ad alto potenziale viene collocata nel centro del salone della Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano dove i cosiddetti fittavoli contrattano i loro affari. 17 morti e 88 feriti. E' la strage che inaugura una lunga stagione di attentati di chiara marca fascista che va sotto il nome di “strategia della tensione” che insanguina il nostro Paese da Piazza Fontana alla stazione di Bologna. È il profondo buco nero della Storia italiana. Il 1969 è l’anno degli scioperi, dei cortei di operai e studenti in tutto il paese. Torino, Milano, Genova, il triangolo industriale. È l’anno delle bombe. Dal 3 gennaio al 12 dicembre se ne conteranno 145, una ogni tre giorni. Per 96 la responsabilità accertata è dell’estrema destra. Il 15 aprile ne scoppia una nell’ufficio del Rettore dell’Università di Padova. Il 9 aprile a Battipaglia vengono uccisi 2 lavoratori e 119 persone sono arrestati. Il giorno dopo ci saranno manifestazioni in tutta Italia, accompagnate da violenti scontri con la polizia. Il commissariato di Battipaglia viene dato alle fiamme. Il 25 aprile, alla Fiera di Milano, un ordigno provoca il ferimento di venti persone. In agosto vengono piazzati dieci ordigni sui treni:otto esplodono e colpiscono dodici passeggeri. A Pisa, il 27 ottobre, durante una manifestazione contro i colonnelli greci, uno studente rimane ucciso da un candelotto lacrimogeno lanciato dalla polizia. Il 19 novembre, a Milano, nel corso di una manifestazione per la casa muore il poliziotto Antonio Annaruma. Siamo in un clima incandescente sul piano politico. Si è appena insediato il secondo governo a guida Mariano Rumor. Il suo vice è Paolo Emilio Taviani. Ministro degli Esteri Aldo Moro,agli Interni Franco Restivo. Un monocolore Dc. Capo del Sid è l’ammiraglio Eugenio Henke. Al vertice della polizia c’è Angelo Vicari. Presidente della Repubblica è Giuseppe Saragat. Nel 1969, lo stipendio di un operaio specializzato era di 110mila lire al mese. L’affitto medio di un appartamento a Milano e Roma ammontava a 35 mila lire al mese. La Fiat 500 lusso costava 525 mila lire. Una tazza di caffè al bar costava 50 lire. Un litro di benzina 75 lire. 12 dicembre 1969, mancano tredici giorni a Natale. È quasi sera ma Milano è illuminata a giorno. I grandi magazzini sono sfavillanti. Le compere e gli acquisti. Le luminarie addobbano il centro che sembra un carnevale. Migliaia di persone stipate in pochi metri tra corso Vittorio Emanuele, piazza Duomo e piazza San Babila vanno su e giù, osservano le vetrine. Ci sono gli zampognari e i venditori di caldarroste. Ai bar del Barba e Haiti servono espressi in continuazione. La gente transita nei pressi del Teatro alla Scala. Quella sera rappresentano Il barbiere di Siviglia. C’è ressa davanti al Rivoli per Un uomo da marciapiede e all’Excelsior per Nell’anno del Signore. Il freddo entra nelle ossa, con il bavero alzato e i guanti presi da Crippa, quel morbido pullover di cachemire comprato da Schettini e quella cravatta acquistata poco prima da Avolio. Magari un cappello, un Barbisio, un Borsalino. I giovani stanno tutti in Galleria Passerella da Fiorucci per gli ultimi arrivi alla moda. Tutti noi italiani ci sentiamo felici, immortali, allegri, innocenti. A un tratto un forte e dirompente boato rompe quella strana ubriacatura invernale. Giunge dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana. Sette chilogrammi d’esplosivo vengono compressi in una cassetta metallica, poi inseriti dentro una valigetta nera, tipo ventiquattro ore. E’ collocata proprio al centro del salone dove gli agricoltori contrattano i loro affari. La gelignite è attivata da un timer. 12 dicembre 1969, piazza Fontana, il giorno dell’innocenza perduta. Diciassette morti, ottantotto feriti. Alle 16.37 siamo già vecchi. Fortunato Zinni lavorava alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Lo conosco da tanto tempo. Ai tempi dell'attentato era un dirigente sindacale, poi negli anni amato sindaco di Bresso. Fu lui il primo testimone della strage dall'interno della banca. L'obiettivo della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano non è casuale come mi ricordava alcuni fa Francesca Dendena, figlia di Pietro Dendena, nei giorni in cui cercava la verità sulla morte di suo padre. Il paese è attonito, martoriato. Nessuno crede a quelle immagini che la televisione trasmette. Frammenti di guerra, scene che sembrano venire da lontano, da un altro paese. Cosa contengono i minuti dopo una strage? Esistono silenzi che spesso sono fin troppo densi di rumori che si annullano a vicenda. Silenzi, attimi, tempo che sembra non passare mai. Frasi, azioni, gesti, sguardi, la vita degli agricoltori di Piazza Fontana si è fermata, ibernata. Statue di sangue e dolore che non hanno più un’anima, impietrite ti guardano come per chiedere un aiuto, come vite sospese che non sono più carne e parole. Quelle statue che paiono di gesso non sono più vive ma parlano. E raccontano una storia che parte da lontano, proprio da quella banca, a Milano. Gli ultimi gesti di Pietro Dendena, Eugenio Corsini, Giulio China, Carlo Gaiani, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni. Gli sguardi di Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Carlo Luigi Perego, Oreste Sangalli, Carlo Silva. Le parole di Attilio Val, Angelo Scaglia, Calogero Galarioti. Il dolore dei feriti, di quelli mutilati, di quanti si sono poi lasciati morire e non hanno più trovato un’identità. Frasi che risuonano nel cervello, chiare e rotonde, pizzicano in gola, rintoccano sul fondo della lingua, e premono forte sulla laringe e schioccano, sonore e senza voce, più volte, nel corso del tempo, contro il palato. Silenzi fatti di rumori che si trasformano in urla ingoiate di traverso. E compiono il giro del mondo. In molti le percepiscono, forti e chiare, acute e potenti come bombe. 12 dicembre 1969. Pochi minuti dopo la strage di piazza Fontana. Un’altra bomba viene collocata nella sede della Banca Commerciale di Milano. Possiede le stesse caratteristiche della prima ma non scoppia. Altri ordigni vengono piazzati nel passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro a Roma. Tredici feriti. Ordigni di elevata potenza colpiscono l’Altare della Patria e l’ingresso del Museo del Risorgimento a Roma. Quattro feriti. Gli inquirenti indirizzano le indagini verso gli anarchici. Ottanta fermati e arrestati. Tra loro ci sono il ferroviere Giuseppe Pinelli e il ballerino Pietro Valpreda. Così entra in scena l'informazione. Bruno Vespa prende la linea dalla Questura e dà la notizia dell'arresto di Valpreda, così certo della sua colpevolezza che sarà invece smentita da lì a qualche anno. Sono le ore in cui l'innocente Giuseppe Pinelli cade dal quarto piano della Questura di Milano durante un interrogatorio. E anni dopo i giudici scriveranno che Pinelli fu colpito da un “malore attivo”. Pietro Valpreda viene rinchiuso in carcere fino al 1972. Innocente come scritto dalle sentenze dei tribunali. Passano gli anni e la magistratura imbocca la pista giusta. Le valigette che contengono l’esplosivo del’69 sono state acquistate da Franco Freda e Giovanni Ventura, fascisti di Padova. Emerge un piano che deve sfociare in un tentativo di colpo di Stato militare. Strage di Piazza Fontana. 17 morti accertati, più l'anarchico Pino Pinelli giudicato dall'ex presidente Giorgio Napoletano la 18esima vittima, 88 feriti. Come è andata a finire? Anni di inchieste, depistaggi da parte degli uomini degli apparati dello Stato, processi. 30 giugno 2001, Corte d'Assise di Milano. I militanti del gruppo neofascista Ordine Nuovo, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni, condannati all'ergastolo. Tre anni a Stefano Tringali, per favoreggiamento nei confronti di Zorzi. Non luogo a procedere per il collaboratore di giustizia Carlo Digilio. 12 marzo 2004. La Corte d'Assise di Appello di Milano assolve Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi per insufficienza di prove, Giancarlo Rognoni per non aver commesso il fatto, e riduce da tre anni a uno la pena per Stefano Tringali con la sospensione condizionale e la non menzione della condanna. 3 maggio 2005, il processo si chiude in Cassazione con la conferma delle assoluzioni degli imputati e l'obbligo, da parte dei parenti delle vittime, del pagamento delle spese processuali. Per la strage di piazza Fontana non c'è ancora oggi una verità giudiziaria, ma resta però una verità storica anche dalle sentenze di assoluzione. Le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura, ritenuti anche dalla Corte di Cassazione tra gli esecutori della strage di piazza Fontana, anche se non più giudicabili dopo l'assoluzione definitiva nel gennaio del 1987. _______________________________ Ascolta “Gli Occhi della Storia”, dove la radio diventa narrazione nel racconto degli anniversari più importanti della storia. Ne "Gli occhi della Storia” i giornalisti di Giornale Radio descrivono e contestualizzano i principali eventi del passato, per rivivere e comprendere a pieno gli avvenimenti che hanno cambiato la nostra società. 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A cura di Francesco Massardo Il 1 dicembre di ogni anno si ricorda la Giornata Mondiale Contro l’AIDS, un appuntamento fondamentale per la medicina e per l’intera società. Il motivo è semplice: anche se negli ultimi anni l’attenzione è stata rivolta soprattutto alla pandemia da COVID-19, la diffusione del virus dell’HIV è ancora preoccupante e non deve essere trascurato. L’obiettivo fondamentale di questa giornata mondiale, istituita per la prima volta nel 1988, è la continua sensibilizzazione nei confronti di un’epidemia che ha raggiunto il proprio picco nel 2004, ma che ancora nel 2019 contava ben 690.000 vittime per malattie opportunistiche legate all’AIDS nel mondo. Numeri senz’altro in miglioramento, anche questo è un dato, e che lasciano sperare ma che non possono ancora rappresentare la sconfitta definitiva del virus. Certamente anche l’informazione deve fare la sua parte: ormai assuefatti da mesi di bollettini pandemici, non possiamo dimenticare il triste primato degli 1,1 milioni di decessi registrati nel 2010, l’annus horribilis del virus HIV. Sebbene la diffusione dei farmaci abbia raggiunto altissimi livelli qualitativi, quasi inimmaginabili solo fino a pochi anni fa – e lo stesso si possa dire per la prevenzione – c’è sempre bisogno di mantenere alto il livello di attenzione. La Giornata Mondiale contro l’AIDS serve in fondo proprio a questo: mantenere elevata l’attenzione – tra i più giovani ma non solo – e puntare lo sguardo verso i problemi che riguardano la diffusione del virus nei paesi del Terzo Mondo, dove l’accesso alle cure è ancora troppo difficile. Ma come e quando nasce la Giornata Mondiale Contro l’AIDS? Questo appuntamento è stato istituito come detto nel 1988 e, come chiarisce il sito ufficiale, è stata la prima giornata mondiale dedicata alla salute ad essere stabilita a livello globale. Il suo scopo è quello di unire le persone e mobilitarle per combattere l’HIV in modi differenti. In che modo? Condividendo innanzitutto i principi della prevenzione, le storie di persone che oggi convivono con questa condizione, le opere per ricordare coloro che sono morti per malattie correlate. Il simbolo della Giornata Mondiale Contro l’AIDS è il fiocco rosso incrociato che nasce nel 1991 da un singolo nastro, sinonimo in linea generale della lotta contro l’HIV. Questa giornata deve ricordare a tutti che questa epidemia, anche se ha rallentato notevolmente la propria diffusione ed è più facile da contenere rispetto al passato, è ancora mortale, o comunque impone numeri difficili da gestire per la sanità mondiale. Ecco qualche esempio: 26 milioni di persone al mondo accedono alla terapia antiretrovirale Fino al 2019 circa 38 milioni di individui nel mondo convivevano con una diagnosi di positività al virus dell’HIV. Soltanto nel 2019 sono state diagnosticate 1,7 milioni di nuove infezioni da HIV. Dall’inizio dell’epidemia al 2019, circa 75,7 milioni hanno contratto l’AIDS. Infine un ultimo dato, il più difficile da commentare: dal 1981 (anno in cui per la prima volta venne identificata la nuova patologia), 33 milioni di persone sono morte per malattie opportunistiche legate all’AIDS. Anche per questi dati è giusto portare all’attenzione di tutti l’obbligo di seguire le giuste precauzioni. Altro tema fondamentale è l’importanza di ricordare la presenza quasi endemica del virus nei paesi socio economicamente meno sviluppati. L’Africa è oggi il continente più colpito al mondo da questa epidemia: circa il 60% di tutti i soggetti colpiti dalla malattia vive nel continente a fronte del 12% di popolazione mondiale. La difficile condizione economica presente in molti Stati, unita alla diffidenza culturale presente in molti villaggi rurali riguardo i metodi di protezione dalla malattia (come l’utilizzo del profilattico), porta ancora oggi moltissime persone ad infettarsi e a trasmettere la malattia ai propri figli al momento del parto. L’alta circolazione del virus unito alla diffidenza per l’uso del profilattico ed alle scarse risorse economiche della popolazione (che, di fatto, ha difficoltà a potersi permettere le cure antiretrovirali oggi disponibili) rende il tasso di mortalità per AIDS in Africa il più alto del mondo. La Giornata Mondiale Contro l’AIDS ricorda al pubblico e alle istituzioni che l’HIV non è scomparso. Quindi c’è ancora bisogno di raccogliere fondi, aumentare la consapevolezza e l’attenzione. Non a caso in Italia affrontiamo un problema legato proprio a questo: “Per circa il 35% delle nuove diagnosi di sieropositività all’HIV il successo delle terapie è fortemente compromesso dal ritardo con cui le persone decidono di sottoporsi al test. Sono dati che dimostrano quanto sia ancora impegnativa la battaglia contro il virus dell’HIV, per quanto la ricerca clinica stia andando avanti”. Senza dimenticare che un altro motivo che porta a considerare importante la Giornata Mondiale Contro l’AIDS è la discriminazione, la lotta a tutte le iniziative che spingono le persone che hanno contratto l’HIV in condizioni di subordinanza sul lavoro, nei luoghi pubblici e nella vita quotidiana. Ed è bene ricordare che le persone con infezione da HIV hanno il doppio delle probabilità di soffrire di malattie cardiache. L’analisi dei dati rivela che le malattie cardiovascolari associate all’HIV sono più che triplicate negli ultimi 20 anni dato che le persone vivono più a lungo con il virus. La lotta al virus non è solo una lotta della medicina, con la ricerca di un vaccino funzionante le cui tempistiche sono rese ardue dal continuo mutare del virus stesso, ma anche una battaglia culturale. Da alcuni anni ormai, sono stati pubblicati studi che collegano l’omofobia e la mancanza di tutele legali nei confronti delle persone LGBT con un più alto rischio di contagio da HIV. La Yale School of Public Health, ad esempio, utilizzando i dati raccolti tramite un progetto congiunto di atenei, governi, Ong e media online di trentacinque paesi europei, l’European MSM Internet Survey (EMIS), ci dice che gli uomini gay e bisessuali che vivono in contesti ad alto tasso di omofobia e dove non ci sono tutele o vi sono addirittura politiche ostili, tendono ad usare meno i servizi per la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, i test per l’HIV ed evitano di parlare della propria sessualità con gli operatori e le operatrici della sanità. Sappiamo inoltre che alti livelli di omofobia producono un minore accesso alle informazioni sull’HIV, sulla sua prevenzione e inducono ad un minor uso dei preservativi. In tali situazioni si potrebbe quasi dire che il rischio di infezione sia determinato più dalla conseguenza di leggi, politiche e atteggiamenti istituzionali negativi verso l’omosessualità che dai comportamenti delle singole persone. La lotta contro l’omo-bi-transfobia è quindi un obiettivo prioritario anche nella gestione dell’epidemia da HIV perché se il virus continua a prosperare – specie in alcune realtà – si deve anche e soprattutto al fatto che in molti paesi del mondo le leggi e le pratiche punitive contro le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender continuano a bloccare una risposta efficace all’HIV. Ma la questione appare più generale e coinvolge tutti gli ambiti sociali e scientifici perché, a ben guardare, l’epidemia da HIV è stata raccontata fin da subito come il risultato di uno sguardo omofobico. Nel maggio del 1981, infatti, il bollettino epidemiologico dei Centri per il Controllo delle Malattie (CDC) di Atlanta, descriveva cinque casi di una polmonite atipica verificatisi tutti in giovani maschi di Los Angeles. E a rendere ancor più particolare l'intera vicenda contribuiva il fatto che tutti i giovani maschi riferivano di avere avuto rapporti sessuali con altri maschi. Fu subito istituita una sorveglianza specifica su questo tipo di polmonite e su altre patologie indicative di immunodeficienza così che al 15 settembre dello stesso anno si registrarono in tutti gli Stati Uniti 593 casi di immunodeficienza che, per la maggior parte, riguardava omosessuali maschi e si decise perciò, in quello stesso periodo, di definire questo fenomeno con il nome di Gay-Related Immunodeficiency Disease (GRID), ovvero "malattia da immunodeficienza correlata all'omosessualità". La "peste omosessuale", come fu subito ribattezzata dai media, stimolò nella società la recrudescenza della convinzione collettiva che l'omosessualità fosse un problema medico-sociale: l'associazione tra omosessualità e malattia fu resuscitata in maniera tanto intensa da rimanere, ancora oggi, diffusamente presente. In Italia questo approccio a-scientifico fu riassunto dall’allora Ministro alla Sanità Donat Cattin nell’espressione. “l’aids se lo prende chi se lo va a cercare”. Da allora sono passati diversi anni ma quell’approccio omofobico e stigmatizzante è rimasto un segno non ancora del tutto cancellato. Perché l’omo-bi-transfobia non si manifesta in modo eclatante ma spesso è così sottile da non risultare visibile nelle sue caratteristiche ma soltanto nelle sue conseguenze.
Questa è la storia di due storie. Quella di un uomo diventato presidente fin dal giorno in cui era nato e quella dell’attentato progettato da menti tanto vigliacche da nascondersi dietro al caos, senza uscire mai allo scoperto, anche se pur non essendo ufficiale, un’idea di chi ha cospirato se la sono fatta in tanti. La lista dei presidenti americani assassinati parte da Abraham Lincoln, ucciso il 14 aprile 1865 dall’attore e simpatizzante dei Confederati John Wilkes Booth, James Garfield, ucciso il 2 luglio 1881 a Washington, a soli 4 mesi dal giuramento. William McKinley assassinato nel 1901 dall’anarchico Leon Czolgosz. Altri tempi che in realtà non se ne erano mai andati. Un popolo abituato alla violenza, alle armi che per i successivi 60 anni sembrava essere andato più lontano dall’epoca del far west, invece sparava ancora, solo che affidava ad altri il compito di uccidere. Partiamo da una canzone tributo del 1971 dedicata alla figura di JFK, capace di commuovere il fratello Ted, determinato a volerla nella John F Kennedy Library in modo che altri potessero godersi la canzone alla memoria Il mito di John Fitzgerald Kennedy parte molto presto, grazie all’ambizione di una famiglia da sempre impegnata e protagonista della scena politica. John nasce a Brooklin, nel Massachusetts, il 29 maggio 1917. Partecipa alla Seconda guerra mondiale come volontario in marina e dopo essere stato ferito alla schiena, torna a Boston per avviarsi alla carriera politica. Milita nel Partito Democratico come deputato e, in seguito, come senatore. La sua ascesa è già inarrestabile grazie alle scelte giuste che fa anche nella vita privata. Il 12 settembre 1953 infatti sposa Jacqueline Lee Bouvier, detta Jackie, giornalista del Washington Times-Herald che era stata Incaricata dal suo giornale di realizzare una serie di inchieste fotografiche da realizzare intervistando personaggi famosi, tra questi ovviamente il futuro presidente americano. Lui ha 34 anni e lei 10 di meno, il matrimonio è da sogno e lo resterà, al netto delle voci di tradimento di John sussurrate nei corridoi e rilanciate su tutti i magazine. Tornando alla politica il 2 gennaio 1960, annuncia la sua decisione di concorrere alle elezioni presidenziali, scegliendo come suo vicepresidente Lindon Johnson e nel discorso di accettazione della candidatura enuncia la dottrina della "Nuova Frontiera". C’è tanto idealismo nella Nuova Frontiera, la quale identifica una visione che intende migliorare il sistema educativo e quello sanitario, tutelare gli anziani e i più deboli. Il ruolo del fratello Bob è determinante. È lui che ispira la sua dottrina, è lui che lavora ai suoi discorsi, è lui che determina la linea di condotta da tenere nella corsa alla presidenza. Così come è lui a concordare con John la politica estera, indicando l’intervento economico in favore dei Paesi sottosviluppati. Il suo messaggio ha una forza implicita come descrive Furio Colombo, storico inviato Rai. Kennedy per poter coronare il progetto presidenziale doveva confrontarsi con il candidato repubblicano Richard Nixon. I due danno vita al primo dibattito presidenziale mai trasmesso alla televisione. La vicenda mostra da una parte l’incredibile potenziale comunicativo di John e una certa inadeguatezza di Nixon. Il primo è preciso e risoluto, il secondo a disagio e addirittura disordinato. La telegenia di Kennedy, unita alla dimensione del sogno e dell’inclusione, la visione di un mondo diverso, specie a soli 15 anni dalla Seconda guerra mondiale, con disuguaglianze ed ingiustizie, come quelle che i bianchi perpetravano disinvoltamente verso i neri, rendeva in quel momento storico la figura del giovane John come irresistibile. L’uomo giusto al posto giusto. Come da pronostico infatti a novembre vince le elezioni, si insedia e annuncia la decisione di stabilire una "Alleanza per il progresso" con i Paesi latino-americani. Alla fine di maggio parte per un viaggio in Europa che diventa un ulteriore manifesto della sua capacità seduttiva. Incontra De Gaulle a Parigi, Krusciov a Vienna e Mac Millan a Londra. Il fascino che esercita negli Stati Uniti riesce a dirigerlo anche in Europa ed è qui che nel 1963 pronuncerà una frase rimasta nel tempo e riutilizzata modificandola ancora oggi a seconda del contesto. In questo periodo storico l’opinione pubblica internazionale guarda con apprensione agli equilibri precari tra le due superpotenze Stati Uniti e Russia. Kennedy vorrebbe mantenere un'intesa mondiale basata sulla supremazia delle due nazioni più potenti, le quali si fronteggiano anche nel predominio dello spazio, al punto da dare il via a missioni estremamente pericolose per conquistare la luna, già dal 1959. Nel 1962, in questo clima di tensione, due aerei U-2 americani, sorvolano Cuba scattando foto che mostrano quattro piattaforme per alcune basi missilistiche a media gittata, modelli di missili da un megaton, che possiedono una potenza distruttiva cinquanta volte superiore a quella della bomba su Hiroshima. La scoperta è sconvolgente. Una volta installati, questi missili possono raggiungere quasi ogni zona degli Stati Uniti Inizia la crisi di Cuba, si va ad un passo dalla guerra totale. Per evitare incidenti nucleari, viene istallato una via diretta tra il Cremlino e la Casa Bianca, una "linea calda", da utilizzare in caso di tensione internazionale. L’anno che segue è un incubo. Il braccio di ferro dura tredici giorni, il mondo assiste con paura alla possibile apocalisse e grazie ai nervi saldi di John e Bob Kennedy si conclude nel migliore dei modi il 28 ottobre. Storia raccontata magnificamente anche dal film di Roger Donaldson: Thirteen days, con Kevin Costner, particolarmente presente nei film sui Kennedy. L’ America più equa e senza diseguaglianze, che aveva fatto sognare milioni di americani non arriva però in un anno. Non può bastare la volontà di un uomo, per quanto il più potente della nazione, a cambiare culturalmente un Paese in un periodo tanto ristretto. Ci vuole tempo e quel tempo non gli viene concesso da nessuno. Gli episodi di razzismo si moltiplicano, per mano di una parte del Paese convinto stolidamente dalle precedenti amministrazioni e la sua stessa controversa storia, di avere una supremazia verso la comunità afroamericana. È così questi si ribellano e danno vita a grandi manifestazioni, guidati da Martin Luther King. Siamo nel luglio del 1963 e oltre alla politica interna, il progetto resta quello di essere il Paese di riferimento nel mondo, in quest’ottica il presidente americano fa un breve soggiorno in Italia, salutato dalla folla curiosa ed entusiasta e dal presidente della Repubblica Mario Segni che lo omaggia con queste parole: Ad agosto viene organizzata una marcia di duecentocinquantamila persone, organizzati in un'imponente corteo, marciano su Washington per rivendicare i propri diritti e appoggiare le decisioni di Kennedy. La situazione si risolve per il meglio e per questo il presidente decide di partire per un viaggio a Dallas che inquieta lui e la moglie: Kennedy stesso si rendeva conto di quanto fosse pericolosa quella trasferta; Quella stessa mattina JFK disse, indicando il podio dal quale avrebbe tenuto un breve discorso: «Guardate il podio, con tutti quei palazzi intorno i servizi segreti non sarebbero mai in grado di fermare chi volesse colpirmi. Al suo arrivo viene accolto con applausi e grida di incitamento, si leva soltanto qualche fischio. È una giornata di sole e non sembra esserci nulla di strano, nulla di anomalo. Sono le 12-29 e mentre il presidente saluta la folla dalla sua auto scoperta con il governatore John Connally e la moglie di quest'ultimo Nellie a bordo della limousine presidenziale l’attentato sta per andare in scena È una scena incredibilmente violenta. Il corpo, la testa del presidente straziata da colpi di arma da fuoco e Jacqueline, la moglie che improvvisamente si alza e cerca di salire sul cofano posteriore dell’auto. Il presidente è morto ed è il panico in America e in tutto il mondo. La Polizia di Dallas alle 13:50, solo un’ora e venti dopo l’attentato arresta in un cinema poco distante Lee Harvey Oswald, accusato di aver ucciso un poliziotto di Dallas e solo più tardi di aver assassinato il presidente. Come e più della trama di un film Oswald venne a sua volta ucciso due giorni dopo, il 24 novembre, prima di venire portato in tribunale all'interno del seminterrato della stazione di polizia di Dallas da Jack Ruby, il proprietario di un night club di Dallas noto alle autorità per i suoi legami con la mafia. Anche in questo caso il fatto avviene davanti alle telecamere, anche in questo caso vi riproponiamo il momento dello strano omicidio. Il fatto più inquietante è che alla mezzanotte del 22 novembre, poche ore dopo l’assassinio Oswald era stato portato davanti alla stampa, esibito e pronto a rispondere alle domande In mezzo a loro c’era proprio Jack Ruby, del quale si dirà in seguito che nel giorno dell’omicidio passava lì per caso e aveva una pistola. Lyndon B. Johnson da vice diventa presidente e crea la commissione Warren, le cui indagini danno più la sensazione che vogliano coprire i mandanti di quanto non sembrino indagare seriamente. Basti sapere che arriva alla conclusione che i colpi sparati siano tre e dalla stessa posizione, mentre risulteranno il doppio come ampiamente mostrato dagli audio e le riprese. Il procuratore Garrison (poi interpretato da Kevin Costner nel film fi Oliver Stone JFK) contesta la commissione per l’opacità delle sue intenzioni e le anomalie dell’inchiesta che sembrava più voler insabbiare che trovare risposte. Tra le tante cose che non tornano non viene spiegato perché il corpo del presidente era stato spostato e perchè l’autopsia, eseguita da un patologo della marina, si limiti a confermare due colpi da dietro, uno al collo e l’altro alla testa in entrata, quando i fatti suggeriscono qualcosa di diverso Il ricercatore Chris Plumney, che ha dedicato sei anni all’ind
A cura di Daniele Biacchessi Questa è una storia dolorosa e commovente. È la storia di una ragazza di 28 anni, andata via dall'Italia, arrivata a Parigi per studiare e poi uccisa il 13 novembre 2015 durante l'attacco terroristico nel tempio del rock, il Bataclan. Questa è la storia di Valeria Solesin, studentessa, colpita a morte mentre ascoltava musica insieme ad altre 130 persone. 350 feriti. È il 2015. Valeria Solesin, sta svolgendo un dottorato in demografia all'Idem (l'istituto di Demografia), dell'Università della Sorbona Parigi 1. Ha 28 anni, viene da Venezia. È in Francia dal 2011. Un volto solare, sempre attenta ai più deboli, ai bisognosi. Fa volontariato attivo con Emergency. Viene già definita dagli amici come "uno dei cervelli in fuga dall'Italia". Dopo aver conseguito la laurea a Trento con una tesi sulle madri lavoratrici, si trasferisce a Parigi per il dottorato in demografia. Nell'ateneo francese si occupa di temi legati alla famiglia e ai bambini, oltre alla comparazione sociologica tra sistema francese e italiano. Il 13 novembre 2015 si trova al Bataclan dove è in cartellone il concerto dei Eagles of Death Metal. Si trova lì con il fidanzato, Andrea Ravagnani, la sorella di questi, Chiara, entrambi trentini, e il fidanzato di quest'ultima, il veronese Stefano Peretti. Deve essere una serata di divertimento e passione, ma non andrà così. Dall'inizio del 2015 la Francia viene colpita da numerosi attentati terroristici di matrice islamica, compiuti da affiliati o sostenitori di Al-Qaida e dello Stato Islamico. Tra il 7 e il 9 gennaio vengono attaccati gli uffici del giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi, e il supermercato kosher Hyper Cacher, a Porte de Vincennes. Negli assalti, compiuti dai fratelli Kouachi e da Amedy Coulibaly, rimangono uccise diciassette persone. Da quel momento inizia una catena di attentati su larga scala. Il 3 febbraio 2015 tre militari vengono accoltellati a Nizza da Moussa Coulibaly, cittadino francese di origine africana. Il 19 aprile una donna, Aurélie Châtelain, viene assassinata dallo studente algerino Sid Ahmed Ahlam, durante attacchi a due chiese di Villejuif, a Parigi, e alla Basilica del Sacro Cuore. Il 26 giugno, a Saint-Quentin-Fallavier, nel sud-ovest del Paese, il trentacinquenne di origini marocchine Yasmin Salhi uccide e decapita il proprio datore di lavoro, poi si fa un selfie con la testa mozzata della vittima ed invia la fotografia a un numero canadese tramite WhatsApp; in seguito, tenta di distruggere una fabbrica di gas con un furgone imbottito di bombole esplosive. Il 13 luglio quattro giovani di età compresa tra i 16 e i 23 anni, tra cui un ex-militare, progettano l'assalto contro l'installazione militare di Fort Béar di Port-Vendres, nei Pirenei Orientali. Il 21 agosto, su un treno ad alta velocità proveniente da Amsterdam e diretto a Parigi, tre militari americani in borghese ed un cittadino britannico, tutti in vacanza, bloccano un terrorista, il ventiseienne Ayoub El Khazzani, mentre sta per aprire il fuoco con un kalashnikov. Nel tentativo di immobilizzarlo, tre persone rimangono ferite. Infine, il 29 ottobre viene scongiurato un altro attentato contro alcuni soldati della Marina Francese a Tolone, nel dipartimento di Var. Questo è il clima che precede l'attacco contro la discoteca Bataclan a Parigi È una lunga notte quella che inizia alle 21,20 del 13 novembre 2015. La prima esplosione avviene davanti al ristorante Events nei pressi dell'ingresso D dello Stade de France, in zona Saint-Denis, venti minuti dopo l'inizio della partita amichevole fra le nazionali di calcio di Francia e Germania. Per non aggravare la tensione, la partita prosegue; a causa dell'esplosione vi fu un morto, Manuel Dias, più l'attentatore, identificato col nome di battaglia di Ukashah Al-Iraqi. Cinque minuti dopo, alle 21,25, la scena si sposta nei pressi dei due ristoranti Le Carillon, su Rue Alibert e Le Petit Cambodge, su Rue Bichat. Quattro terroristi a bordo di una SEAT León nera, sparano all'incrocio con i loro AK-47 esplodendo circa 100 proiettili, inneggiando alla Siria e all'Iraq e urlando in lingua araba: "Allahu Akbar!" (13 morti e 10 feriti gravi). Alle 21,30 c'è la seconda esplosione davanti a un fast food Quick nei pressi dell'ingresso H dello Stade de France, in zona Saint-Denis. Muore l'attentatore. Due minuti dopo avviene la seconda sparatoria nei pressi del Café Bonne Bière e della pizzeria Casa Nostra, in Rue de la Fontaine au Roi. 5 morti, 8 feriti. La terza sparatoria è delle 21,36 sparatoria davanti al ristorante La Belle Équipe, nei pressi di rue de Charonne, nell'XI arrondissement (21 morti e 9 feriti). Il Bataclan di Parigi è il luogo simbolo dei concerti rock. Quella sera suonano gli eagles of Death Metal. Lo spettacolo è iniziato alle 20,45 e nella sala ci sono 1500 spettatori. Tutto avviene in soli otto minuti. Un commando assalta il Bataclan da più punti con zaini porta-caricatori, AK-47, di un fucile a pompa, alcune bombe a mano e cinture esplosive. Sparano ovunque contro inermi, nel fuggi fuggi generale i terroristi uccidono 90 persone ne feriscono centinaia. Daniel Psenny, un giornalista di Le Monde che abita al lato del teatro a Saint-Pierre Amelot, si affaccia alla finestra del suo appartamento e riprende con uno smartphone gli spettatori che fuggono attraverso le uscite di sicurezza del Bataclan. Mentre gli attacchi sono ancora in corso, in un discorso televisivo il presidente francese François Hollande ha dichiarato lo stato di emergenza in tutta la Francia e annunciato la chiusura temporanea delle frontiere. 29 giugno 2022. La sentenza della Corte d'Assise speciale del maxi-processo per gli attentati del 13 novembre 2015 riconosce colpevoli quasi tutti gli imputati, 19 su 20, con l'ergastolo a Salah Abdeslam, l'unico sopravvissuto del commando di jihadisti che quella notte causò 130 morti e 350 feriti. Il trentaduenne belga-marocchino è stato condannato come co-autore degli attacchi. Abdeslam aveva spiegato di aver rinunciato a far esplodere la sua cintura esplosiva "per umanità" ma i magistrati non gli hanno creduto, preferendo la versione di un meccanismo difettoso. La sentenza per i più cruenti attentati dal dopoguerra farà giurisprudenza: viene riconosciuta per diversi imputati la "participation à association de malfaiteurs terroriste", l'equivalente di associazione a delinquere con finalità di terrorismo. Nel caso di Abdeslam è stata applicata la pena più pesante del codice penale: l'ergastolo "reale" che rende impossibile chiedere qualsiasi sconto di pena. Solo qualche mese prima, nella stessa aula giudiziaria, Luciana Milani, la madre di Valeria Solesin si rivolgeva indirettamente ai terroristi. “Cosa rappresentano per loro questi 130 morti, i morti che noi piangiamo e che per motivi a noi misteriosi sono diventati il loro bersaglio? Chiedo agli imputati di rispondere ed esprimere il loro pensiero”. La memoria di Valeria Solesin è ancora viva. Per la serie GLI OCCHI DELLA STORIA, “La Strage di Bataclan”, di Daniele Biacchessi, in formato podcast su tutte le piattaforme a partire dalle 6 del 13 novembre. ASCOLTACI ANCHE IN DAB, FM, APP, SITO. GLI OCCHI DELLA STORIA è una produzione Giornale Radio.
A cura di Daniele Biacchessi Il 24 ottobre 1945, a pochi mesi dalla fine della seconda guerra mondiale, con le città distrutte dalle bombe e i segni inequivocabili degli orrori, entra in vigore la Statuto delle Nazioni Unite, il primo embrione di quella che solo sedici anni dopo, il 6 dicembre 1971, diventerà l'Onu, l'Organizzazione delle Nazioni Unite, il luogo politico che dovrebbe governare i rapporti tra Stati. Lo Statuto delle Nazioni Unite viene firmato a San Francisco il 26 giugno 1945 da 50 dei 51 Paesi: non è presente la Polonia che poi siglerà l'accordo il 24 ottobre 1945, dopo la ratifica da parte dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Cina, Francia, Unione Sovietica, Regno Unito e Stati Uniti) e della maggioranza degli altri Stati. Nella parte iniziale c'è un preambolo molto simile a quello della Costituzione degli Stati Uniti. Poi si va con i 111 articoli suddivisi in capitoli. Il primo capitolo definisce gli scopi delle Nazioni Unite. Il secondo illustra i criteri di ammissione dei paesi. Nei capitoli 3-15 vengono delineati i compiti e i poteri degli organi delle Nazioni Unite. Tra il 16 e il 17: trovate l'integrazione delle Nazioni Unite con le normative di diritto internazionale. I capitoli 18 e 19 offrono lo spaccato delle modifiche e la ratifica dello Statuto. È integrato dallo Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, il cui funzionamento e organizzazione sono disciplinati dal capitolo XIV. La Carta risulta complessa, molto spesso le descrizioni sono macchinose e scritte nello stile burocratico, ma ci sono le linee guida che dovrebbero distinguere le indicazioni relative all'uso della forza, che riguardano gli Stati individualmente considerati e quelle relative al sistema di sicurezza collettiva che fa capo al Consiglio di sicurezza. Al primo gruppo appartengono le disposizioni che stabiliscono un divieto generale di usare la forza nelle relazioni internazionali e le relative eccezioni. Il divieto è stabilito dall'art. 2, par. 4, mentre le eccezioni hanno per oggetto la legittima difesa individuale e collettiva (art. 51), e le azioni contro Stati ex nemici, di cui all'art. 107 della Carta. Nel sistema di sicurezza collettiva è incluso il ricorso alla forza esercitato direttamente dal Consiglio di sicurezza. Le azioni coercitive presuppongono, però, l'operatività di alcune disposizioni che non hanno mai trovato attuazione. Si aggiungono le azioni intraprese dalle organizzazioni regionali o in virtù di accordi regionali, autorizzate dal Consiglio di sicurezza. Lo Statuto afferma il rispetto reciproco tra Stati, l'integrità territoriale, la sovranità degli altri paesi, la non ingerenza negli affari interni altrui, ma molti principi restano solo scritti sulla Carta. Le organizzazioni internazionali come l'Onu sono destinate a durare nel tempo. Espone il loro atto istitutivo a molteplici fattori di crescita e di erosione, legati il più delle volte al variare delle esigenze della società. La situazione politica, economica e sociale entro la quale un’organizzazione internazionale è stata costituita spesso, in qualche misura, può mutare. Il crollo del Muro di Berlino ha favorito una maggiore intensità delle relazioni tra gli Stati nell’ambito della cooperazione internazionale. La fine della Guerra fredda ha suscitato la speranza nella Comunità internazionale, e nella società civile in particolar modo, che un nuovo ordine internazionale prendesse il posto del precedente. In questo nuovo quadro politico-internazionale, molti auspicano che organizzazioni internazionali come l'ONU possano giocare un ruolo chiave nei rapporti internazionali garantendone la pace e la sicurezza internazionali, e che la Carta delle Nazioni Unite, universalmente ratificata, costituisca la pietra di paragone. Il dibattito per un’eventuale riforma dell’ONU si è caratterizzato attorno alla struttura ed alla composizione del Consiglio di sicurezza, perché la sua attuale composizione riflette ancora le posizioni di forza delle potenze alleate che vinsero la seconda guerra mondiale. Tutti gli attori politici internazionali sono concordi sul fatto che debba essere riformato. Le cause dell’inefficacia dell’azione delle Nazioni Unite sono la sua inefficienza, il deficit democratico, l'inadeguatezza delle risorse finanziarie, soprattutto il sistema dei veti. Negli ultimi anni, l’opposizione alla composizione del Consiglio di sicurezza, apparentemente non rappresentativo degli attuali rapporti di forza, si è fatta sempre più rumorosa. Questa situazione ha favorito le critiche di chi ha più volte sostenuto che l’operatività dell’esecutivo dell’ONU sia stata spesso condizionata dagli interessi geopolitici delle Grandi Potenze a discapito degli interessi collettivi della Comunità internazionale. L’inefficacia delle Nazioni Unite è emersa prepotente con la guerra in Ucraina. Il segretario dell'Onu Antonio Guterres critica fin da subito l'invasione russa in Ucraina, ma le sue parole restano liquide per l'impossibilità e la mancanza di volontà di intervenire. Così Guterres dopo il referendum farsa organizzato da Mosca per l'indipendenza delle autoproclamate repubbliche del Donbass. Il Cremlino ha annunciato che domani a Mosca si terrà una cerimonia che avvierà un processo di annessione delle regioni ucraine di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. In questo momento di pericolo, devo sottolineare il mio dovere di Segretario ONU : difendere e sostenere la Carta delle Nazioni Unite. Qualsiasi annessione del territorio di uno Stato da parte di un altro Stato risultante dalla minaccia o dall’uso della forza costituisce una violazione dei Principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. E lo sostiene anche una decisa interpretazione dell’Assemblea Generale del 1970 , citata a sproposito dal ministro Esteri Lavrov in difesa dei referendum voluti dal Cremlino che invece recita “il territorio di uno Stato non può essere oggetto di acquisizione da parte di un altro Stato risultante dalla minaccia o uso della forza” … e nessuna acquisizione territoriale risultante dalla minaccia o dall’uso della forza sarà riconosciuta come legale. Le ostilità non sono cominciate il 24 febbraio 2022, ma il 27 febbraio 2014 quando la Russia inviò proprie truppe senza insegne a prendere il controllo del Governo locale in Crimea. E l’11 marzo successivo il nuovo governo filorusso dichiarò la propria indipendenza dall’Ucraina. L’ONU non è intervenuta allora e non lo ha fatto neppure il 24 febbraio 2022 quando la Russia ha avviato le operazioni militari per invadere l’Ucraina. Ma il vero problema è che dal 2014 al 2022 l’ONU non ha portato avanti alcuna operazione di rilievo per redimere il conflitto nato tra Ucraina e Russia sulla Crimea e sulle aree russofone delle altre regioni di confine. Se le Nazioni Unite avessero avuto visione e voglia di risolvere una situazione di tensione che si stava sviluppando in quell’area, avrebbero dovuto intervenire immediatamente con un’azione diplomatica e proporre e organizzare referendum tra le popolazioni di quelle regioni per verificare le loro reali intenzioni di diventare parte della Russia o rimanere ucraini ancorché di lingua russa. Se le Nazioni Unite avessero avuto reali intenzioni di svolgere il proprio mandato internazionale avrebbero dovuto portare avanti tutte le azioni possibili già nel 2014. La stessa inerzia dell'Onu è visibile nel Tigrè, al confine tra Etiopia Settentrionale e Eritrea, dov’è in corso un conflitto violentissimo che va avanti da molti anni. In questa guerra dimenticata, si stanno consumando le violenze più truci contro i più deboli (donne, bambini ed anziani inermi). L'Onu è indifferente verso la guerra civile in Nigeria, dove la violenza affonda le sue radici nella mancata definizione dei confini sub-regionali in cui si dovrebbe suddividere la nazione. Un’altra guerra ignorata dall'Onu è quella fomentata dagli interessi economici e post-coloniali della Francia in Mali. La motivazione addotta è quella di contrastare l’espansione dello Jihadismo nella regione. Poi c'è la guerra in Libia, anche questa interna al Paese, tra le milizie di Fathi Bashagha, sostenute dal generale Khalifa Haftar contro le truppe del governo di Unità Nazionale, riconosciuto dall’ONU. Le Nazioni Unite non dicono niente nel conflitto nello Yemen, cominciato nel 2015, che ha provocato decine di migliaia di vittime, centinaia di migliaia di profughi ed ha devastato completamente il Paese. Stessa cosa per la guerra in Siria; in Afghanistan, le tensioni tra India e Pakistan. Si potrebbe proseguire nel triste elenco dei conflitti in corso da anni in varie parti del mondo. Oggi, proprio nel giorno in cui si ricorda l'inizio della storia dell'Onu l'unica speranza resta nella volontà politica di riformare una istituzione gloriosa e importante che però ha bisogno di rinnovarsi e adattarsi ai cambiamenti geopolitici del mondo.
A cura di Francesco Massardo Il 16 ottobre in tutto il pianeta si festeggia la Giornata Mondiale dell’Alimentazione. Un appuntamento celebrato ogni anno per commemorare la fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, la FAO. Contrastare la fame nel mondo è una strana lotta. Per rispondere alla domanda ingente di cibo e acqua, non occorre aumentare l’offerta, ma suddividerla in modo più equo e più libero dai meccanismi di mercato. E lontane dalle insegne luminose dei fast food e dai container carichi di cibo ben 828 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2021 – 46 milioni di persone in più rispetto al 2020 e 150 milioni in più del 2019. Nel 2021, circa 2,3 miliardi di persone (29,3%) in tutto il mondo erano in una situazione di insicurezza alimentare moderata o grave – 350 milioni in più rispetto a prima dello scoppio della pandemia da COVID-19. Quasi 924 milioni di persone (11,7% della popolazione mondiale) hanno sofferto di insicurezza alimentare grave, con un aumento di 207 milioni in due anni. E dove vive la povertà crescono le ineguaglianze: Il divario di genere nell’insicurezza alimentare è cresciuto ancora nel 2021. In tutto il mondo, il 31,9% delle donne ha sofferto di insicurezza alimentare moderata o grave, rispetto al 27,6 % degli uomini: un divario di oltre 4 punti percentuali, rispetto ai 3 del 2020. Nutrirsi abbastanza è fondamentale tanto quanto nutrirsi bene: Quasi 3,1 miliardi di persone non potevano permettersi una dieta sana nel 2020, 112 milioni in più rispetto al 2019, come conseguenza dell’inflazione sui prezzi dei prodotti alimentari al consumo, a seguito delle ripercussioni economiche della pandemia da COVID-19 e della guerra e delle misure attuate per contenerla. Si stima che 45 milioni di bambini di età inferiore ai cinque anni abbiano sofferto di deperimento, la forma più letale di malnutrizione, che, in età infantile, aumenta fino a 12 volte il rischio di morte. Inoltre, 149 milioni di bambini sotto i cinque anni hanno subito un ritardo di crescita e di sviluppo, a causa di una carenza cronica di nutrienti essenziali nella loro alimentazione, contro 39 milioni di bambini in sovrappeso. Contrastare questi dati Significa accelerare la trasformazione verso sistemi agroalimentari più efficienti, inclusivi, resilienti e sostenibili per una produzione migliore, una nutrizione migliore, un ambiente migliore e una vita migliore, senza lasciare indietro nessuno. “Sistema agroalimentare” è un termine complesso, che può sembrare lontano dalla realtà di tutti i giorni, ma è ciò da cui a ben vedere dipende la nostra vita. Ogni volta che mangiamo, diventiamo un anello di questo sistema. Il cibo che scegliamo e il modo in cui viene prodotto, preparato, cotto e conservato ci rendono parte integrante e attiva del corretto funzionamento di un sistema agroalimentare. Un sistema agroalimentare è sostenibile quando è disponibile una gran varietà di alimenti sufficienti, nutrienti e a prezzi accessibili a tutti, per cui nessuno soffre la fame o è esposto a qualsiasi tipo di malnutrizione. Al mercato o nei negozi di alimentari gli scaffali sono ben riforniti: meno cibo viene sprecato, più la filiera di approvvigionamento alimentare è resiliente a crisi come condizioni climatiche estreme, picchi di prezzo o pandemie, e al tempo stesso si limita l’aggravarsi del degrado ambientale o del cambiamento climatico. I sistemi agroalimentari sostenibili garantiscono la sicurezza alimentare e la nutrizione per tutti, senza compromettere le basi economiche, sociali e ambientali per le generazioni future. Favoriscono una produzione migliore, una nutrizione migliore, un ambiente migliore e una vita migliore. I sistemi agroalimentari danno lavoro a un miliardo di persone in tutto il mondo, più di qualsiasi altro settore economico. Inoltre il modo in cui produciamo, consumiamo e, purtroppo, sprechiamo il cibo ha pesanti ripercussioni sul nostro pianeta, in quanto le risorse naturali, l’ambiente e il clima vengono esposti inutilmente a un forte stress. Fin troppo spesso la produzione alimentare deteriora o distrugge gli habitat naturali, contribuendo all’estinzione delle specie. Questo problema ci costa migliaia di miliardi di dollari ma, soprattutto, i nostri sistemi agroalimentari stanno causando profonde disuguaglianze e ingiustizie nella nostra società globale. Tre miliardi di persone non possono permettersi un’alimentazione sana, mentre il sovrappeso e l’obesità sono in costante aumento in tutto il mondo. Il Food Waste Index Report dell’UNEP che si concentra sulle fasi della filiera successive alla produzione primaria, quindi sugli scarti che si verificano a livello domestico, di ristorazione e di vendita al dettaglio stima lo spreco di cibo attorno al 17% della produzione alimentare globale. Si tratta di 931 milioni di tonnellate ogni anno (dati relativi al 2019): il 61% proviene dalle famiglie (74 kg pro capite l’anno), il 26% dalla ristorazione (32 kg pro capite/anno) e il 13% dalla vendita al dettaglio (15 kg). Quasi 570 milioni di tonnellate di questi rifiuti hanno origine a livello domestico. Mediamente ad ogni essere umano corrispondono 74 chilogrammi l’anno di rifiuti alimentari “senza grandi differenze, come invece si credeva in precedenza, tra Paesi a reddito medio-basso ai Paesi ad alto reddito”, spiega il report: “Le stime precedenti dello spreco alimentare dei consumatori ne sottovalutavano significativamente la portata. Sebbene i dati non consentano un solido confronto nel tempo, lo spreco alimentare a livello di consumatore (domestico e ristorazione) sembra essere più del doppio della precedente stima FAO”. E questa occidentalizzazione dei paesi in via di sviluppo non sembra destinata a ridursi. Secondo Boston Consulting Group, da qui a 8 anni gli sprechi alimentari aumenteranno del 40%: nel 2030, stima l’istituto di consulenza statunitense, getteremo via oltre 2 miliardi di tonnellate di cibo all’anno, per un valore di 1,5 trilioni di dollari. E l’Italia? Se l’obiettivo è ridurre questa impressionante quantità di cibo che diventa rifiuto, il nostro Paese pare sulla strada giusta. Secondo l’UNEP, lo spreco alimentare in Italia relativo alle fasi finali della filiera raggiunge (2019) i 4 milioni di tonnellate (67 chilogrammi a testa ogni anno). Un risultato migliore di quello di Paesi come Gran Bretagna (5,2 milioni di tonnellate, 77 kg pro capite), Spagna (3,6 milioni di tonnellate, 77 kg pro capite) della Francia (5,5 milioni e 85 kg pro capite) e Germania (6,2 milioni di tonnellate totali, 74 chilogrammi pro capite/anno). Fanno invece meglio dell’Italia, ad esempio, Paesi come l’Olanda (50 kg pro capite), Belgio (50), Austria (39) e Irlanda (55. La recente pandemia del COVID-19 ha messo in luce che è necessario un urgente cambio di rotta: ha reso ancora più difficile per gli agricoltori – già alle prese con eventi climatici variabili ed estremi – vendere i loro raccolti, mentre l’aumento della povertà sta spingendo un numero sempre crescente di cittadini a ricorrere alle banche alimentari, e milioni di persone richiedono aiuti alimentari di emergenza. Sono necessari sistemi agroalimentari sostenibili, in grado di nutrire 10 miliardi di persone entro il 2050. Esistono le soluzioni. I governi devono riformulare vecchie strategie e adottarne di nuove, che favoriscano la produzione sostenibile di alimenti nutrienti a prezzi accessibili e promuovano la partecipazione degli agricoltori. Le strategie dovrebbero promuovere l’uguaglianza e la formazione, favorire l’innovazione, incrementare i redditi rurali, offrire ai piccoli agricoltori reti di sicurezza e garantire la resilienza al clima. Devono inoltre prendere in considerazione i diversi aspetti che influenzano i sistemi alimentari: formazione, salute, energia, protezione sociale, finanziamenti e molti altri ancora, creando equilibrio tra di essi. Devono inoltre essere sostenuti da un forte incremento di investimenti responsabili e da un solido supporto per ridurre problemi sociali e ambientali in tutti i settori, in particolare il settore privato, la società civile, i ricercatori e il mondo accademico. Anche i governi, il settore privato, la società civile, le organizzazioni internazionali e il mondo accademico hanno bisogno del nostro aiuto. È necessario intervenire su ciò che viene prodotto aumentando la nostra domanda di cibi nutrienti prodotti in modo sostenibile, e allo stesso tempo essere noi stessi più sostenibili nelle nostre azioni quotidiane, soprattutto riducendo le perdite e gli sprechi alimentari. Dobbiamo inoltre passare parola, sensibilizzando gli altri sull’importanza di uno stile di vita sano e sostenibile. Da questo dipendono gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico, il degrado ambientale e per il nostro benessere. Dobbiamo creare un movimento alimentare che sostenga questo ambizioso cambiamento.
In montagna il tempo e lo scorrere della vita hanno un ritmo diverso. Si cena presto. Si va a letto presto. Il 9 ottobre del 1963, alle 22.39 erano tutti a letto. Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963 una frana gigantesca di circa 270 milioni di metri cubi di roccia e detriti si staccò dalle pendici del monte Toc e precipitò nel bacino artificiale del Vajont, provocando un’onda che cancellò in pochi secondi il territorio sul versante opposto alla frana e a valle dell’invaso, distruggendo gran parte dell’abitato di Longarone e di altri villaggi sulla riva del fiume Piave. La stima più attendibile delle vittime è di 1910 morti. L'enorme massa, un corpo unico, piombò nel sottostante lago artificiale nel quale l'11 aprile, con la terza ed ultima prova di invaso, l'acqua aveva raggiunto quota 700 metri sul livello del mare. Lo schianto sollevò un'onda di 230 metri d'altezza La metà della massa d'acqua scavalcò la diga, abbattendosi nella sottostante valle del Piave, provocando la distruzione di diversi paesi (Longarone, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago, Castellavazzo). L'altra parte dell'onda salì la valle e andò a colpire i paesini friulani di Erto e Casso e diversi altri borghi Che stesse per succedere qualche cosa alla vigilia del disastro se ne accorse Alberico Biadene, direttore costruzioni della Sade, che l'8 ottobre (a neppure 24 ore dal disastro) chiese ai vertici della società costruttrice della diga di far scattare l'allarme e provvedere con un piano di evacuazione di Erto e Casso. Alle 22 il geometra Giancarlo Rittmeyer telefonò a Biadene, a Venezia, per comunicare la sua preoccupazione, visto che la montagna aveva cominciato a cedere visibilmente. 39 minuti dopo la telefonata il disastro Il 10 ottobre, il Corriere della Sera, apre il giornale con il titolo "L'onda della morte" e invia sul posto Giorgio Bocca e il bellunese Dino Buzzati. E la Stampa mando Giampaolo Pansa Non si trattò di un «disastro naturale», come scrisse qualche cronista all’indomani della strage, ma di una tragedia provocata dall’uomo. Sono stati tre fondamentali gli errori umani: l’aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l’aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l’allarme la sera del 9 ottobre per attivare l’evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione. La geografia dei luoghi, già sconvolta dalla realizzazione della diga, cambiò per sempre. L'ondata rase al suolo i paesi e scheggiò le montagne mentre sul Monte Toc si formò una gigantesca cicatrice a forma di 'M' Case, chiese, alberghi, osterie, piazze, strade e monumenti furono sommersi dall'acqua e dai detriti trascinati dalla forza dell'acqua La commissione d'inchiesta ministeriale scattò subito. Il presidente della Repubblica Antonio Segni accorse nella valle del Piave e, vedendo il disastro dall'alto di un elicottero, pianse. L'iter processuale fu lunghissimo. Nel 1968, il giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, depositò la sentenza contro il direttore costruzioni della SADE Biadene, l'unico che farà un periodo in carcere, ed altre 10 persone di cui due nel frattempo erano decedute Il processo di primo grado si tenne nel tribunale dell'Aquila con le prime tre condanne, nel 1969, a sei anni di reclusione di cui due condonati. Nel 1970, sempre all'Aquila, si tenne l'Appello e ad essere condannati, qui, furono sempre Biadene e una seconda persona La sentenza venne confermata in Cassazione nel 1971 ma l'unico a scontare una pena fu Biadene (cinque anni di reclusione di cui tre condonati) Negli anni Settanta iniziò invece la battaglia per i danni, in sede civile, con un travagliato percorso: la sentenza di primo grado del Tribunale di Belluno arrivò nel febbraio del 1997. La Corte d'Appello di Venezia confermò la condanna per la Montedison (società all'interno della quale era entrata nel frattempo SADE) a risarcire il Comune di Longarone per i danni materiali e morali L'ultimo atto del percorso si chiuse con l'Enel, attuale proprietaria della diga, che pagò penali ai comuni di Erto e Casso. Le polemiche sulla prevedibilità del disastro e sull'iter processuale però non si sono mai placate Negli anni lo Stato fu presente in occasione di visite commemorative. Il primo fu Segni, qualche giorno dopo il disastro. Il secondo Saragat, in occasione della visita nel Veneto per il centenario dell’unione all’Italia, nel marzo del 1966; si fermò al cimitero di Fortogna, poi ripassò per Longarone in novembre nel corso di una visita alle zone alluvionate. In seguito arrivò Sandro Pertini, nel 20° anniversario del disastro. Francesco Cossiga fu a Fortogna, in forma privata, nel settembre del 1985. Per il 40° della tragedia arrivò Il Presidente Ciampi, nel 2003. Per il 50° venne Grasso, presidente del Senato, seconda carica dello Stato, non avendo potuto partecipare Napolitano, e in quell’occasione presentò le scuse dello Stato per aver contribuito a provocare il disastro. L’allora presidente del Senato Grasso nell’occasione fece visita al cimitero del Vajont dove si trovano 1910 lapidi, tutte bianche, tutte uguali, dove purtroppo non sono presenti tutte le vittime perché 1/3 di loro non è mai stato ritrovato. E lo Stato chiede scusa. L’unico presidente della Repubblica a non farsi mai vivo fu Giovanni Leone, ma non sarebbe stato accolto bene. Nei giorni della tragedia era stato a Longarone come presidente del Consiglio, aveva pianto e aveva promesso: «Giustizia sarà fatta». Poi però i superstiti se lo ritrovarono nemico, a capo del collegio di difesa dell’Enel (che sosteneva le stesse tesi della Sade) nel processo dell’Aquila. Il disastro della diga del Vajont è una delle pagine più drammatiche della storia italiana del ventesimo secolo. Ascolta “Gli Occhi della Storia”, dove la radio diventa narrazione nel racconto degli anniversari più importanti della storia. Ne "Gli occhi della Storia” i giornalisti di Giornale Radio descrivono e contestualizzano i principali eventi del passato, per rivivere e comprendere a pieno gli avvenimenti che hanno cambiato la nostra società. Ascolta altre puntate su www.giornaleradio.fm
A cura di Francesco Massardo Il 21 settembre di ogni anno si celebra la giornata internazionale della pace. Questa celebrazione è stata istituita il 30 novembre 1981 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per promuovere il rapporto pacifico e di collaborazione tra gli esseri umani e costruire ponti che permettano di avvicinare i popoli tra loro. Secondo la tradizione, questo è il giorno della non-violenza, in cui ogni nazione dovrebbe cessare qualsiasi ipotetica ostilità nei confronti delle altre. Inoltre, questa giornata è dedicata al dialogo tra i popoli e alla cooperazione con le Nazioni Unite per raggiungere la pace globale. “Il sentiero della nonviolenza richiede molto più coraggio di quello della violenza.” È una delle citazioni più celebri del Mahatma Gandhi e pur nella semplicità non sempre apprezzabile degli slogan, racchiude in fondo il segreto della storia passata e evidentemente recente dell’umanità e il perché della creazione di questa giornata. Per quanto sia drammatico da ammettere e forse difficile da comprendere ad un primo ascolto, essere violenti è decisamente più facile dell’essere non violenti. La prima via richiede essenzialmente una buona dose di coraggio, ma infinitamente minore rispetto alla seconda. In effetti ragionando per naturali predisposizioni dell’uomo, la guerra intesa come manifestazione di violenza quale mezzo per ottenere i propri scopi, appare tanto antica quanto l’umanità stessa. Da Temistocle a Giulio Cesare, da Saladino a Napoleone, passando per Carlo Magno, George Washington e Simon Bolivar, i grandi cambiamenti della storia sono tutti inevitabilmente e a prescindere dai colori, guidati da generali, dai loro eserciti e dalla loro esercitazione della violenza. Se dunque la guerra ha origini antichissime, altrettanto non si può dire della pace, non intesa come pura assenza di conflitto, ma come pacifismo, come intenzione umana di risolvere un conflitto attraverso la non violenza. E certamente una giornata internazionale come quella di oggi, nata appena nel 1981, ne è la prova più eclatante. Fino all’illuminismo, in occidente neppure veniva contemplata un’alternativa alla guerra per la risoluzione dei conflitti, eppure anche dopo la diffusione dei primi manifesti filosofici apertamente contrari alla guerra, sarebbe inesatto parlare di cultura della pace: lo stesso termine pacifismo verrà introdotto nella nostra lingua solo agli inizi del Novecento. Voltaire, Kant e i primi pensatori della pace, la intendevano soprattutto come compromesso, come una sorta di prevenzione dei conflitti e proprio in quest’ottica nacquero anche organizzazioni come le Nazioni Unite o l’Unione Europea, enti che si pongono il pur nobile fine di evitare la guerra, non di ripudiarla, come il recente conflitto in Ucraina, il primo su suolo europeo dai tempi della frammentazione della Jugoslavia, ha recentemente dimostrato. L’umanità, tanto in occidente quanto ad ogni latitudine del pianeta, ad oggi può promuovere la pace, ma non condannare il ricorso alla violenza senza passare per le forche caudine dell’ipocrisia, e quel “si vis pacem, para bellum” di romana memoria oggi risuona come un monito eternamente scolpito nei corsi e ricorsi della storia. La storia del pacifismo che ha portato alla nascita di questa giornata è una storia di paradossi. Il primo è squisitamente temporale: nel secolo scorso, quello delle due guerre mondiali e del grande scontro globale di Stati Uniti e Unione Sovietica, nasce il primo vero movimento pacifista e nascono i primi grandi generali della non violenza: Gandhi, Mandela, Martin Luther King. Per la prima volta la storia non viene scritta dai cannoni. E poi l’estate del 68, la summer of love e le manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Altro paradosso, questa volta geografico. Nel paese più guerrafondaio che esista, centinaia di migliaia di giovani chiedono la cessazione di un conflitto troppo distante e troppo sanguinoso per essere accettato anche dalla working class tendenzialmente lassista e assuefatta alle presunte esportazioni di democrazia a stelle e strisce. Parlare oggi di pace e di pacifismo aiuta realmente a capire come questa giornata non sia da dedicarsi tanto alla pur doverosa memoria del passato quanto alle prospettive del futuro. Il conflitto esploso in Ucraina alla fine dello scorso febbraio ha inevitabilmente riportato in auge sul suolo europeo scenari e bollettini che il vecchio continente sperava di essersi lasciati alle spalle. Ma le bombe e i raid aerei del Donbass non sono che uno dei tanti fronti aperti, dove la strada per la pace è ben lontana dall’essere intrapresa. La striscia di gaza continua a essere luogo di morte, l’Iran continua a coltivare sogni nucleari, mentre anche sul Kosovo si annidano le nuvole minacciose della Serbia. E poi all’orizzonte quella che rischia di diventare la nuova guerra fredda: lo scontro a largo raggio tra il gigante in declino ma non arrendevole, gli stati uniti e la sempre più emergente Cina, che si appresta a entrare nella fase congressuale del partito comunista. Ecco, forse proprio dalle relazioni diplomatiche tra i due colossi dell’economia, entrambi membri del consiglio permanente dell’ONU ed entrambe potenze nucleari, si deciderà il margine ad oggi flebilissimo tra guerra e pace. Un ordine mondiale destinato a cambiare dopo trent’anni di monopolio targato Washington dopo il crollo sovietico, e dove a poco più di cent’anni dal primo grande conflitto mondiale, la piccola ma ambitissima isola di Taiwan rischia di diventare la Bosnia del 1914, e Taipei la novella Sarajevo. Ma la non violenza, la cooperazione, il dialogo non sono antidoti solo contro i conflitti armati: ci sono altre battaglie e altre violenze che presentano oggi un conto salato al pianeta intero. La lotta alle discriminazioni, di ogni genere e forma, sono ben lontane dal conoscere una vittoria finale, tra ritorni di fiamma antiabortisti in America e rigurgiti di razzismo che coinvolgono da vicino anche il nostro paese. Per arrivare poi alla lotta e alla necessità urgente di una cooperazione vera contro il cambiamento climatico, mentre i laghi si seccano, i poli si sciolgono, i mari si innalzano e gli ettari bruciano. In un clima di generale sconforto, la giornata internazionale per la pace guarda soprattutto all’Europa, il continente che ha visto nascere e in buona parte scorrere i due conflitti mondiali e che con grande difficoltà ha cercato di costruire un futuro senza violenza, nel segno dell’unione e della sostenibilità e che non a caso ha scelto proprio l’inno alla pace o nona di Beethoven come inno ufficiale. E per chi non crede più di tanto nell’efficacia della politica, occhi e orecchie sono puntati non a caso sulla figura di papa Francesco, che nella nuova Chiesa di cui si è fatto pioniere ha nella cessazione di ogni violenza, da quella militare a quella climatica, un faro costante. Nel Novecento, il secolo delle grandi guerre e della bomba atomica, nacque e si sviluppò il pensiero pacifista. Nel XXI secolo, negli anni dove la violenza torna a farsi sentire con forza, si dovrà cercare di dare alla pace un’altra possibilità. _______________________________ “Gli Occhi della Storia”, è una produzione di Giornale Radio, dove la radio diventa narrazione nel racconto degli anniversari più importanti della storia. Ne "Gli occhi della Storia” i giornalisti di Giornale Radio descrivono e contestualizzano i principali eventi del passato, per rivivere e comprendere a pieno gli avvenimenti che hanno cambiato la nostra società. 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Com'era il mondo prima dell'11 settembre 2001? Diverso e straordinariamente ingenuo. Una parte di umanità ignorava quasi tutto quello che accadeva nel resto del pianeta. Quell’attacco così spettacolare e vigliacco ha risvegliato l’opinione pubblica dei Paesi Occidentali, mostrato l'immaturità politica degli Stati Uniti, con un cerchio chiuso quest'anno col ritiro dall'Afghanistan. L’attentato all’America parte da molti anni prima, da quando Osama Bin Laden, il terrorista miliardario che avrebbe ideato il piano, veniva usato come pedina, salvo trovarselo come nemico senza controllo. Il governo statunitense era consapevole della sua pericolosità ma si perse tempo, in attesa di un evento che culminò in quel 11 settembre, scatenando una reazione emotiva, politica e militare senza precedenti, contrapposta a congetture e ipotesi di complotto. Gli eventi capitati in seguito tra cui l’invasione dell’Iraq, l'uccisione di Bin Laden, la nascita dell'Isis e gli attentati in tutto il mondo sono collegati e continuano ad essere la deriva di quel gesto folle. Con “Gli Occhi della Storia” curato da Lapo De Carlo riviviamo il giorno che ha spostato la storia in un'altra direzione partendo dagli eventi che lo hanno reso possibile fino al giorno in cui l'attentato ha avuto luogo. Ascolta “Gli Occhi della Storia”, dove la radio diventa narrazione nel racconto degli anniversari più importanti della storia. Ne "Gli occhi della Storia” i giornalisti di Giornale Radio descrivono e contestualizzano i principali eventi del passato, per rivivere e comprendere a pieno gli avvenimenti che hanno cambiato la nostra società. Ascolta altre puntate su www.giornaleradio.fm
2 agosto 1980, le 10,25 di un sabato qualsiasi. Un uomo entra nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione, posa una valigia con 25 chilogrammi di esplosivo di tipo militare accanto al muro portante e si dilegua. 85 morti e 200 feriti. 41 anni dopo un processo vaglia le prove contro i mandanti. Una stazione d’agosto. Il caldo non da tregua, la confusione sotto le pensiline, gente in fila per un biglietto, qualcuno perde il treno, altri trovano la loro coincidenza, altri ancora aspettano figli, nipoti, nonni, madri, parenti lontani. Tassisti attendono i clienti sotto il sole. Arrivi e partenze, sogni e speranze, voglia di mare e riposo. Nulla è diverso intorno alle 10,25 del 2 agosto 1980, a Bologna. Nella sala d’aspetto di seconda classe c’è chi legge quotidiani, i bimbi non stanno fermi e corrono felici, i loro genitori li guardano orgogliosi, i boy-scout sono accampati in un angolo, un signore osserva il tabellone. Chi fuma una sigaretta, chi si incontra per la prima volta o si rivede dopo anni. Qualcuno deve raggiungere città lontane. Storie di gente comune, di vita quotidiana, in una stazione come tante altre, a quell’ora, nel mondo. Volti, occhi, mani, sguardi, discorsi. Accade 41 fa alla stazione di Bologna, prima che qualcosa la trasformi in una grande catasta di macerie di dolore, di orrore, di morte come si può sentire in questi primi appelli della radio del centro operativo di Bologna. Anche i tassisti sono in agitazione. Chiamano alla centrale Quanto può essere terribile il potere distruttivo di ventitré chilogrammi di esplosivo, una miscela di cinque kg di tritolo e T4 denominato “Compound B” di tipo militare, potenziata da diciotto kg di gelatinato, ovvero nitroglicerina a uso civile? Un uomo approfitta della confusione, entra nella sala d’aspetto di seconda classe, porge la valigia accanto al muro portante e se ne va, sparisce, si volatizza. E pochi minuti dopo la stazione diventa un inferno. Per compiere una strage ci vogliono coperture, finanziamenti corposi e protezioni occulte, documenti falsi, competenze militari, mesi di preparazione, soprattutto si deve mettere in campo un’organizzazione di tipo criminale. Poi, dopo la strage, bisogna fuggire, nascondersi in luoghi sicuri, disporre di case, appartamenti, covi. Alla stazione di Bologna, una bomba distrugge, dilania, seppellisce, disintegra uomini, donne, bambini, suppellettili, travi, binari, treni e cose. 85 morti, oltre 200 feriti. La strage più grave in Italia, in tempo di pace. Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini si reca subito nella città colpita. Non è la prima volta. Quell’urlo di morte di vittime innocenti lo abbiamo già sentito in Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), Peteano di Sagrado, Questura di Milano, Piazza della Loggia a Brescia, a San Benedetto Val di Sambro sul treno Italicus e sul rapido 904, in via Fauro a Roma via dei Georgofili a Firenze e in via Palestro a Milano. Eccidi efferati si consumano sempre durante le stagioni dei grandi cambiamenti politici e proprio in mezzo alle principali trasformazioni sociali del Paese. La strage di Bologna è però simbolica. Non solo per la quantità di morti e feriti e per l’obiettivo chiaro e trasparente: Bologna, il crocevia di tutti i binari che portano gente da Nord verso Sud, da Sud verso Nord, lo snodo ferroviario più importante. Quella strage viene pianificata in una stazione d’agosto, per compiere una carneficina. Nulla resta più come prima. Negli anni, la stazione viene ricostruita, non è più la stessa di allora, l'alta velocità le ha trasformato la forma, cambiato la struttura, ma oggi si chiama “Bologna 2 agosto”, un cambio di nome che possiede un valore altamente simbolico. E anche oggi, nella sala d’aspetto intitolata “Torquato Secci”, si attendono nuovi treni, si legge il giornale, si parla, e lo sguardo oltrepassa quello squarcio nel muro. La lapide è sempre lì accanto e rappresenta la dura realtà. Quei nomi e cognomi, quelle loro età, oggi si leggono alzando il mento fino in fondo, sopra il cratere della bomba, davanti a una targa, a futura memoria. I viaggiatori si fermano, non dimenticano, lo sanno, non devono mai dimenticare. Poi c'è il percorso individuale e collettivo di uomini e donne. Il loro privato dolente e la rabbia si sono tradotti in impegno civile: un modello di partecipazione democratico che difende persone colpite negli affetti, altrimenti lasciate sole nel loro destino. Paolo Bolognesi è il Presidente dell'associazione 2 agosto. AGIDE MELLONI IL 2 AGOSTO 1980 GUIDA PER 15 ORE CONSECUTIVE IL BUS 37 DALLA STAZIONE ALL'OBITORIO. UN CALVARIO. I mandanti delle stragi della strategia della tensione che hanno insanguinato il nostro paese dal 1969 al 1980 sono rimasti per lungo tempo nell'ombra. Li abbiamo intravisti più volte tra le carte delle inchieste, nei rapporti riservati dei servizi segreti coperti dagli omissis, durante i processi. Alcuni dei loro nomi oggi emergono nell'ultima indagine sull'eccidio alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 che sfocia nel processo contro i mandanti. Sono Paolo Bellini, ex militante di Avanguardia Nazionale, collaboratore di giustizia e informatore dei servizi, sarebbe uno degli esecutori della strage, in concorso con gli esponenti dei Nar già condannati (Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini, Luigi Ciavardini), Licio Gelli e Umberto Ortolani mandanti e finanziatori, il capo dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno Federico Umberto D'Amato mandante, Mario Tedeschi, piduista e direttore della rivista di destra “Il Borghese”, uno degli organizzatori “per aver coadiuvato D'Amato nella gestione mediatica della strage e nelle attività di depistaggio delle indagini”. Per depistaggio e/o falso in procedimento penale sono andati a processo l'ex generale e dirigente del Centro Sisde di Padova Quintino Spella, poi deceduto, l'ex carabiniere del nucleo investigativo di Genova Piergiorgio Segatel e il responsabile amministrativo di alcune società legate ai servizi Domenico Cadracchia. L’inchiesta nasce da una corposa memoria difensiva di 604 pagine presentata dai legali dell’Associazione dei familiari delle vittime del 2 Agosto alla Procura di Bologna. “Segui il denaro e troverai Cosa nostra”, ripeteva sovente il giudice Giovanni Falcone. Così anche gli inquirenti impegnati nell'ultima inchiesta sulla strage di Bologna seguono come segugi l'odore dei soldi e del potere. È il 13 settembre 1982. Il venerabile della Loggia massonica coperta P2 Licio Gelli viene arrestato negli uffici della banca svizzera Ubs di Ginevra mentre sta ritirando ingenti somme di denaro. Tra le tante carte viene ritrovato un manoscritto nascosto in una tasca ricucita della giacca di Licio Gelli nel momento del suo arresto e mai giunto alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia massonica P2: porta l'intestazione “Bologna – 525779 – X.S.”, con il numero corrispondente ad un conto corrente avviato alla Ubs di Ginevra. All'atto del sequestro emergono poi tre appunti indicati con le sigle G16, G18, G19. Gli investigatori bolognesi collegano il documento “Bologna – 525779 – X.S.” ad altre informazioni in loro possesso, e scoprono che la prima movimentazione del denaro parte in realtà nel febbraio 1979, la stessa data che la Procura generale di Bologna inserisce nelle imputazioni come il momento di inizio della presunta condotta preparatoria all’attentato. E poi restano i ricordi di quel 2 agosto 1980, quando avevo neanche 23 anni e dovevo, come tutti, andare al mare, ma mi trovai a dover raccontare qualcosa che era troppo più grande di me. Mi chiesi da che parte dovevo stare come giornalista. Scelsi da quel momento di stare dalla parte delle vittime. Ascolta “Gli Occhi della Storia”, dove la radio diventa narrazione nel racconto degli anniversari più importanti della storia. Ne "Gli occhi della Storia” i giornalisti di Giornale Radio descrivono e contestualizzano i principali eventi del passato, per rivivere e comprendere a pieno gli avvenimenti che hanno cambiato la nostra società. Ascolta altre puntate su www.giornaleradio.fm
A distanza di vent’anni il ricordo di ciò che è avvenuto nei giorni precedenti il G8 di Genova, durante e dopo, è svilente da qualunque parte lo si osservi ma il tempo scolora le cose e polarizza la memoria. Molti ragazzi non sanno niente di quell’evento, gonfio di storie nella storia e angolazioni opposte. Per capire quello che è successo c’è bisogno di conoscere gli attori e il contesto. L’11 giugno, un mese prima dell’evento, cambia il governo, torna in carica per la seconda volta Silvio Berlusconi e il ministro dell’interno è Claudio Scajola. Siamo a tre mesi esatti dall’11 settembre. Tutto parte con la scelta di Genova come sede del G8 che, per intenderci era un forum politico che riuniva gli otto Paesi più industrializzati del mondo: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti e i rappresentanti dell'Unione europea. Il gruppo si riunisce come forum economico ogni anno e discute questioni di politica internazionale, per definire i futuri assetti del mondo. A contrapporsi a questa riunione e ai significati che si porta appresso c’è il movimento no global. È un periodo storico in cui la globalizzazione è il principale argomento di dibattito in tutto il mondo occidentale. Globalizzazione, intesa come processo economico per il quale mercati, produzioni, consumi e persino i modi di vivere e pensare vengono connessi su scala mondiale, grazie ad un continuo flusso di scambi che omogeneizza tutto. La volontà di una manifestazione politica è garantita anche da Vittorio Agnoletto e Luca Casarini, portavoce del Genoa Social Forum, nato a Genova nel 2000 come "Patto di Lavoro”, composto da ben 1187 sigle tra cui associazioni, partiti, centri sociali, sindacati e ONG italiane ed estere. Agnoletto è noto soprattutto per essere il presidente della Lila, la lega italiana per la lotta all’Aids. In mezzo a loro ci sono però i Black bloc, nome che rivela l’esistenza di persone di diverse nazionalità unite allo scopo di attuare una protesta violenta, devastazioni, disordini e scontri con le forze dell'ordine. Una strategia priva di senso se non quella di creare caos. L’Italia si trova ad ospitare il G8, come sette anni prima a Napoli, e vuole farsi trovare pronta ma fin dalla scelta della città, Genova, vengono fatti errori che si riveleranno fatali. I fatti vanno da mercoledì 18 luglio a domenica 22 luglio e partono nel migliore dei modi, con dibattiti e un clima di festa. Giovedì si riparte con una manifestazione di rivendicazione dei diritti degli extracomunitari e degli immigrati a cui partecipano molti gruppi stranieri, cittadini genovesi, rappresentanti della Rete Lilliput e anche un piccolo gruppo di anarchici; il tutto per un totale di ben 50.000 persone ma non si registrano incidenti, tranne qualche lancio di bottiglia. Venerdì 20 luglio i cortei si moltiplicano. Palazzo Ducale, il luogo in cui si è svolge il vertice G8 è una fortezza. La polizia di Genova divide la città in varie zone, altamente monitorate proprio perché consapevole del rischio incidenti o attentati. Molti attivisti sono comunque decisi a violare la zona rossa, l’area riservata nel centro della città vietata al pubblico per ragioni di sicurezza. Durante la mattina i Black Bloc però creano il vero elemento disfunzionale alla grammatica della protesta. Il principio è quello di aggirarsi per il centro della città distruggendo vetrine, incendiando mezzi e cassonetti, attaccando le banche e lo fanno a ritmo di tamburi. I black bloc poi si disperdono e si riuniscono altrove, pronti a creare altri disordini. Questa volta verso il carcere di Marassi con le molotov, dove gli agenti della polizia penitenziaria riescono a respingerli. Un gruppo di loro si dirige in piazza Manin dove riesce a creare altra confusione ma in quella zona ci sono persone della rete Lilliput, i manifestanti più pacifici e sono lì senza alcun intento aggressivo. Queste le parole di Marina Pellis una testimone: Le Tute Bianche, un movimento di disubbidienza civile affiliato principalmente ai centri sociali italiani non violenti, percorrono un tragitto autorizzato verso Piazza Verdi, nei pressi della stazione ferroviaria di Brignole. Un corteo di circa 10mila persone, ma alcuni tra loro sono vestiti con armature di polistirolo, gommapiuma e con in mano bottiglie di plastica e scudi di plexiglass. In via Tolemaide, a circa 500 metri dalla stazione di Brignole, il corteo viene aggredito da un reparto speciale dei carabinieri con lacrimogeni, nonostante il percorso delle Tute Bianche sia stato autorizzato Durante gli scontri vengono posti dei cassonetti nella carreggiata, allo scopo di rendere difficoltoso il movimento dei mezzi e, di fronte a uno di questi, si ferma un Land Rover Defender dei carabinieri dal quale viene sparato un colpo di pistola da Mario Placanica che uccide Carlo Giuliani, uno dei manifestanti. È un evento drammatico che stravolge completamente lo scenario, e che nei mesi, negli anni a seguire dividerà l’opinione pubblica, la politica e tutta la società civile italiana Il modo in cui è rimasto ucciso Carlo Giuliani ha più ricostruzioni e il perito Carlo Torre, chiamato a investigare sul tema dichiara. I carabinieri e polizia iniziano le cariche e i pestaggi nei confronti dei manifestanti in piazza e nelle vie limitrofe e, riescono a prendere il controllo dell'area; È un finale di giornata violentissimo, con scene a cui non siamo abituati e che lasciano tutti attoniti. Sono i primi anni in cui le televisioni aumentano e insieme a loro i video, le dirette e l’eccezionalità di ogni evento aumenta smodatamente il suo significato di pari passo con le immagini che arrivano. I disordini, la morte, la violenza, la confusione, le ricostruzioni discordanti, le urla, il sangue, il panico e l’inadeguatezza a vivere e raccontare la portata dei fatti creano un profondo senso di disagio nel Paese. Eppure, lo schema è semplice: 1000 black bloc in mezzo a 200.000 manifestanti provocano la polizia in ogni modo, questi reagiscono ma se la prendono con i manifestanti pacifici, mentre ogni volta i violenti si disperdono per creare disordine da un’altra parte. Filippo Ascierto di An che assiste ai disordini dai monitor dei carabinieri però dichiara. La frustrazione delle forze dell’ordine culmina con episodi di violenza senza precedenti verso le persone fermate, come ricorda lo psicologo Evandro Fornasier. È sabato 21 e non è ancora finita. Anzi. I fatti accaduti il giorno precedente, la morte di Carlo Giuliani trasfigurano la realtà, la gravità è tale che arrivano diverse richieste di annullamento della manifestazione comunque respinte dai vertici del Genoa Social Forum; e anche questa volta nei cortei si infiltrano gruppetti di manifestanti violenti, a completare l’opera di scontri, incendi e distruzioni di auto, banche e negozi. Intorno alle 21 di sabato una volante della polizia viene mandata a verificare la presenza di un centinaio di persone davanti alla scuola Diaz, dove dormono 93 persone tra ragazzi e giornalisti in gran parte stranieri, la maggior parte dei quali accreditati; Tutti gli occupanti vengono arrestati e la maggior parte picchiata, i giornalisti accorsi alla scuola Diaz osservano decine di persone portate fuori in barella, uno dei quali rimasto in coma per due giorni e con danni permanenti, come ricorda Mario Portanova giornalista de “Diario”. Le prime immagini mostrate dal giornalista Gianfranco Botta mostrano muri, pavimenti e termosifoni macchiati di sangue. Tra i 63 feriti 3 di loro sono in prognosi riservata: la ventottenne studentessa tedesca di archeologia Melanie Jonasch, vittima di un trauma cranico cerebrale con frattura della rocca petrosa sinistra, ematomi cranici vari, contusioni multiple al dorso, spalla e arto superiore destro, frattura della mastoide sinistra, ematomi alla schiena e alle natiche. Nel successivo processo per l’irruzione all’interno della scuola Diaz, il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier testimonia questo: In questi casi la politica dovrebbe tenersi lontana da conclusioni nell’immediato ma come potete immaginare la reazione fuori e dentro al Parlamento risultò isterica e priva di tutte le informazioni per poter fare affermazioni sensate. Affermazioni che si basavano ad esempio su prove che erano state alterate dalle forze dell’ordine per giustificare azioni autoritarie del tutto illegittime come dichiararono in seguito Filippo Saltamartini, segretario nazionale del sindacato di polizia e il ministro Claudio Scajola. I fatti sono questi, il resto è storia, vento e polvere che si portano via vicende come queste, senza che qualcosa di sostanziale, cambi. Anche il disordine ha bisogno di un ordine, anche l’ordine ha bisogno di buon senso. Ascolta “Gli Occhi della Storia” a cura di Lapo De Carlo, su www.giornaleradio.fm
Iniziamo così la storia di Paolo Borsellino, intervistato poco dopo morte di Giovanni Falcone. Iniziamo così perché l’inscindibilità dei due amici e colleghi è tale da rendere la vita dell’uno intrecciata all’altro e perché in fondo questa è una delle poche confidenze umane di un uomo entusiasta, retto, ironico e disciplinato, la cui vicenda è legata a quella dell’amico. Falcone e Borsellino sono ormai quasi un solo cognome che alimenta un simbolo di coraggio ma che all’interno di quella fetta di storia rivela anche l’Italia meschina, che congiurava alle spalle e persino davanti, mostrandosi ipocritamente solidale. Mostra l’italietta vigliacca che aspetta la morte per parlare di martiri e si nasconde di fronte al male. La storia di Paolo Borsellino parte il 19 gennaio 1940. Cresce in in una famiglia borghese, nell'antico quartiere di origine araba della Kalsa, dove vivono tra gli altri proprio Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta. Paolo Borsellino si laurea in Giurisprudenza il 27 giugno 1962 all'età di 22 anni con il massimo dei voti. Nel 1963 supera il concorso per entrare in magistratura, nel 1967 diventa pretore a Mazara del Vallo, nel 1969 pretore a Monreale. Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo; a luglio entra all'Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia: da questo momento comincia il suo grande impegno sconfiggere l'organizzazione mafiosa. Il 1980 vede l'arresto dei primi sei mafiosi grazie all'indagine condotta da Basile e Borsellino, ma nello stesso anno Emanuele Basile viene ucciso vigliaccamente davanti alla moglie e la figlia. Una barbarie che spinge le autorità a dare la scorta per la famiglia Borsellino. È un anno dove i vertici mafiosi subiscono un cambiamento e salgono al potere i corleonesi di Totò Riina. Sanguinari, autentici macellai privi di coscienza che innescano un’era dove anche le poche regole della mafia vengono ignorate. Da quel momento viene costituito un pool che comprende quattro magistrati: Falcone, Borsellino e Barrile lavorano uno a fianco all'altro, sotto la guida di Rocco Chinnici. Un uomo che conosce e segue da tempo l’evoluzione della mafia che qui spiega in un’intervista del 1983. Rocco Chinnici per Borsellino è quasi una figura paterna, considerata tale probabilmente per aver perso il padre troppo giovane, appena pochi giorni dopo la laurea. Il pool antimafia è una novità in ambito giudiziario come racconta lo stesso Borsellino. Chinnici scrive una lettera al presidente del tribunale di Palermo per sollecitare un encomio nei confronti di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, utile per eventuali incarichi direttivi futuri. L'encomio richiesto non arriverà. Al contrario anche Chinnici viene ucciso da un attentato mafioso il 4 agosto 1983 Borsellino è distrutto: dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita. Il leader del pool, il punto di riferimento, viene a mancare. A sostituire Chinnici arriva a Palermo il giudice Caponnetto e il pool, riesce ad andare avanti raggiungendo altri risultati importanti. Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e Tommaso Buscetta diventa un pentito di straordinaria importanza. Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei pentiti nelle indagini e nella preparazione dei processi. Viene istituito il celebre Maxiprocesso ma viene ucciso il commissario Beppe Montana. Il clima è terribile: Falcone e Borsellino vengono immediatamente trasferiti all'Asinara per concludere le memorie, predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi. Per quanto oggi sembri sconcertante l'opinione pubblica inizia a criticare i magistrati, le scorte e loro il ruolo, con allusioni imbarazzanti per chi le pronuncia. Il 19 dicembre 1986 Borsellino viene trasferito alla Procura di Marsala. Una scelta la sua che suscita polemiche ma che nasconde un’intenzione lucida come ricorda Umberto Lucentini, biografo di Paolo Borsellino. Nel 1987 Caponnetto è costretto a lasciare la guida del pool a causa di motivi di salute. Tutti a Palermo attendono la nomina di Giovanni Falcone al posto di Caponnetto. Il CSM non è dello stesso parere e comincia a farsi largo la possibilità di distruggere il pool. Borsellino scende in campo e comincia una vera e propria lotta politica: raccontando cosa stia accadendo alla procura di Palermo; sui giornali, in televisione, nei convegni, continua a lanciare l'allarme. A causa delle sue dichiarazioni Borsellino rischia il provvedimento disciplinare. Solo il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga interviene in suo appoggio chiedendo di indagare sulle dichiarazioni del magistrato per accertare cosa stia accadendo a Palermo. l 31 luglio il CSM convoca Borsellino che rinnova le accuse e le sue perplessità. Il 14 settembre il CSM si pronuncia: è Antonino Meli, per anzianità, a prendere il posto che tutti aspettavano per Falcone. A Roma viene finalmente istituita la superprocura e vengono aperte le candidature; Falcone è il numero uno I due magistrati lottano uno a fianco all'altro, temono che la superprocura possa divenire un arma pericolosa se in possesso di magistrati che non conoscono la mafia siciliana. Nel Maggio 1992 Giovanni Falcone raggiunge i numeri necessari per vincere l'elezione a superprocuratore. Borsellino e Falcone esultano, ma il giorno dopo la mafia compie la strage di Capaci. Da quel momento Borsellino cambia inevitabilmente, qualcosa dentro di lui prende una direzione umana diversa come ricorda la sorella. A Borsellino viene offerto di prendere il posto di Falcone nella candidatura alla superprocura, ma rifiuta. Il suo obbiettivo ora è preciso, determinato com’è a dare la caccia agli assassini dell’amico. Per questo resta a Palermo, nella procura dei veleni, per continuare la lotta alla mafia. Come è naturale vuole collaborare alle indagini sull'attentato di Capaci e Antonio Ingroia ricorda proprio lo stato d’animo di Borsellino in quel momento. I giorni passano e si arriva al 25 giugno, quando c’è un incontro pubblico al quale Paolo Borsellino viene invitato. È trascorso un mese dall’assassinio di Falcone. Le parole di Borsellino sono dolorose a taglienti: dirette al CSM, e la magistratura dove segnala come ci fosse un disegno per colpire lui e Falcone. È la sua ultima apparizione pubblica. Le indagini intanto proseguono, i pentiti aumentano e il giudice cerca di sentirne il più possibile. Arriva la volta dei pentiti Messina e Mutolo e Cosa Nostra non è più un luogo grigio inespugnabile. Le sue fondamenta diventano sempre più nitide e visibili. Per questo lotta anche per poter avere la delega per ascoltare il pentito Mutolo. Insiste e alla fine il 19 luglio 1992 alle 7 di mattina gli viene comunicata telefonicamente la delega e potrà ascoltare Mutolo. La verità è vicina, il magistrato probabilmente è ad un passo dalla verità che può inchiodare i mandanti dell’omicidio Falcone e svelare intrecci con altre sfere davvero inquietanti e così Riina ordina anche il suo assassinio in una modalità che descrive Giorgio Bongiovanni di Antimafia 2000. Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si reca insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove vive sua madre. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa 100 kg di tritolo a bordo esplode, uccidendo oltre a lui anche Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traia. L'unico sopravvissuto è Antonino Vullo. Le immagini, i suoni, l’incendio e quel senso di disastro che viene spiegato da un poliziotto arrivato da poco sul posto rivela il disorientamento. Lo scenario che si para di fronte al personale della locale Squadra Mobile giunto sul posto continua a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, corpi orrendamente dilaniati». Oltre a danni gravissimi agli edifici ed esercizi commerciali della via. A seguito della Strage di via D'Amelio, nell'attentato sparisce l'agenda rossa di Paolo Borsellino, un taccuino personale sopra cui lo stesso magistrato ha annotato le più importanti considerazioni e fatti che riguardassero la mafia nell'ultimo periodo (tra cui anche i possibili sospettati della strage di Capaci). Qui parte una seconda vicenda che viaggia tra lo squallore e l’inquietante e che culmina con un processo sul depistaggio attuato dopo la strage di via d'Amelio, che vede come imputati i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo accusati di concorso in calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra. Giuseppe Ayala, ex procuratore della Repubblica, pubblico ministero e fresco della nomina alla Camera dei deputati era stato uno dei primi ad arrivare sul luogo della strage, per questo viene chiamato a testimoniare in merito alla sparizione dell’agenda. Ayala darà in diversi momenti testimonianze discordanti, motivate racconta, dalla situazione di grande turbamento emotivo in cui si trovava. L’agenda non sarà più ritrovata ma le indagini proseguono e il 3 luglio 2003, la Cassazione conferma le condanne all'ergastolo inflitte ai mandanti dell’eccidio. Totò Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino, Cosimo Vernengo, Natale e Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Scotto, Gaetano Murano e Gaetano Urso. Questa storia dice tanto ma resta sempre un senso di alienazione verso persone che uccidono, si nascondono, complottano, tradiscono, non hanno valori, principi e alcuna coscienza o rimorso. Il male di esseri che umani non sono e forse lo sono stati solo in tenera età. Forse. E dall’altra parte uomini come Paolo Borsellino, animati da un coraggio a tratti entusiasta, altri stanco, spesso amaro, che si alimenta dal paradosso di una società indifferente, pavida. Il martirio di Falcone e Borsellino è il manifesto di una debolezza
27 giugno 1980. L'aereo Dc 9 Itavia IH870 parte con ritardo dall'aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna. Il suo arrivo a Palermo è previsto intorno alle 21, ma il velivolo non atterrerà mai. 27 giugno 1980, cade di venerdì. Aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna. Sono le 17,30. Il caldo quasi non si sente, un forte temporale rinfresca l'aria, pioggia d'estate, nulla di più.. I bocchettoni dell'aria condizionata raffreddano il salone dell'aeroporto. I taxi scaricano passeggeri con valigie e pacchi. Sembrano non avere fretta alcuna. L'orario di partenza previsto del DC9 IH 870 dell'Itavia per la tratta Bologna-Palermo è fissato alle 18,15. Chi legge un giornale, chi si guarda intorno, chi si reca al duty free. Un profumo, una stecca di sigarette, l'ultimo settimanale, il libro, il quotidiano che non si è potuto leggere al mattino. Luigi Andres è un medico dentista.E' con lui Cinzia Benedetti, appena laureata in lingue all'Università di Pavia. Francesco Baiamonte commercia in carni. Paola Bonati amministra la società Emir. Alberto Bonfietti, insegnante di scuola media a Mantova, giornalista del quotidiano Lotta Continua. Alberto Bosco si occupa di macchinari per l'estrazione del marmo come Andrea Guarano. Maria Vincenza Calderone torna nella sua casa a Palermo. Giuseppe Cammarata è un carabiniere, proprio come Giacomo Guerino. Arnaldo Campanini è un esperto di macchine per l'industria alimentare. Antonella Cappellini é avvocato. Accanto a lei c'è Guelfo Gherardi e molte altre persone. Nomi comuni, volti che puoi incontrare al supermercato, al bar, allo stadio di domenica, vicini di tavolo in una trattoria, ad un concerto. Nomi, cognomi e mestieri. Il Dc 9 dell'Itavia IH870 é come un mulo. Di chilometri ne deve avere fatti molti prima di quel giorno. L'aereo ha volato per tutto il giorno, ma gode comunque di buona salute. L'aereo imbarca i passeggeri all'aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna-Borgo Panigale. E' la sua ultima fatica. L'aereo é terra. Poi diventerà aria e cielo. 20,08. Il volo DC9 Itavia decolla da Bologna con centotredici minuti di ritardo. La torre di controllo gli ha già assegnato un numero di identificazione:IH870. Sale sull'aerovia Ambra 12. 20,26. Il volo del DC 9 sembra inarrestabile. Il pilota comunica ancora con il radar del centro di controllo di Ciampino. Per raccontare il viaggio del DC 9 ci viene incontro il teatro civile di Marco Paolini. 20,40. L'aereo giunge all'altezza di Roma, è spostato leggermente ad est sull'incrocio tra l'Ambra 14 e la Green 23. Per le carte militari aeronautiche il punto si chiama Puma. Vira a destra, abbandona l'Ambra 14 e taglia verso il mare, sorvola Pratica di Mare ed è sopra la lunga distesa di acqua. Mar Tirreno. 20,44. 20,50. Il DC9 è sull'isola di Ponza, la sorvola ed imbocca l'aerovia Ambra 13 che va giù fino a Tripoli, passando per Palermo Punta Raisi dove l'aereo è atteso per le 21,13. Roma Radar vede l'aereo passare leggermente spostato ad Ovest dell'isola. Punto Condor. Sono le 20,59. Il Pilota forse vede qualcosa di inverosimile, lo stupore, la lingua piegata sul palato, neanche una frase, le mani che non rispondono, nemmeno il cervello, la radio proprio non riesce ad attivarla. La paralisi. Una frazione di secondo. Un attimo. Il Dc 9 sparisce dai radar,sepolto ad oltre 3 mila metri negli abissi del mare Tirreno.Nei siti radar c'é agitazione. In questa registrazione inedita che potete trovate sul sito che ho realizzato insieme al collega Fabrizio Colarieti stragi80.it si può ascoltare la conversazione tra la sala operativa di Licola (in codice Barca, e il centro di Marsala). Intanto gli operatori di Ciampino tentano di chiamare l'ambasciata americana. Sempre in quelle ore concitate Martina Franca chiama il sito di Licola,Barca. A distanza di molti anni si conoscono numerosi particolari dell'abbattimento del DC 9 IH870 dell'Itavia. Una verità racchiusa in 5 mila pagine nella sentenza ordinanza del giudice romano Rosario Priore. Nessun cedimento strutturale, nessuna bomba scoppiata a bordo. L' indagine accerta invece la presenza di velivoli militari italiani, francesi e americani, con il transponder spento, tutti impegnati in un'esercitazione militare lungo l'autostrada del cielo percorso dal DC9. Si andrà avanti fino al processo dove generali dell'aeronautica e vertici dei servizi segreti sono stati assolti in via definitiva per i gravi depistaggi sulla strage. 19 anni di accertamenti. 4 anni di istruttoria. 2 milioni di atti giudiziari, perizie e controperizie. I giudici assolvono i generali Tascio e Melillo, prescrivono l'imputazione specifica per i generali Ferri e Bartolucci, e li assolvono dal reato di alto tradimento. Secondo l'accusa, Bartolucci, Capo di Stato maggiore all'epoca del disastro, e il suo vice Ferri, non avrebbero comunicato al Governo l'informazione dell'analisi del radar Marconi, (in cui si rilevava la probabile presenza di aerei non identificati nei pressi del Dc9), e il contenuto di una nota nella quale si faceva riferimento al possibile ruolo di altri aerei militari coinvolti nel disastro. Il 10 settembre 2011, una sentenza emessa dal giudice civile Paola Proto Pisani ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti al pagamento di oltre 100 milioni di euro in favore di 42 familiari delle vittime della Strage di Ustica. Le conclusioni del giudice di Palermo escludono che una bomba fosse esplosa a bordo del DC-9, affermando bensì che l'aereo civile fosse stato abbattuto durante una vera e propria azione di guerra. Il 28 gennaio 2013 la Corte di Cassazione, nel respingere i ricorsi dell'avvocatura dello Stato ha confermato la precedente condanna, condividendo che il DC-9 Itavia fosse caduto non per un'esplosione interna, bensì a causa di un missile o di una collisione con un aereo militare. I competenti ministeri furono dunque condannati a risarcire i familiari delle 81 vittime per non aver garantito, con sufficienti controlli dei radar civili e militari, la sicurezza dei cieli. Il 28 giugno 2017 un ulteriore ricorso dell'avvocatura dello Stato è stato rigettato dalla Corte d'Appello di Palermo, che ha nuovamente additato a causa dell'incidente un atto ostile perpetrato da un aereo militare straniero, americano o francese, anche se non ancora identificato. Chi c'era in quell'aereo? E' una delle domande che si é posto per anni Andrea Purgatori,giornalista del Corriere della Sera. Dal suo lavoro di inchiesta è stata elaborata la sceneggiatura del film “Il muro di gomma” di Risi. 41 anni dal giorno del disastro. Un tempo interminabile che per i familiari delle vittime si é consumato attendendo una verità. Tra rabbia, sconforto, speranza e disillusione. Daria Bonfietti aveva un fratello sul Dc9. Oggi presiede l'associazione dei familiari delle vittime. 27 giugno 1980. Poco dopo le 21. A quell'ora Bob Marley saliva sul palco dello stadio di San Siro di Milano e incantava 100 mila ragazzi. A 1200 chilometri più a sud si consumava una strage. Itavia 870,Do you read? Terminano così le chiamate verso il Dc9. Quell'aereo sorvolava l'Italia in una giornata di sole. Portava persone che volevano soltanto vivere. In molti a Palermo li aspettavano. Dall'aereo non sono mai scesi. 27 giugno 1980. Quel giorno, la nostra coscienza nazionale é sprofondata negli abissi del Mar Tirreno. Ascolta “Gli Occhi della Storia" a cura di Daniele Biacchessi, ogni giorno su www.giornaleradio.fm
La scomparsa di Emanuela Orlandi appartiene ad una delle pagine più misteriose e sconcertanti della storia di questo Paese, perché coinvolge la Chiesa, lo Stato e la criminalità. Lo sviluppo che parte da quello che sembra solo un rapimento, senza voler usare l’avverbio per diminuirne la portata, rivelerà delle verità talmente incredibili da lasciare senza parole chiunque si occupi di questa vicenda e chiunque venga a conoscenza, come voi, dei fatti. Emanuela Orlandi nasce a Roma il 14 gennaio 1968 è la penultima di cinque fratelli. Ha appena terminato il secondo anno del liceo scientifico venendo rimandata a settembre in latino e francese. Ha un gran talento per la musica. 15 anni dopo, Mercoledì 22 giugno 1983, La città è in fermento perché la domenica successiva devono svolgersi delle elezioni politiche. Emanuela trascorre il pomeriggio a lezione presso la scuola di musica della chiesa di Sant’Apollinare, entra alle 16 ed esce alle 18:45, in leggero anticipo rispetto al solito. Subito chiama a casa da un telefono pubblico, per chiedere alla madre il permesso di svolgere un lavoro, un uomo infatti l’aveva fermata per strada proponendole un lavoro di volantinaggio durante una sfilata di moda, offrendole 370 000 lire. È l'ultimo contatto che Emanuela ha con la famiglia. In seguito viene accertato che la ditta di cosmetici in questione — che peraltro impiegava solo personale femminile — non aveva ha niente a che vedere con l'offerta di lavoro fatta alla giovane. Inquieta piuttosto che nello stesso periodo, altre adolescenti dell'età di Emanuela erano state adescate da un uomo con il pretesto fasullo di pubblicizzare prodotti cosmetici in occasione di eventi quali sfilate di moda o altro In realtà intorno alle 17:00, era stata vista nei dintorni di palazzo Madama da due poliziotti, ognuno per proprio conto e da punti diversi, mentre parlava con un giovane alto e biondo che le mostrava quello che sembrava essere un campionario, accanto a una BMW, che tra l’altro si trovava in divieto di sosta. Alle compagne della scuola di musica, Emanuela aveva detto di doverlo rivedere alle 19:00 per discutere con lui dell’offerta di lavoro. Prima delle 19:00 molti testimoni riferiscono di aver visto Emanuela in diverse zone ma dopo le 19:00 non la vede più nessuno. Le ultime a vederla sono quattro compagni della scuola di musica (tre ragazze e un ragazzo) che la notano alla fermata dell’autobus 70, insieme ad altre due ragazze Maria Grazia e Raffaella. Intorno alle 19:30, prima Maria Grazia e poi Raffaella, salirono su due autobus diversi dirette a casa, mentre, a detta di Raffaella, Emanuela non salì a sua volta sul mezzo pubblico, perché troppo affollato, e disse che avrebbe atteso quello successivo. Da questo momento, della ragazza si perdono le tracce La sera, Emanuela non torna a casa. La notte trascorre con la famiglia, dal padre Ercole al fratello Pietro che cercano disperatamente notizie facendo telefonate a tutti gli amici e i conoscenti della ragazza, poi vanno dalla polizia a denunciare la scomparsa. Al commissariato invece di partire subito con le ricerche frenano il padre e lo invitano ad aspettare con la denuncia, la quale verrà fatta solo la mattina seguente. Da qui parte un'altra storia, fatta di intrecci, ambiguità, misteri, ricatti intrecciati al male assoluto e da millantatori, persone ambigue e meschine responsabili direttamente e indirettamente della scomparsa della ragazza. Diviene celebre l’immagine del poster in bianco e nero con una foto sgranata che ritrae Emanuela, sotto la dicitura: Scomparsa. L’immagine grazie alla famiglia appare in tutta Roma e su “Il Messaggero” e il Tempo e diventerà tristemente famosa. La polizia però fatica a prendere la cosa sul serio. Due giorni dopo la scomparsa due testimoni, un ragazzo e il titolare di un bar riferiscono di aver visto Emanuela ma le loro testimonianze si rivelano improduttive e reticenti. 11 giorni dopo la scomparsa il Papa fa un appello che il fratello di Emanuela, Pietro commenta così Il 5 luglio alla sala stampa vaticana arriva una telefonata di un uomo, ribattezzato "l'Amerikano"che afferma di tenere in ostaggio Emanuela Orlandi, sostenendo che molti altri elementi sono già stati forniti da altri componenti della sua organizzazione, "Pierluigi" e "Mario" considerati all’inizio i primi testimoni , e richiede l'attivazione di una linea telefonica con il Vaticano. L’uomo parla di ALI Agca il quale aveva sparato al Papa in nel 1981, chiedendo un intervento del Papa perché venga liberato entro il 20 luglio. Questa una parte della telefonata Le indagini proseguono e gli intrecci con la scomparsa di un'altra ragazza Mirella Gregori, rapita un mese e mezzo prima sempre a Roma sembrano avere la stessa matrice. Anche la famiglia Gregori riceve telefonate anonime con mezzi indizi, viene chiesto al presidente Pertini di dare la grazia all’attentatore del Papa ma Pertini non lo fa, così in una di quelle conversazioni l’amerikano che dice che Mirella è stata uccisa perché Ali Agca non è stato liberato, come ricorda l’avvocato della famiglia Orlandi e ascoltando un breve stralcio della telefonata alla famiglia di Mirella L’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela viene chiusa nel 1997, senza alcun risultato concreto ma solo tra tanti depistaggi. Secondo i giudici la pista internazionale era solo una cortina fumogena. Il tempo passa, poi nel 2005 alla trasmissione Chi l’ha visto arriva questa telefonata Giancarlo Capaldi procuratore aggiunto del caso Orlandi e Andrea Purgatori contestualizzano così, allargando ulteriormente il quadro e le connessioni inquietanti Dunque un criminale acclarato viene sepolto in una tomba, vicina al luogo in cui è stata rapita Emanuela, che in genere è riservata a un cardinale. Una ricompensa per qualcosa che resta misterioso ma che coinvolge Stato, Chiesa e criminalità insieme. La connessione vede sullo sfondo lo Ior e il cardinale Marcinkus come spiegano la legale della famiglia Orlandi e la giornalista del Corriere della Sera Florenza Sarzanini e Purgatori 25 anni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi Sabina Minardi, l’amante di De Pedis viene fuori con nuove dichiarazioni ed emerge un quadro ancora più torbido, la Orlandi è stata consegnata a De Pedis, come ricorda Giancarlo Capaldo La Minardi fa tante dichiarazioni credibili poi improvvisamente tende per motivi inspiegabili a rendersi inaffidabili, inizia ad essere sempre meno lucida e la sua testimonianza viene screditata. La Orlandi è un tassello in un sistema di ricatti che fanno archiviare nuovamente l’inchiesta. In seguito viene ritrovata un audiocassetta con la voce che Pietro Orlandi e le persone vicine ad Emanuela riconoscono come la sua. E’ un audio terribile nel quale le voci degli uomini sono state tagliate e che viaggia tra lo scambio sessuale e il rito satanico. Viene deciso che si tratta di un audio preso da un porno ma non ci crede nessuno. Ne sentiamo un breve estratto perché è scioccante L’audio prosegue per altri due minuti e lascia tutti sgomenti. Il fratello di Emanuela dicevamo che riconosce la voce e Capaldi conferma Infine lo scrittore Gianluigi Nuzzi rilegge la decisione estrema di Ratzinger alla luce degli scandali sessuali ed economici nella Santa Sede e inserisce la vicenda di Emanuela Orlandi. Dopo tutto quello che avete sentito non c’è bisogno di aggiungere altro. Emanuela ha incontrato il male, le persone che fanno parte di questa vicenda, sono esseri dalla morale immorale, dominati da una spietatezza priva di coscienza e dal pensiero ambiguo come rivela la surreale intervista a due tra Marco Fassoni Accetti, presunto rapitore di Emanuela e il fratello Pietro Orlandi. L’equivocità che ha guidato le menti malate dietro alla scomparsa e al probabile omicidio di Emanuela Orlando fanno parte di un contesto nel quale la cattiveria ha preso diversi travestimenti in persone che sono ancora libere e in mezzo a noi. Libere di continuare a diffondere il male.
Iniziamo con le parole di Piero Angela, all’epoca conduttore sgomento per le immagini e la cronaca dell’omicidio di Bob Kennedy. Ci sono uomini che avrebbero potuto cambiare in meglio il nostro modo di vivere, i nostri valori, uomini che avrebbero dato un contributo al Paese e forse anche all’Umanità, uomini a cui è stata tolta la vita prima o durante un percorso. Uno di loro era proprio Robert Francis Kennedy, chiamato amichevolmente e amorevolmente Bob, uno dei tanti, troppi Kennedy che ha subito una fine atroce ancora molto giovane, ucciso nella hall dell’hotel Ambassador di Los Angeles, il 6 giugno del 1968. Solo due mesi prima l’America ha assistito sgomenta a un altro assassinio, quello di Martin Luther King, a cui lo stesso Bob si sentiva molto vicino. La sera di quell’omicidio Robert Kennedy doveva parlare in un sobborgo di afroamericani a Indianapolis. Era stato lui a dare la notizia e mentre in molte altre parti degli Stati Uniti quella notte ci furono duri scontri e proteste, ad Indianapolis la situazione rimase calma. La storia di Bob Kennedy la facciamo partire dalla laurea all'università di Harvard nel 1948, dopo una breve esperienza nella marina militare. Consegue la specializzazione in Legge all'Università della Virginia nel 1951 e guida la campagna per le elezioni al Senato (1952) che vede candidato, poi vincente, il fratello maggiore John. Appena uscito dalla facoltà di giurisprudenza, Kennedy si unisce alla Divisione Criminale del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti nel 1951. Nel 1953 diviene consigliere della sottocommissione per le indagini del Senato sotto il senatore Joseph McCarthy. Kennedy lascia la posizione solo sei mesi dopo, obiettando alle ingiuste tattiche investigative di McCarthy che stava dando vita al temuto e odioso maccartismo e contro il quale si scontrerà alle primarie delle elezioni presidenziali. Nel 1954 Kennedy si unisce alla sottocommissione permanente per le indagini del Senato come consigliere principale per la minoranza democratica. Kennedy ha giustamente espresso il suo approccio per aiutare le minoranze a raggiungere gli stessi diritti in un discorso agli studenti sudafricani: Ogni volta che un uomo si batte per un ideale, o agisce per migliorare la maggioranza degli altri, o si batte contro l'ingiustizia, invia scatenando una piccola increspatura di speranza, e attraversandosi a vicenda da un milione di diversi centri di energia e audacia, quelle increspature costruiscono una corrente che può spazzare giù le pareti più potenti dell'oppressione e della resistenza." Che Bob Kennedy fosse illuminato, un idealista con i piedi per terra lo dimostra anche questo bellissimo discorso in cui Pierfrancesco favino traduce e recita un suo discorso sul PIL. Robert Kennedy si costruisce un nome entrando tra i principali consulenti legale del senato che lavorano per le udienze del "Comitato anti-rackets", nel 1956. Lascia il comitato nel 1959 per guidare e sostenere la campagna presidenziale del fratello. Durante la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, Robert svolge un ruolo di consigliere chiave nelle questioni cubane dell'invasione della baia dei porci del 1961 e la crisi dei missili 18 mesi più tardi, nell'escalation dell'azione militare del Vietnam e la diffusione e l'allargamento del Movimento per i Diritti Civili e della relativa violenza di rappresaglia. Nel 1960 Kennedy gestìsce la campagna presidenziale del fratello John. Quando viene eletto JFK, Kennedy fu nominato procuratore generale degli Stati Uniti e diviene uno dei consiglieri di gabinetto più vicini a JFK. Quando JFK fu assassinato nel 1963, Kennedy si dimette da procuratore generale nel settembre successivo e annuncia la sua intenzione di candidarsi per un seggio al senato. La sua carriera prosegue in modo travolgente. Vince le primarie in Indiana e Nebraska, perde in Oregon, ma vince poi nel Dakota del Sud e in California, aprendosi la strada per la candidatura alla Casa Bianca. Nella notte tra il 5 giugno e il 6 giugno 1968, nella sala da ballo dell'Ambassador Hotel di Los Angeles, Bob Kennedy incontra i suoi sostenitori per festeggiare la vittoria elettorale conseguita nelle primarie della California. Queste sono le ultime parole prima di essere ucciso pochi istanti dopo. Muore il 6 giugno all'età di 42 anni, la sua promettente amministrazione presidenziale finisce prima che inizi. L'assassino, reo confesso, fu subito arrestato e poi condannato. Si trattava di Sirhan B. Sirhan, cittadino giordano di origine palestinese, che motivò il suo gesto come ritorsione per il sostegno di Kennedy a Israele nella guerra dei sei giorni iniziata un anno e un giorno prima dell'attentato. Una motivazione poco convincente che ha lasciato negli anni molti dubbi, lasciando aperta la strada della stessa cospirazione che aveva portato all’omicidio di John Kennedy da parte di una lobbie e avversari politici. Qui ancora Veltroni definisce lo spessore politico del personaggio. Quei colpi di pistola hanno spento per molti anni la speranza di molti americani (e non solo) in un mondo migliore e hanno cambiato il destino di una generazione. “Una generazione che in Europa si era mobilitata nelle piazze, nelle università, nella Sorbona a Parigi, a Valle Giulia a Roma e che si era riconosciuta in quell’America, era stata spenta da un atto di violenza, l’ennesimo in un America divisa tra bibbia e ideali da una parte e da armi e violenza dall’altra. La contraddizione di un Paese che Kennedy voleva riequilibrare , se non lo avessero ucciso, ci sarebbe probabilmente riuscito. Il 6 giugno il corpo di Bob Kennedy venne portato nella Cattedrale di San Patrizio a New York. Il mattino seguente una fila di persone in lutto che si estendeva per 25 isolati aspettava di omaggiare per l’ultima volta la sua salma. Nel pomeriggio centinaia di altre migliaia di persone salutavano Kennedy mentre guardavano la sua bara passare attraverso un treno funebre in rotta verso Washington. Un treno “lento e desolato” che attraversava parte dell’America e migliaia di persone, agricoltori, operai, bianchi, neri, ricchi, borghesi, poveri, tutti a osservare con sconcerto e rendere il proprio tributo a quel treno che portava un simbolo, quello che gli assassini, i cospiratori, i nemici con l’ottusità della violenza hanno solo accresciuto.
Oggi è la Festa della Repubblica: cioè l’anniversario di quando, nel 1946, 24 milioni di italiani furono chiamati a votare per scegliere la forma di governo dell’Italia dopo la fine del fascismo, repubblica o monarchia. Anche se il 2 giugno viene celebrato come una festa nazionale, 75 anni fa il clima era tutt’altro che festoso. L’Italia era appena uscita dalla Seconda guerra mondiale e il voto si svolse tra le macerie dei bombardamenti alleati e quelle delle demolizioni dei nazisti in ritirata, con centinaia di migliaia di italiani ancora sparsi per i campi di prigionia in tutto il mondo, intere province sotto governo militare straniero e un clima che sembrava vicino a quello di una guerra civile. Alla fine gli italiani scelsero la Repubblica, con 12.718.641 voti contro i 10.718.502 della Monarchia. Lunedi 10 giugno 1946. Ore 18,00, Montecitorio, Salone della Lupa La corte di cassazione è riunita al gran completo. Il Presidente della corte Giuseppe Pagano sta per leggere i risultati finali del referendum istituzionale del 2 giugno. All’improvviso il colpo di scena il presidente Pagano si limita solo a comunicare il numero dei voti senza proclamare come tutti si aspettavano la vittoria della Repubblica sulla Monarchia. La formula utilizzata da Pagano sorprende la platea. Alcide De Gasperi presidente del consiglio, si dice meravigliatissimo. Ore 19.10, De Gasperi sale al Quirinale da Re Umberto II. Per il Governo non ci sono dubbi: i risultati comunicati della Corte di Cassazione sono sufficienti per il passaggio immediato dei poteri al presidente del consiglio e per la nascita di fatto della Repubblica. Non tutti gli italiani ebbero l’opportunità di votare. Ad esempio, non parteciparono alle elezioni i militari prigionieri di guerra nei campi degli alleati e gli internati in Germania che stavano cominciando lentamente a ritornare. Non si votò nella provincia di Bolzano, che dopo la creazione della Repubblica di Salò era stata annessa alla Germania e che dopo la fine della guerra era stata messa sotto governo diretto degli Alleati. Non si votò nemmeno a Pola, Fiume e Zara, tre città italiane prima della guerra, ma che sarebbero passate alla Jugoslavia. E non si votò nemmeno a Trieste, sottoposta ad amministrazione internazionale e al centro di un complicato contenzioso diplomatico che si sarebbe risolto soltanto nel 1954, con il ritorno della città all’Italia. Non ci fu alcun broglio, anche se la leggenda è ancora molto diffusa. Storici ed esperti, che hanno analizzato i risultati con tecniche moderne, concordano nel dire che il voto si svolse in maniera tutto sommato regolare. Un distacco di quasi due milioni di voti è difficilissimo da creare artificialmente: richiede la complicità di migliaia di persone e lascia dietro di sé una lunghissima scia di prove. La leggenda, comunque, è rimasta viva: in parte a causa del clima teso che si respirava in quelle settimane e che continuò per anni a incombere sull’Italia, in parte perché lo spoglio e il processo con cui venne annunciato il referendum furono gestiti in maniera incerta e a volte decisamente pasticciata… Il periodo immediatamente successivo al referendum fu complicato e poco chiaro, finendo per alimentare il sospetto di irregolarità. I primi risultati arrivarono il 4 giugno e sembravano dare in vantaggio la monarchia. Durante la notte e la mattina del 5, la Repubblica passò in netto vantaggio e il 10 la Corte di Cassazione proclamò il risultato: 12 milioni di voti a favore della Repubblica e 10 a favore della monarchia. A sorpresa, nel comunicato utilizzò una formula dubitativa, che rimandava l’annuncio definitivo al 18 giugno dopo l’esame delle contestazioni presentate soprattutto dai monarchici. Il Referendum tra Monarchia e Repubblica, vide le italiane al voto per la prima volta. "Per andare a votare per la prima volta comprai un vestito nuovo, bianco con il fiocco blu. Era una giornata speciale, un sogno che avevamo realizzato". Sono le parole dell'ex partigiana Lydia Franceschi, classe 1923. I risultati ufficiali del referendum furono annunciati il 18 giugno 1946, e fu quel giorno che la Corte di Cassazione proclamò ufficialmente la nascita della Repubblica Italiana. Contemporaneamente, gli italiani votarono anche per eleggere i membri dell’Assemblea costituente. Ci sono state delle eccezioni in cui il 2 giugno non è stata celebrata la Festa della Repubblica, che esiste dal 1948. Per molti anni, e per ragioni economiche, fu resa una “festa mobile”, e fatta ricorrere la prima domenica di giugno: lo si decise nel 1977 a causa della crisi economica, per non perdere un giorno lavorativo. Nell’anno precedente, il 1976, la parata militare era stata annullata a causa del terremoto del Friuli-Venezia-Giulia. Nel 2000 il secondo governo Amato, su iniziativa del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ristabilì la data del 2 giugno, insieme alle celebrazioni ufficiali. Il cerimoniale ufficiale della Festa della Repubblica prevede che il presidente della Repubblica deponga una corona d’alloro in omaggio al Milite Ignoto, all’Altare della Patria che si trova a Roma in piazza Venezia.
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