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Camera d'eco

Author: RSI - Radiotelevisione svizzera

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Camera d’eco è un podcast di audio recensioni curato da studenti svizzeri appassionati di libri che amano condividere la loro passione per la lettura. Attraverso la loro voce esploriamo lo sconfinato universo letterario e scopriamo quali libri hanno amato, odiato o riscoperto!

Tutte le recensioni, andate in onda anche alla radio grazie alla collaborazione tra RSI EDU e Rete Due (Radiotelevisione svizzera), sono disponibili in formato podcast su www.rsi.ch/cameradeco .

107 Episodes
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Gottfried Keller, Johann Peter Hebel, Robert Walser. Sono nomi che a generazioni passate susciteranno forse qualche ricordo studentesco, ma alle orecchie del lettore di oggi paiono ormai vuote di significato. Se aggiungessimo però alla lista alcuni altri elementi, Dürenmatt e Frisch, per esempio, o, ancora, i più recenti Paul Nizon, Gehrard Meier e Peter Bichsel nessuno stenterebbe a riconoscere la linea che collega tre importanti generazioni di scrittori svizzeri.Sono Michele Marchioni e quest’oggi vi accompagnerò in un viaggio a ritroso, alla riscoperta di una delle voci più importanti del nostro panorama letterario. Stiamo parlando di Robert Walser, nato a Bienne nel 1878 e morto a Herisau, nel Canton Appenzello, nel 1956. Il libro che vi voglio presentare venne pubblicato nel 1917 con il titolo Der Spaziergang, la passeggiata, presso l’editore Huber di Frauenfeld. È un breve testo, di circa un centinaio di pagine, che è possibile trovare nella traduzione italiana curata da Emilio Castellani per la casa editrice Adelphi.Prima di tutto però, chi era Robert Walser? "Le tracce che Walser lasciò sul suo cammino furono così lievi che hanno rischiato di disperdersi" nota Georg Sebald, in un saggio in memoria dello scrittore. Giovanni Orelli si domandava, invece, in occasione del centenario dalla nascita, quanta dimestichezza potesse avere il pubblico con questo autore, o se Walser non fosse, in fondo, uno sconosciuto Carneade.Eppure, egli ebbe tanti e grandi lettori, che di lui ebbero grande considerazione. Ricalcando parole altrui e cercando di tracciare un paragone con altri autori, potremmo dire che se la fortuna di Gogol fu determinata dal giudizio positivo di Dostoevskij e se la fortuna di Twain fu legata a quanto di lui ebbe a dire Hemingway, il successo di Walser è legato in gran parte al riconoscimento che gli tributarono altri grandi scrittori.La passeggiata è l'opera che più di altre si avvicina a raccogliere lo spirito dello scrittore e può essere considerata a buona ragione come il modello primario di successive e precedenti variazioni. Qui sono raccolti i temi che riaffiorano altrove nei suoi scritti e qui si esprime al meglio il suo stile nomade e vagabondo. Essa è il racconto in prima persona di un breve viaggio fatto di incontri, arresti, cambi di direzione improvvisi, digressioni e pensieri transitori. In questa gita, che si apre e si chiude nel corso di una giornata, siamo presi per mano dello scrittore, che ci invita a seguirlo e ascoltarlo, in una continua metamorfosi che porta il lettore a chiedersi se si stia ancora parlando del professor Meili, del libraio, del parrucchiere, del pranzo con la signora Aebi o di tutt'altro.La difficoltà del lettore odierno ad avvicinarsi a Walser non sta nel carattere schivo e sfuggente dello scrittore, che in vita non inseguì mai i riconoscimenti e la gloria letteraria, quanto piuttosto nella tendenza del pubblico a ritenerlo un ingenuo e semplice ritrattista di paesaggi. In parte siamo portati a questo equivoco dal carattere stesso della sua prosa, la quale si costruisce sugli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti e sulla valorizzazione di cose all’apparenza insignificanti. Ma Walser non è né uno scrittore per semplici, né, come ebbe modo di definirlo Francois Bondy, uno "scrittore per scrittori". La chiave per accedere alla sua scrittura sta in quello che Walser non dice e nella nostra capacità di vedere oltre, di comprendere i sentimenti che muovono il suo animo.
“Spinta verso la prudenza durante la sua giovinezza, scoprì l’amore una volta cresciuta. La sequenza naturale di un inizio innaturale” (Jane Austen).Salve a tutti, sono Vittoria Sessa ed attualmente sto terminando il mio ultimo anno di bachelor in lingua e letteratura inglese ed Italiana presso l’università di Ginevra.Oggi vorrei proporvi una lettura classica, senza tempo, che sin dall’epoca del romanticismo britannico ha saputo raggiungere e toccare nel profondo i suoi lettori, mi riferisco al romanzo “Persuasione”, scritto dell’unica ed inimitabile Jane Austen, personalmente una delle mie autrici preferite, nonché una delle colonne portanti più amate della letteratura inglese ottocentesca.Il romanzo, come del resto tutti i racconti della Austen, si incentra su un’eroina e sugli eventi che l’accompagnano in un percorso di maturazione sentimentale e sociale. Nel caso di Persuasione tuttavia, Anne Elliot, non è una giovane ragazza pronta a scoprire il mondo ed inserirsi nella società, ma una donna che, secondo i gusti dell’epoca aveva già superato quell’età di giovinezza, bellezza e innocenza che ci si aspetta da una protagonista austiniana, ed era invece ormai troppo vecchia, troppo saggia, matura e totalmente disinteressata da ogni tipo di avventura amorosa che le si presentasse, a meno che, non riguardasse una persona in particolare.La protagonista Anne, figlia di un gentiluomo britannico, è considerata dal padre e dalle due sorelle come insignificante, noiosa, quasi trasparente. Nonostante non abbia ancora raggiunto i trent’anni è considerata quasi al termine dell’età da marito, e la sua bellezza giovanile va man mano sparendo lasciando dietro di se un volto stanco e privo di colore. La vita matrimoniale ed amorosa di Anne sembra ormai giunta al termine, quando ritorna in città una sua vecchia conoscenza giovanile, il Capitano Wentworth. Si scoprirà in seguito che tra i due, otto anni prima era nato un amore smisurato che li aveva portati al fidanzamento. Ma essendo a quei tempi solo un povero marinaio non era considerato all’altezza del rango della nostra protagonista che venne persuasa a rompere il fidanzamento con l’unico uomo che abbia mai amato, e che sempre amerà, per il bene della reputazione della sua famiglia. Questo sbaglio madornale la porterà a vivere i seguenti otto anni in un misero stato di rimorso e tristezza, stati d’animo che continueranno anche dopo il ritorno del Capitano, che ancora rancoroso del rifiuto di lei, pur frequentando gli stessi luoghi e compagnie si impegna nell’ignorarla e a trattarla con freddo disinteresse.Questo romanzo mi ha particolarmente toccata per il suo modo di dipingere una giovane storia d’amore iniziata e finita in un batter d’occhio, ma che a distanza di anni si dimostra di non essersi completamente dileguata dalla mente dei due protagonisti. La Austen rappresenta dei sentimenti d’amore molto forti, molto resistenti, che hanno saputo attendere il loro momento nel manifestarsi. La forza del perdono permette ad Anne ed al Capitano Wentworth di riscoprirsi dopo otto anni di congedo, di ri-apprezzarsi e di innamorarsi tutto daccapo di un amore più forte e più maturo di quello giovanile.Consiglio questo libro a coloro che credono nelle seconde occasioni e che vogliono scoprire come l’amore riesce a farsi strada in una mente matura, seria e rassegnata, riportando l’euforia della giovinezza in un cuore che ormai non ci sperava più.
“Non crede che sia proprio questo che la letteratura deve fare, inquietare?, da parte mia non ho fiducia nellaletteratura che tranquillizza le coscienze.” Mi chiamo Patrizia Costa e sono una studentessa in Lingua, Letteratura e Civiltà italiana all’Università della Svizzera italiana. Il libro di cui vi parlo oggi è Requiem. Un’allucinazione di Antonio Tabucchi (1943-2012). L’opera è scritta, nella sua stesura originale, in portoghese ed è poi tradotta in italiano da Sergio Vecchio per Feltrinelli, nel 1992. In una torrida giornata estiva, un uomo si trova improvvisamente catapultato a Lisbona: sa di dover incontrare un importante poeta, ma questo non prima della mezzanotte. Il racconto si stende su un arco temporale di 12 ore, scandite da una serie di incontri, tutti a loro modo bizzarri,con personaggi vivi e morti che hanno popolato il vissuto di Tabucchi, ma anche personaggi immaginari ripescatida letture dell’autore o interamente frutto di fantasia. Ogni dialogo scioglie un groviglio ancora annodato nella vitadi questo io-narratore-autore, facendo del romanzo un viaggio di commiato a persone e luoghi, idee e movimenti.Sogno e realtà, allucinazione o visione e luoghi si accavallano, rimescolandosi poi secondo il gusto proprio dellamemoria di Tabucchi; tutto nell’attesa di imbattersi nel Convitato, l’ultimo personaggio, illustre poeta e autore cheil protagonista aspetta di incontrare da una vita. Un uomo è catapultato all’improvviso a Lisbona e si trova trascinato in diversi luoghi della capitale portoghese,luoghi in cui incontra diversi personaggi: vivi, morti, reali e di fantasia, personaggi che fungeranno da anticameraall’ultimo e tanto atteso rendez-vous. Tabucchi diventa personaggio. Lo diventa per una pulsione incontrollabile, per il desiderio di omaggiare unalingua, dei luoghi e un autore che sono stati per lui la vera culla del sentimento.Lo fa componendo un requiem che ancor prima che cominci la storia, si dimostra altro rispetto al canone e anzi sitinge di striature polisemantiche: è un addio, un congedo, ma anche Un’allucinazione - come avverte il sottotitolo - eancora una “sonata” e un “sogno” - come ci dice Tabucchi stesso nella Nota che introduce il libro. È quindi un canto,che però proviene da produzioni dell’inconscio, dell’anima, della memoria. Tabucchi crea un amalgama di luoghi e persone, plasmate però in forme nuove dal ricordo e dall’immaginazione.Requiem è sì omaggio alla città, la cultura, il folklore portoghesi, ma ancor più a come si siano fatti simulacro,vestigia di un’esistenza.Nell’opera tempo, spazio e coscienza vengono continuamente affermati e negati: la giornata è scandita dacoordinate temporali precise, ma in cui si trovano a convivere il passato remoto, il passato prossimo, un altropresente. Anche lo spazio ci sembra apparentemente concreto, con rimandi a luoghi riconoscibili, in cui compaiono peròzone grigie, localizzazioni difficili e ampi spostamenti che sono omessi da un capitolo all’altro.Insomma, Tabucchi sembra alla ricerca di qualcosa che sia nella realtà e nel tempo, ma che li superi, che viri versol’onirico e l’utopico, alla ricerca di una zona liminare che ha lo scopo di destabilizzare il lettore, portandolo achiedersi: cos’è reale e cosa immaginario? Cosa vero e cosa falso?Tabucchi compone un canto che dice al ricordo di non sgretolarsi, un canto che spera di diventare eco, un’ondasonora in grado di scomporre e ricomporre le certezze del lettore.
«La strada di mille miglia inizia con il primo passo.»La voce dietro al microfono è di Nicola, per quella che potrebbe essere la sua ultima recensione. A chiudere il mio ciclo di consigli letterari vi porto nuovamente un’opera che proviene dal paese del Sol Levante: Musashi. Scritto da Eiji Yoshikawa, apparve per la prima volta a puntante su di un prestigioso giornale nipponico tra il 1935 e il 1939. La prima edizione Superbur della Biblioteca Universale Rizzoli risale al 1994, con la traduzione italiana di Pier Francesco Paolini.Musashi è un romanzo storico che narra le gesta di Miyamoto Musashi, celebre spadaccino noto per l’utilizzo di due spade, nato probabilmente nel 1584 e morto nel 1645. Pur mantenendosi fedele ai fatti storici, Yoshikawa intreccia abilmente dettagli di fantasia, come le imprese ardimentose, le coincidenze fatali, e una grande storia d’amore autenticamente giapponese. Quest’opera non solo ha goduto di molteplici pubblicazioni in volume, ma sono stati tratti ben sette film e svariate opere teatrali.Passiamo ora alle tre ottime ragioni per leggerlo. Per prima cosa, essendo un romanzo storico, la storia narrata restituisce in maniera fedele un pezzo cruciale della storia giapponese. Per i grandi appassionati di storia è dunque una chicca imperdibile. Un secondo punto di forza deriva dal Musashi storico, il quale non era solo un abile spadaccino, ma aveva anche scritto delle opere filosofiche di cui siamo tutt’ora in possesso. Leggere Musashi è dunque un modo per iniziare ad avvicinarsi alla sua filosofia e agli insegnamenti della cosiddetta Via della Spada. La citazione in apertura non era che un assaggio di questi scritti. Infine la parte “romanzata” della storia sarà in grado di catturare tutti i lettori grazie alla varietà degli episodi, degli incontri e delle avventure che vivrà il protagonista.Cosa ci racconta Musashi? Come anticipato il romanzo storico segue la vita di Miyamoto Musashi e lo fa partendo dal dato storico della battaglia di Sekigahara, avvenuta nel 1600. Il giovane Shinmen Takezō, che solo in seguito diventerà Miyamoto Musashi, giace ferito tra i cadaveri di quella terribile battaglia. L’avventura di Takezō non poteva cominciare in modo peggiore: uno sconfitto dalla storia. Grazie all’aiuto dell’amico Matahachi, anche lui scampato alla disastrosa battaglia, Takezō si riprenderà dalle ferite e dalla delusione della sconfitta. Inizia così per i due giovani un lungo viaggio fatto di incontri e di separazioni, di rocambolesche fughe, di storie d’amore e soprattutto di duelli. A cambiare la vita di Takezō sarà specialmente l’incontro con il monaco Takuan, che lo convincerà ad adottare il nome di Miyamoto Musashi e seguire la Via della Spada. Da quel momento in poi Musashi vivrà solo per la Via, con l’obiettivo di diventare il migliore di tutti. Fondamentale per Musashi sarà anche la sua storia d’amore con l’amica d’infanzia Otsū, la quale passerà la vita cercando di ricongiungersi al suo amato, per poi riuscirci prima di uno dei momenti più noti del romanzo: il duello contro Sasaki Kojirō, divenuto ormai l’emblema dei duelli tra samurai.Quello che riesce a fare Yoshikawa è dunque catturare un preciso momento storico e restituircelo nella sua realtà. Quel periodo fu un periodo di transizione estremamente tumultuoso, dove dopo anni di guerre tra i signorotti locali, i cosiddetti daimyō, la nazione venne finalmente unificata sotto il potere del primo shōgun, Tokugawa Ieyasu. La dinastia dei Tokugawa portò al Giappone duecento anni di pace e prosperità, con una profonda e netta divisione delle classi sociali, ma ci vollero tre generazioni per ottenere quel risultato. Negli anni della vicenda di Musashi la situazione era però ancora instabile, e il romanzo mostra bene i fermenti sociali e gli spostamenti avvenuti. Con la pace si giunse alla realizzazione che il potere militare non era più indispensabile, mentre era fondamentale il talento amministrativo. I samurai si trasformarono così in burocrati. Più delle prodezze di guerra contavano disciplina, autocontrollo e istruzione. E così Miyamoto Musashi si fa portavoce di questa transizione, passando da combattente istintivo a uno che anelava l’autodisciplina zen, alla completa padronanza interiore di sé e un senso di comunicazione con la natura circostante. Da semplice samurai a fondatore di una scuola di scherma e filosofo. Insomma In tempo di pace le arti marziali diventano un mezzo per rinvigorire il carattere.
Buongiorno, mi chiamo Maddalena Muscionico e sono una studentessa di letteratura italiana presso l’Università di Losanna. Il libro di oggi rappresenta un vero e proprio lavoro pionieristico nell’ambito della letteratura multiculturale e intersezionale contemporanea. Il libro nasce per la prima volta nel 2001, momento in cui la restituzione autobiografica di scrittrici donne immigrate risulta essere praticamente inesistente.L’intrigante racconto dell’autrice si sviluppa in una forma fluida e si costruisce attraverso l’esplorazione di vari generi, a partire da quello autobiografico, fino a toccare quello antropologico. È proprio la mancanza di modelli dai quali attingere, che porta alla luce un testo letteralmente unico nel suo genere e che difficilmente incontrerete di nuovo nelle vostre letture. Questo libro, scritto interamente tramite immagini quotidiane e comuni, offre uno spaccato esplicito, senza peli sulla lingua, di quella che è la percezione della nerezza in Italia e l’esperienza di discriminazione che ne deriva. L’oppressione, tuttavia, non sempre è violenta ed esplicita, ma può essere anche latente e sottile; proprio per questo, l’autrice cerca di levigare quello che è il nostro sguardo, insegnandoci innanzitutto a dirigerlo nella direzione giusta.Traiettorie di sguardi racconta il viaggio attraverso numerosi paesi, affrontato dell’autrice Geneviève Makaping, immigrata in Italia dal 1982 partendo dal suo paese d’origine; il Camerun. Sempre più, lungo la sua vicenda e la sua esistenza, emerge una presa di coscienza dello sguardo degli altri nei suoi confronti, la consapevolezza di essere osservata e discriminata. Prestando i suoi occhi, l’autrice rende al lettore visibile quello che è il sistema binario alla base di un’intera società, nella quale esistono la normalità e gli altri, l’osservatore e l’osservato, il bianco e il nero. Ma non si limita solo a questo; Makaping ricollega questioni come l’immigrazione e il razzismo sistemico ad un’origine coloniale, formulando una linea del colore e sottolineando l’importanza della memoria pubblica e storica. L’autrice a tal proposito afferma: «Guardo me stessa che guardo loro che da sempre mi guardano».In questo caso l’unilaterale traiettoria compiuta dallo sguardo comune viene ribaltata; infatti, ora sarà Makaping ad osservare, a ridefinire il suo percorso dal margine verso il centro attraverso l’autoaffermazione della propria identità e alterità. Per la prima volta la scrittrice ha il potere e il diritto di raccontare la propria verità, la propria complessa storia di migrazione, rendendo la scrittura uno dei tanti e forse più potenti luoghi di lotta. L’audace voce dell’autrice consente la decostruzione della nostra percezione nazionale etnocentrica, mostrandoci la possibilità di una diversa, ma non per questo meno vera, prospettiva e narrazione della storia.Makaping attraverso questo libro ci insegna ad ascoltare le potenti voci di coloro che ingiustamente non hanno potuto parlare e soprattutto ci permette di metterci in discussione, interrogandoci su cosa voglia dire essere italiani oggi. Nel caso vi piacesse il libro e voleste approfondire l’argomento vi consiglio la lettura di Sangue giusto di Francesca Melandri, L’unica persona nera nella stanza di Nadeesha Uyangoda.
Mi chiamo Andorra Garobbio e studio letteratura presso l’Università di Zurigo. Ho intrapreso la lettura di questo romanzo dopo aver letto e apprezzato molto Il deserto dei Tartari e Un amore sempre di Buzzati.La boutique del mistero, edito nel 2016 da Mondadori, viene pubblicato per la prima volta nel 1968, quattro anni prima della sua morte. L’antologia nasce dalla volontà dichiarata dell’autore di far conoscere il meglio di quanto aveva scritto. La raccolta è composta da trentuno racconti piuttosto brevi, che declinano in modo diverso i temi prediletti di Buzzati, come l’angoscia, la morte, il surreale, il mistero e lo smarrimento. Quello stesso smarrimento si produce fin dalla copertina, su cui compare un disegno firmato dallo stesso Buzzati, Ritratto del califfo Mash er Rum e le sue venti mogli, dove compare un viso maschile e corpi di donne ma in sembianze di vegetali e frutti.Nell’antologia di racconti si ritrovano temi già affrontati in precedenza dall’autore, come per esempio l’attesa infinita che è la colonna centrale su cui si dipana la sua opera maggiore, il Deserto dei tartari.Leggere l’antologia di racconti è stato per me molto coinvolgente: Buzzati fa leva sull’angoscia e sulla curiosità bruciante che spinge a divorare i racconti per scoprire come finiranno. Vi sono racconti segnati dall’inquietudine, come ne La fine del mondo, in cui improvvisamente una mano enorme compare nel cielo. Altri racconti sono più stravaganti e bizzarri, come il racconto Una goccia: la storia riguarda un condominio e il rumore di una goccia, ma non una goccia che cade, bensì una goccia che sale lungo le scale del palazzo. In altri racconti ancora l’inquietudine si accompagna all’angoscia: in Sette piani un uomo viene ricoverato in ospedale per una semplice febbre. L’ospedale è suddiviso in piani, dove ogni piano rappresenta la gravità della malattia. L’uomo viene spostato nei reparti inferiori con pretesti e equivoci continuando ostinatamente a ribadire che lui non è un malato grave, ma allora perché viene trasferito in mezzo ai moribondi? L’intelligenza di Buzzati sta nel scrivere storie che fanno leva su esperienze di tutti i giorni, banali, ma caratterizzate da elementi bizzarri, distorcendo la routine quotidiana con il filtro dell’angoscia.La boutique del mistero di Dino Buzzati (edito nel 2016 da Mondadori) è consigliato ai lettori amanti dei racconti misteriosi, angoscianti, o ai racconti di Edgar Allan Poe e soprattutto per chi vuole approfondire la scrittura dell’autore italiano, assaporando i suoi racconti brevi meglio riusciti. Con una scrittura semplice, ma con un’accurata scelta di parole e immagini, Buzzati narra situazioni ambigue, di inquietudine, surreali, fino a sconfinare nell’improbabile e nell’assurdo.
“Cavallo pazzo non disse nulla, sapeva bene quali fossero la tradizione e il costume del suo popolo. Sapeva che entrare sotto la tenda con una donna e non sloggiare subito avrebbe significato a tutti gli effetti prenderla in moglie.”Ciao a tutti, sono Alessia, studentessa dell'Università di Lugano, e oggi sono qui per parlarvi di uno dei miei libri preferiti: Gli spiriti non dimenticano, scritto dal giornalista italiano Vittorio Zucconi nel 1998 e pubblicato da Mondadori. L'autore ricostruisce la vita di Cavallo Pazzo, figlio del tuono e della grandine, che nel 1876 sconfisse il 7° reggimento a cavallo dell'esercito americano.Zucconi costruisce il suo racconto attraverso i ricordi dei Lakota Sioux delle grandi praterie che gli raccontano la vita quotidiana, i riti e i segreti di una popolazione devastata dall’ arrivo degli uomini pallidi.È un libro che dalla prima all'ultima pagina è una scossa all'anima. Un racconto, questo, capace di far trattenere il fiato, di versare lacrime, di far accapponare la pelle. Sono 375 pagine di racconti di infinita bellezza che parlano di una comunità meravigliosa ma ostracizzata e dimenticata troppo spesso.Zucconi, con la sua bravura giornalistica e la sua magica penna, ci accompagna in questo viaggio in terra Sioux dove, pagina dopo pagina, attraverso le sue parole, ci si sente talmente vicini a quella gente da sentirsi quasi uno di loro, e diventa impossibile non appassionarsi alla vita incredibile di Cavallo Pazzo, grandioso guerriero ed esempio superbo di valore e di coraggio, un'icona di sobrietà e di nobiltà d'animo. L’abile giornalista riesce a descrivere con eccellenza la splendida cultura dei nativi d'America, così ricca di riti, così in armonia con la natura, così “civile e umana”.Una cultura complessa e rivestita di grande semplicità ma tristemente calpestata dal “Uas'ichu “, dall'uomo bianco che, nella sua avidità di conquista, non si è minimamente preoccupato di comprenderla cercando invece di cancellarla.Lo scrittore entra con delicatezza e quasi in punta di piedi nella vita di Tashunka Uitiko e per raccontarla, come scrive nelle prime pagine, dovrà chiedere il permesso direttamente allo spirito del maestoso guerriero che ancora oggi aleggia sulla sua terra per guidare il suo popolo.Sarà lo stesso Figlio del Tuono, Cavallo Pazzo, a trascinare il lettore nelle sue imprese, ipnotizzandolo con il rumore degli zoccoli che rincorrono bufali, con l'odore del fuoco che brucia nei tipì, con le grida di gioia delle donne e dei bambini, con la sua lingua così speciale e melodica. Zucconi compone un mosaico di voci e racconti, di ricordi e pezzi di storia magistralmente incastonati nella suggestiva cornice del Nord America. Un libro, questo, per emozionarsi, per riflettere e per meravigliarsi davanti a questa etnia. Un reportage storico, asciutto ed educativo che andrebbe proposto nelle scuole e andrebbe letto ai propri figli per farli diventare uomini migliori.Perché Cavallo Pazzo è un modello da seguire e la sua storia drammaticamente attuale può insegnare ancora molto.
«Romeo può essere un uccello e Giulietta può essere una pietra. Romeo può essere un granello di sale e Giulietta può essere una cartina geografica. Che cosa gliene importa di questo al pubblico?»Mi chiamo Céline Bignotti, sono una studentessa del Master in italianistica e études théâtrales (studi teatrali) all’Università di Losanna e quest’oggi sarò la vostra guida alla scoperta di una delle pièces più rivoluzionarie del Novecento: Il Pubblico di Federico García Lorca, di cui vi consiglio l’edizione italiana di Einaudi (2006) a cura dell’ispanista Glauco Felici.Poeta, drammaturgo, musicista, disegnatore, Federico García Lorca è stato un artista a tuttotondo, detentore senza alcun dubbio di quel duende che dall’alba dei tempi alberga nei corpi dei più grandi artisti.Il Pubblico è un'opera teatrale di stampo surrealista scritta fra il 1929 e il 1930. La pièce, giuntaci incompleta, forma insieme alla Commedia senza titolo e Aspettiamo cinque anni la cosiddetta «trilogia del teatro impossibile», chiamata così per via della trattazione di temi particolarmente scandalosi per l’epoca. Ne Il Pubblico Lorca affronta, infatti, in maniera esplicita il tema dell’omosessualità e il pregiudizio farà sì che la pièce venga messa in scena solo 56 anni dopo la sua stesura. La pièce si svolge per lo più in una dimensione onirica e straniante, in questo teatro sotto la sabbia, nel quale è finalmente possibile mettere in scena il desiderio omoerotico: ma come reagirà il pubblico quando scoprirà che in realtà Giulietta è interpretata da un ragazzo di 15 anni?Il pubblico inizia con il Regista (Enrique) che vuole mettere in scena il classico shakespeariano di Romeo e Giulietta. Quest’ultimo viene interrogato da tre uomini barbuti sulla sincerità della tragedia del Bardo e sull’importanza nell’opera del sesso di Romeo. Si susseguono diverse situazioni surrealiste attraverso le quali l’autore dimostra l’impossibilità di mettere in scena la verità del teatro sotto la sabbia.Nell’opera, in particolare, Lorca sviluppa in modo del tutto audace e spiazzante per l’epoca il motivo del sadomasochismo, che si manifesta per mezzo di continue metamorfosi del Regista (Enrique) e dell’Uomo 1 (Gonzalo), i quali sono protagonisti ne Il Pubblico di una relazione amorosa conflittuale. Le figure iniziano così un gioco omoerotico con ruoli alternati di violenza e sottomissione: - «E se io mi trasformassi in pesce luna » chiede la Figura con i sonagli, - «io mi trasformerei in coltello» risponde la Figura con i pampini. Attraverso l’esplorazione del sadomasochismo, Lorca vuole smentire l’idea secondo la quale esistono dei ruoli predefiniti nelle coppie omosessuali e ristabilire al contempo l’importanza della componente del dolore in una relazione amorosa.Eccoci alla fine del viaggio nell’universo teatrale di García Lorca, come abbiamo visto Il Pubblico è un’opera estremamente enigmatica e rivoluzionaria che rimane ancora oggi attualissima. Raccomanderei la lettura della pièce a tutti coloro i quali s’interessano agli studi di genere; a tal proposito consiglierei anche la lettura della silloge poetica lorchiana dei Sonetti dell’amore oscuro. Olte a ciò, se avete già letto Il Pubblico e amate il teatro di Lorca vi consiglio anche le pièces giovanili di Ramón Gómez de la Serna, un autore tanto eccentrico quanto geniale, che anticipa di alcuni anni questo teatro d’avanguardia.
Un uomo apre con trepidazione una busta che contiene l’atteso referto medico. Legge che il risultato è negativo, ma non riesce a capire se esserne sollevato o se è il caso di preoccuparsi.Una ragazza a un colloquio di lavoro tende la mano e si presenta come Rossi Maria; il selezionatore fa una smorfia come se avesse addentato un limone.Sono piccoli disagi che possono capitare a ognuno di noi e che hanno a che fare con la lingua madre, che tendiamo a dare per scontata e ormai acquisita.Mi chiamo Giuliana Santoro, sono una dottoranda in Linguistica italiana all’università di Basilea, e quello che avete appena sentito è l’incipit del libro “Potere alle parole. Perché usarle meglio” di Vera Gheno, Einaudi editore, un saggio di educazione alla cura della lingua (in questo caso l’italiano), il primo strumento che abbiamo in dotazione per relazionarci nel mondo. Partendo dall’osservazione che la società in cui viviamo ci mette continuamente di fronte a situazioni che richiedono di usare la lingua e di usarla bene, Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall’ungherese, per vent’anni collaboratrice dell’Accademia della Crusca, ci guida per mano in un viaggio alla riscoperta delle innumerevoli possibilità che l’italiano offre ai suoi parlanti, aiutandoci a comprendere che la vera libertà di una persona passa dalla conquista delle parole. “Ognuno di noi è le parole che sceglie: conoscerne il significato e saperle usare nel modo giusto e al momento giusto ci dà un potere enorme” chiosa l’autrice.La qualità della lingua di un popolo dipende dai suoi parlanti e dunque ognuno di noi ha in mano le redini del proprio idioma e, allo stesso tempo, la responsabilità di curarlo, perfezionando la conoscenza delle sue forme e dei suoi meccanismi.Che cosa penseremmo del proprietario di una Maserati che la lasciasse sempre parcheggiata in garage pur avendo la patente o di una persona che pur possedendo un enorme armadio di vestiti bellissimi indossasse sempre lo stesso completo? Queste situazioni atipiche – ricorda Vera Gheno nel libro “Potere alle parole” – fanno pensare all’atteggiamento di tante persone nei confronti della propria lingua: pur avendo accesso a un patrimonio immenso e inestimabile ne usano, per pigrizia, imperizia o comodità una piccola parte.La democrazia ha bisogno di persone che capiscano ciò che succede intorno a loro, non di succubi pronti a farsi incantare da un prestigiatore che seleziona le parole per parlare alla pancia invece che alla testa di chi lo ascolta. Padroneggiare gli strumenti linguistici significa spostarsi agilmente tra i registri scegliendo quello di volta in volta più consono alla situazione in cui ci si trova; significa essere in grado di relazionarsi con ogni tipo di interlocutore, vale a dire saper conversare con gli amici al bar ma allo stesso tempo tenere una presentazione formale in un’azienda o al cospetto di un consiglio comunale. Se ognuno di noi è in possesso, come in effetti è, di uno Stradivari, vale la pena di fare lo sforzo – ci esorta l’autrice- di imparare a suonare decentemente il nostro strumento, diventando ogni giorno più competenti per affrontare le sfide della società della comunicazione. Questa pulsione, questa spinta ad interrogarsi sulle parole che ogni giorno scegliamo, consapevolmente o meno, per raccontarci e raccontare è a mio parere l’aspetto più avvincente del libro, quello che mi ha incatenato alle sue pagine e che mi porta a riaprirle pagine ogni qualvolta la lingua s’inceppa o la rigidità di una grammarnazi si impossessa di me.Perché allora leggere questo libro:Motivo numero 1: per riscoprire la bellezza del contegno linguistico e della gentilezza nei confronti degli altri: questo significa parlare e scrivere al meglio delle proprie possibilità,Numero 2: per capire che nella lingua la norma alla fine corrisponde a ciò che viene percepito come giusto in uno specifico momento storico e sociale Numero 3: per imparare ad amare e a curare di più la lingua attraverso la quale, ogni giorno, raccontiamo agli altri chi siamo.
Compiendo un tuffo nel passato fino alle origini della civiltà, nell’antica terra mesopotamica, ecco apparire davanti a voi Gilgameš, re di Uruk.E con lui dalle nebbie del tempo sbuca Nicola, con la sua consueta recensione. Oggi vi presento l’opera considerata come il primo poema epico dell’umanità: L’epopea di Gilgameš. Il suo autore è purtroppo ignoto, ma il poema nella sua forma contemporanea è stato curato da Nancy Katharine Sandars, importante archeologa britannica. Adelphi ne ha pubblicato la versione italiana, tradotta da Alessandro Passi, nel 1986.La ricostruzione del poema non è stata affatto facile: inciso su molteplici tavolette di argilla, esso è stato rinvenuto nell’epoca d’oro degli scavi archeologici, a metà dell’Ottocento. In origine era frammentato in cinque poemi sumerici, ma in seguito il testo è stato unificato in un’unica narrazione tra il 1600 e il 1100 a.C..Giungiamo ora alle tre ottime ragioni per leggerlo. Innanzitutto essendo un poema epico la storia narrata è un perfetto miscuglio di avventura allo stato puro, di morale e di tragedia. In questo senso non è per nulla diverso dai poemi omerici o dai grandi cicli bretoni e carolingi che tutti ben conosciamo. A questo proposito, per i grandi appassionati di storia e comparatistica questa lettura si rivelerà una vera e propria miniera d’oro: infatti quest’opera non ha solamente influenzato i poemi omerici, ma vi si trovano forti similitudini anche nella narrazione biblica cristiana ed ebraica. Infine, leggere il poema significa entrare in contatto con le origini della civiltà e dell’umanità stessa.Cosa ci racconta L’epopea di Gilgameš? Il poema narra le eroiche imprese di Gilgameš, presunto re di Uruk vissuto verso il 2700 a.C. e in seguito divinizzato. Presentato all’inizio del racconto come per un terzo uomo (da parte di padre) e per due terzi dio (da parte di madre, la dea Ninsun), l’eroe da quest’ultima ha ereditato grande bellezza, forza e irrequietezza, dal primo la mortalità. L’epopea narra la preoccupazione del giovane re con la sua condizione di mortale, che lo condurrà a compiere un lungo viaggio in cerca del suo rimedio: la conoscenza e la vita eterna. In origine solo, Gilgameš conoscerà presto Enkidu (l’uomo creato dagli dèi con dell’argilla), che diventerà il suo migliore amico e compagno di avventure. I due viaggeranno a lungo affrontando nemici vari, tra i quali il Gigante Humbaba, ma soprattutto sconfiggeranno il Toro del Cielo, inviato dalla dea Ištar a devastare la Mesopotamia dopo che Gilgameš aveva rifiutato le sue avances, addirittura canzonandola. Il viaggio alla ricerca dell’immortalità condurrà Gilgameš fino a Utnapištim, unico sopravvissuto al Diluvio e protetto del dio Ea, il quale conosce il segreto degli dèi e condivide questa conoscenza con l’eroe, rivelandogli dove si trova la pianta che dona eterna giovinezza.Il primo poema epico dell’umanità affonda dunque le sue radici in una delle questioni più antiche e permeanti della vita umana: il rapporto con la morte. Sin dalle sue origini possiamo vedere come la produzione letteraria umana si sia concentrata sul tema della morte e della memoria. I problemi che affliggono il giovane re Gilgameš non sono dunque poi così diversi dai problemi che possono affliggere la nostra contemporaneità. Cosa succederà dopo la nostra morte? Qualcuno si ricorderà di noi? Verremo dimenticati? Non sarebbe meglio allora vivere eternamente, così da non perdere i propri cari? Il viaggio epico compiuto dal nostro eroe è un viaggio alla ricerca di queste risposte, con una soluzione che forse non è così banale come può sembrare a prima vista. Certo è, che in qualche modo, direttamente o indirettamente, Gilgameš ha ottenuto la risposta che cercava: la sua fama e la sua leggenda lo hanno reso un eroe immortale dell’umanità, e le sue gesta continuano a essere tramandate di generazione in generazione, fino a voi, i suoi lettori moderni.
Esistono libri che chiunque, anche il meno appassionato dei lettori, conosce. Titoli che risuonano come noti e celebri nelle orecchie di ognuno di noi. È il caso de Il nome della rosa di Umberto Eco, pubblicato per la prima volta da Bompiani nel 1980.Mi chiamo Coralie, studio letteratura italiana, e oggi vi parlerò di questo geniale romanzo, vincitore del premio Strega e tradotto in più di 40 lingue.L’autore, Umberto Eco, non ha bisogno di lunghe presentazioni; oltre a pubblicare saggi e romanzi, è stato professore universitario e direttore editoriale della casa editrice Bompiani. I suoi studi riguardano ambiti diversi: la cultura di massa, la semiotica, ma anche il Medioevo.Ecco quindi che non deve stupirci, e nemmeno spaventarci, l’ambientazione medievale del romanzo. In una nota di commento all’opera l’autore stesso dichiara di avere inizialmente pensato a rendere contemporanea la vicenda, ma alla fine ha cambiato idea fortunatamente.La storia è ambientata in un’abbazia del Nord Italia e a raccontarla in prima persona è Adso da Melk, giovane novizio al tempo dei fatti narrati e ormai anziano, che viaggia insieme al suo maestro, e protagonista del romanzo, Guglielmo da Baskerville.La storia inizia con l’arrivo di frate Guglielmo e Adso presso un monastero benedettino, dove si sono recati per partecipare a un incontro che vedrà due gruppi di religiosi confrontarsi in merito alla questione della povertà della Chiesa. La vicenda religiosa però, pur rimanendo presente, passa in secondo piano quando la quiete dell’abbazia inizia a essere turbata da una serie di misteriose morti, che sembrano essere collegate a un manoscritto segreto, custodito nella biblioteca dell’abbazia e poi scomparso. Guglielmo viene incaricato di indagare sulla vicenda, il suo personaggio è sicuramente uno dei più interessanti: brillante e acuto, capace di giugnere a conclusioni degne delle indagini dei detective protagonisti delle serie TV, condisce le sue ricerche con riflessioni filosofiche e perle di saggezza. Adso è il perfetto co-protagonista, goffo e impacciato sa essere, al momento opportuno, un aiuto prezioso (spesso senza saperlo, ma ciò che conta è il risultato).La vicenda si sviluppa in sette giorni, a loro volta divisi seguendo i ritmi della vita monastica, la trama alterna indagini, riflessioni teologiche e il racconto dell’incontro tra le due delegazioni. Certo quest’ultima parte può sembrare poco interessante, ma fidatevi dell’acuta penna di Eco, capace di rendere divertenti e piacevoli anche questi passaggi.Un grande pregio di questo romanzo è il fatto che possa essere letto da chiunque, a prescindere dall’interesse e dalla conoscenza del mondo monastico medievale, che è piuttosto un vivace sottofondo che si lascia cogliere da ciascuno in modo differente. Gli “addetti ai lavori” potranno apprezzare i riferimenti culturali, teologici e storici (oltre alle citazioni in latino), un lettore curioso si farà invece catturare dall’avvincente trama legata al mistero delle morti e del manoscritto.Eco stesso, parlando del suo romanzo, ha dichiarato che non spetta all’autore decidere quale sia la giusta chiave di lettura, questo è un compito del lettore.
Boy - Roald Dahl

Boy - Roald Dahl

2023-04-2904:34

Questa non è un’autobiografia. Afferma lo stesso Roald Dahl nella prefazione del suo libro intitolato Boy (titolo dall’originale inglese: Boy. Tales of Childhood), scritto nel 1984 all’età di 68 anni e pubblicato in traduzione italiana nel 1994 da Salani (traduzione italiana di Donatella Ziliotto). Vi starete chiedendo: come mai questa non è un’autobiografia? L’autore ne spiega subito il motivo: Un’autobiografia è quel libro che si scrive per raccontare la propria vita e che generalmente è zeppo di ogni specie di particolari noiosi.Mi chiamo Marica Iannuzzi e oggi vorrei parlarvi di questa particolare (non) autobiografia.Boy è rivolto al pubblico più giovane ed è corredato da lettere autografe, fotografie e illustrazioni di Quentin Blake, fedele illustratore dei libri di Roald Dahl. Gli avvenimenti narrati si svolgono in Inghilterra e in Norvegia all’inizio del ‘900 e ricoprono l’arco di vita dai 6 ai 20 anni di questo straordinario autore.Roald Dahl, scrittore di romanzi e racconti e anche regista, è un pilastro della letteratura per ragazzi e padre di numerosissimi personaggi ancora oggi celebri. La sua vita è segnata da continue sofferenze: malattie che gli portano via prematuramente moglie e figli e un gravissimo incidente aereo durante la Seconda guerra mondiale. Da difficoltà, troppo ingiuste, e dagli adulti, troppo seri secondo lui, decide di scrivere per i bambini, l’unico modo per divertire anche sé stesso.Boy di Roald Dahl è la sua (non) autobiografia, la selezione di ricordi con cui quest’autore ci dimostra che le esperienze, positive o negative, possono sempre essere trasformate in qualcosa di utile per noi e per gli altri e trasformabili anche… in libri. Non a caso nelle sue storie lui impasta con leggerezza e profondità i personaggi che ha incontrato nella vita e che noi incontriamo in queste sue pagine. Facciamo qualche esempio: dalla sorvegliante della scuola viene alla luce la terribile signorina Spezzindue del romanzo Matilde; dagli sporadici regali in collegio arriva l’ispirazione per scrivere La fabbrica di cioccolato; dalla proprietaria del negozio di dolci che il piccolo Dahl aveva sul tragitto casa-scuola prende vita la nonna del protagonista de La magica medicina. Nell’ultimo capitolo l’autore comincia a parlare del Dahl adulto, uomo d’affari a Londra, definendosi felice, veramente felice (p. 183). Con il suo solito umorismo considera questa vita semplice se confrontata con quella di uno scrittore che è un vero inferno, perché deve forzarsi a lavorare, deve imporsi un orario, deve trovare continuamente nuove idee (p. 183). Secondo lui bisogna essere pazzi, per fare gli scrittori. La loro sola compensazione è un’assoluta libertà. Il loro unico padrone è la loro anima ed è per questo che hanno fatto quella scelta, lui ne è certo (p. 183).E io sono certa che per immaginare, creare, raccontare come questo scrittore bisogna essere geniali, non pazzi. Bisogna diventare grandi restando bambini. Ed è proprio quello che ci accade quando leggiamo Roald Dahl: diventiamo grandi restando bambini. Perché le sue storie riescono a incantarci a ogni età e a trasformare ingiustizie e difficoltà.
Ciao, mi chiamo Nicolekenya Del Curto e sono una studentessa di lingua, letteratura e civiltà italiana all’USI di Lugano. Oggi vorrei parlarvi di un romanzo che, a distanza di anni dalla prima lettura, rimane una presenza viva nella mia esperienza di lettrice: Memoriale di Paolo Volponi, pubblicato per la prima volta nel 1962. Si tratta di un romanzo appartenente alla «letteratura industriale» italiana, un genere letterario nato alla fine degli anni ’50 che, attraverso le parole dei suoi autori, racconta la rapida trasformazione dell’Italia da paese rurale a nazione industriale, con tutti gli effetti che questo mutamento ha provocato anche sul piano antropologico. In effetti, se da un lato l’ascesa dell’industria ha permesso il pieno sviluppo della nazione, dall’altro lato ha causato anche un’importante problematica, inizialmente poco considerata: quella dell’alienazione dell’uomo – in particolare dell’operaio di fabbrica –, il suo estraniarsi al mondo lavorativo e, con il passare del tempo, alla vita stessa. Volponi, che per alcuni anni lavorò al fianco di Adriano Olivetti nella sua fabbrica a Ivrea, lo aveva intuito: ascoltando le confessioni di un dipendente a proposito dei «suoi mali», pare che l’autore abbia tratto ispirazione per il proprio romanzo. I malesseri – fisici e psichici – del dipendente della Olivetti sono gli stessi che il lettore ritroverà nel protagonista del romanzo, Albino Saluggia.Siamo in Italia, negli anni Cinquanta del Novecento. Un considerevole flusso migratorio si sposta da Sud a Nord concentrandosi in grandi città come Milano, Torino e Genova, i cui cieli da qualche tempo si sono tinti di grigio e vengono sfiorati dalle alte ciminiere. Quello che era stato un territorio profondamente agricolo viene gradualmente punteggiato da nuovi edifici all’avanguardia, enormi centri produttivi che segnano un cambiamento definitivo non soltanto nell’industria, ma anche nel paesaggio e nello stesso essere umano: le fabbriche. Albino Saluggia è un ex prigioniero di guerra malato di tubercolosi polmonare, che dopo un periodo di disoccupazione viene finalmente assunto in un’anonima industria del Canavese. Ottimista e volenteroso, Saluggia non sa che, tra i corridoi della «grande industria di X», avrà inizio il suo vero calvario, scandito dal ritmo della catena di montaggio e dalla pressione del lavoro a cottimo. Un ritmo monotono e dilaniante, che invece di guarire i «mali» del protagonista – con i quali il libro si apre – li alimenta, trasformandoli in una vera e propria alienazione – dal proprio lavoro, dalla propria vita.La lettura lenta, a tratti immobile delle prime pagine, si fa sempre più incalzante man mano che i disagi del protagonista aumentano. Le descrizioni elegiache della campagna lasciano uno spazio sempre maggiore alle dure parole messe in bocca al protagonista per parlare del luogo in cui lavora: una fabbrica «immobile» che da ogni parte «mandava lo stesso rumore, [...] un affanno, un ansimare forte».Leggendo il più celebre romanzo volponiano ci si immerge davvero in un’esistenza dilaniata dai traumi del passato e le nuove angosce del presente; stati d’animo espressi magistralmente dall’autore con uno stile che pare cogliere tutte le sfumature e gli affanni di un operaio di fabbrica come Saluggia. Ancora oggi vale la pena fermarsi un momento, nella rapidità del nostro quotidiano, ad ascoltare questo «ansimare forte» che vibra tra le pagine di Memoriale – romanzo che, in tutta la sua originalità, ci rivela quale sia il prezzo che il progresso ha richiesto e che, forse, continua a esigere.
«Flashover è il termine che identifica il momento di transizione tra un incendio in crescita e un incendio nella sua fase matura: la temperatura è uniforme, il fuoco ha raggiunto la totalità delle superfici disponibili, tutto brucia all’unisono.»Mi chiamo Antonio Martignoni e studio italianistica all’università di Basilea. Vi consiglio di leggere Flashover: incendio a Venezia di Giorgio Falco pubblicato da Einaudi nel 2020. Giorgio Falco nasce nel 1967 e dal 2004 pubblica libri premiati da numerosi e prestigiosi concorsi italiani.Flashover muove da un fatto di cronaca: il 29 gennaio del 1996 il Teatro La fenice di Venezia brucia. Ad appiccare il fuoco è stato Enrico Carella, con la complicità del cugino e dipendente Massimiliano Marchetti. Carella era in ritardo sulla consegna di alcuni lavori elettrici per la restaurazione del Teatro, per evitare di pagare la penale che le sue finanze non gli permettevano di saldare, decide di provocare un piccolo incidente sul cantiere: appicca un fuoco che si espande portando alla distruzione dell’intero edificio.All’inizio il libro è un romanzo. Viene narrato un pomeriggio di marzo del 1995 in cui un giovane uomo lascia la laguna Veneziana per dirigersi presso un’autoconcessionale: acquista a rate una BMW. Quest’uomo conduce una vita al di sopra delle sue possibilità, una vita che coincide con l’immagine che ha di se stesso, ma non con le finanze di cui dispone. Quest’uomo è Enrico Carella, colui che un anno dopo darà fuoco alla Fenice.A pag.9 la narrazione si conclude, e l’opera di Giorgio Falco si dispiega in quello che non è «né romanzo, né racconto, né saggio, né novella, né poesia: Flashover». «Da qui in avanti rinunci al romanzo» scrive l’autore (rivolto a sé stesso e al contempo a chi legge, a chi ascolta) «ti concentri sui fatti. Soltanto a pag. 185, poco prima della fine ci sarà un ritorno al romanzo: ma cosa succede fra questi due squarci di storia? Nel vero senso della parola Giorgio Falco apre il libro: ricostruisce e decostruisce una storia vera, viviseziona un’ossessione, si interroga sul denaro, sul suo potere seduttivo e distruttivo, smaschera un personaggio e ne ricava la maschera di tutti.All’interno del libro è centrale la riflessione sui 3 minuti. 3 minuti è il tempo richiesto agli impiegati di Starbucks per servire caffé e dolcetti, è il tempo in cui un medicinale di Angelini promette di far passare il mal di testa da ciclo. 3 minuti è la durata di questa recensione. Dato alle fiamme, 3 minuti è il tempo che impiega un salottino del secondo Novecento a raggiungere il flashover irreversibile. Così scrive l’autore: «3 minuti è il fondamento dell’organizzazione capitalistica degli ultimi decenni, la manifestazione escatologica del nostro mondo e, fin dal primo libro che hai scritto, una delle tue ossesioni.»Attraverso le fotografie di Sabrina Ragucci Giorgio Falco diventa personaggio del romanzo. Infatti lo scritto è intrecciato ad una serie di immagini che pur tracciando un percorso indipendente entrano in dialogo con il testo, ritraendone l’autore mascherato. Da queste immagini fiorisce un ragionamento su quello spazio infinitesimale che si pone fra la maschera, che tutti noi quotidianamente indossiamo, e il volto: lì, secondo l’autore, «succede qualcosa di significativo». È quello spazio infinitesimale che porta Enrico Carella a dare fuoco alla Fenice, che lo porta a scontare la sua giusta pena, che gli permette dopo il carcere di iniziare una nuova vita e diventare un professionista del verde… Il libro è ibrido ed eccede qualsiasi definizione perché coincide solo con sé stesso perché è esso stesso quello spazio infinitesimale. Nel suo scottante realismo, con il suo stile forte e mai compiaciuto, Flashover è uno strumento per capire il nostro passato e aprire una fessura verso il futuro.Ed ora eccoci qui, 3 anni (e al contempo 3 minuti) dopo la pubblicazione del libro – inchiodati tra le fiamme incandescenti di un inferno bianco flashover.
La recensione di Alessia Blum, studentessa all'Università della Svizzera italiana
La recensione di Nina Altoni, studentessa all'Università di Losanna
Buongiorno, mi chiamo Maddalena Muscionico e sono una studentessa di letteratura italiana presso l’Università di Losanna. Oggi mi piacerebbe proporvi un libro che, ora più che mai, è sotto la lente dei lettori di tutto il mondo. Si tratta de L’evento di Annie Ernaux, neovincitrice del premio Nobel per la letteratura 2022. Il libro della scrittrice francese viene pubblicato una prima volta in lingua originale nel 2000, per poi essere ripubblicato da L’Orma Editore nel 2019. Il romanzo breve, tanto da poterlo leggere tutto d’un fiato, riporta, tuttavia, un resoconto esistenziale dal peso inestimabile, ovvero quello dell’aborto clandestino che ha dovuto affrontare da giovane. La struttura diaristica del romanzo, che si presta ad essere specchio fedele della vicenda totalmente autobiografica, genera una perfetta simmetria tra forma e contenuto. La lettura di questo testo dal passo rapido, concesso dalla semplice seppur precisa scrittura e dalla intensa analisi introspettiva, permette ad ogni lettore, che sia donna o uomo, di immedesimarsi nella vicenda. Infatti, L’evento, come il titolo stesso suggerisce, non parla unicamente di aborto, ma bensì delle sensazioni provate nel vivere una vicissitudine, qualsiasi essa sia, che stravolge la vita tanto da mutarla per sempre. Si tratta di sensazioni nelle quali risulta impossibile non riconoscersi: è in questo modo che la storia della scrittrice diventa quella di tutti, o meglio, quella di ciascuno di noi.Tramite un’efficace analessi, l’autrice si addentra in una Rouen, cittadella al Nord della Francia, del 1963; una Francia nella quale l’aborto verrà depenalizzato solamente nell’allora lontano 1975. È in questo contesto che la ventitreenne, studentessa universitaria, scopre di aspettare un figlio indesiderato. Eranux, dichiarando “se non andassi fino in fondo a riferire questa esperienza contribuirei ad oscurare la realtà delle donne schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo”, si fa carico di riportare quello che è stato il percorso, pericoloso fisicamente e debilitante psicologicamente, verso una legittima conquista di indipendenza e libertà del proprio corpo.Il linguaggio utilizzato dall’autrice appare inizialmente sconcertante, dal rifiuto di artifici retorici emerge un’apatia scientifica; tuttavia, indispensabile al fine di raccontare quella che si può definire una narrazione eccezionalmente oggettiva. L’autrice ci apre uno squarcio su questo lasso di tempo eternamente sospeso nell’attesa che l’evento - non della nascita, ma della morte – si compia. Tuttavia, la giovane ragazza ancora non sa, che l’evento consisterà propriamente in entrambe le esperienze; ovvero nella compresenza della dicotomia trascendentale di parto e aborto, vita e morte. In questo sorprendente modo Ernaux ci introduce a una visione del tutto filosofica della maternità. Tramite questo sguardo umano ma in una certa misura distaccato, la scrittrice oramai adulta, scioglie quello che tutt’ora viene taciuto, il tabu di un’intera generazione di donne che hanno dovuto crudelmente soffrire per un diritto inderogabile. Risulta, infine, estremamente affascinante il discorso metaletterario, secondo il quale l’esperienza vissuta in quanto essere umano, ma soprattutto in quanto autrice, si concretizza per Ernaux solamente nella conclusione del processo creativo della scrittura, abbracciando in questo modo la denuncia e la guarigione, l’aiuto a tutte le donne e l’aiuto a sé stessa.Grazie a quest’incredibile narrazione in prima persona, la scrittrice non solo ci offre un pezzo di storia, ma anche un pezzo della sua vita. Consiglio, dunque, il libro a chiunque fosse interessato a questo aspetto storico ancora poco narrato e a chiunque abbia voglia di farsi trasportare in una profonda riflessione esistenziale.
Ciao a tutti, mi chiamo Coralie e studio Letteratura italiana, oggi vorrei proporvi il libro In altre parole di Jhumpa Lahiri, pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Guanda. Jhumpa Lahiri è un’autrice di origine indiana, anche se è cresciuta negli Stati Uniti, dove si è affermata come scrittrice, iniziando a pubblicare nel 1999. I protagonisti delle sue storie sono spesso immigrati di origine indiana, che, cambiando paese, sono costretti a confrontarsi con importanti differenze culturali.Malgrado in molti sostengano che Jhumpa Lahiri sia una scrittrice autobiografica lei non ama essere definita così; in appendice a In altre parole spiega infatti che per i suoi romanzi ha preso ispirazione dalla realtà delle comunità benegalesi che frequentava con i genitori, creando però delle storie originali e frutto della sua fantasia. In altre parole invece, il primo scritto che pubblica in italiano, come dichiara l’autrice stessa, è una storia integralmente autobiografica che, come scritto sul retro di copertina, racconta “ la storia di un colpo di fulmine, di un lungo corteggiamento, di una passione profonda”. In altre parole, di Jhumpa Lahiri, viene definita a tutti gli effetti una storia d’amore, i protagonisti però sono totalmente inaspettati: da una parte c’è la nostra autrice, che si innamora pazzamente della lingua italiana, incontrata per la prima volta durante un viaggio a Firenze, città che visita durante il periodo universitario insieme con la sorella. Qui scatta la scintilla di un amore che cambierà totalmente la vita dell’autrice, che dopo questo viaggio decide di iniziare a studiare l’italiano, uno studio che la coinvolge e la cattura sempre di più. Dopo aver cambiato tre insegnanti Jhumpa capisce che l’unico modo per imparare davvero la lingua è quello di immergervisi completamente; decide quindi di leggere e scrivere solo in italiano, lasciando da parte l’inglese, ma questo non basta. Capisce quindi che è necessario fare il grande salto e trasferirsi, insieme a tutta la sua famiglia, a Roma. Per molti si tratta di un’idea folle, ma del resto chi non ha mai fatto qualche follia per amore? In Italia continua a studiare e scrivere in italiano, tiene una sorta di diario nel quale racconta del suo rapporto con la lingua italiana. Racconta del triangolo che si forma tra le sue tre lingue (inglese, benegalese e italiano), della frustrazione di sentirsi sempre straniera (in America perché ha origini indiane, in India perché è cresciuta all’estero, e in Italia per entrambi i motivi). In un momento di sconforto ci dice che si sente come bloccata al di là di un muro, che non la abbandona mai, impedendole di sentirsi pienamente padrona di una lingua. Credo che la storia di Jhumpa Lahiri meriti di essere letta e raccontata perché è un grande esempio di determinazione; malgrado le delusioni e le difficoltà la nostra autrice non rinuncia al suo sogno, che si concretizza nella pubblicazione di numerosi volumi in lingua italiana. È una lettura sicuramente diversa dal solito, non ci sono grandi colpi di scena, ma il semplice racconto di una straordinaria quotidianità.
“La marea si era alzata, […] l’unica cosa da fare era star fermi all’ancora e aspettare che la marea cambiasse. Il tratto finale del Tamigi si stendeva di fronte a noi come l’inizio di un’interminabile via navigabile.”Ciao, sono Marta Pizzagalli e quello che vi ho letto è l’inizio di Cuore di tenebra, romanzo di Joseph Conrad. La storia inizia con una nave che attende sul Tamigi l’abbassarsi della marea; è allora che, nell’attesa notturna, il marinaio Marlow inizia a raccontare del suo viaggio avvenuto su un’altra imbarcazione e su un altro fiume, un viaggio compiuto per conto di una compagnia che commerciava avorio. Il romanzo si apre allora come un racconto di fiabe: qui non è però una nonna che racconta ai nipoti, ma un marinaio che narra ai compagni la sua avventura avvenuta nel cuore dell’Africa; narra delle popolazioni indigene incontrate e degli europei lì stabilitisi. Il libro viene prima pubblicato a puntate su rivista, nel 1899, poi edito in volume nel 1902. Io l’ho letto nella traduzione italiana di Flaminio Di Biagi, edito da Newton Compton. Conrad fu uno scrittore polacco naturalizzato inglese, prima di dedicarsi alla scrittura fu marinaio e viaggiò per mare fino all’Africa; viaggio da cui proviene l’ispirazione biografica del libro stesso. Lo scrittore viene talvolta affiancato a James Joyce per l’uso del cosiddetto “stream of consciousness”, il “flusso di coscienza” che conduce la narrazione da un punto di vista introspettivo.In Cuore di tenebra, di Joseph Conrad, il narratore racconta alla prima persona e questo risalta immediatamente come un tratto peculiare: Marlow si mostra essere, infatti, un narratore non solo accurato, ma anche profondamente riflessivo. Marlow racconta del suo viaggio nel cuore dell’Africa, con il compito di trovare e riportare indietro un certo Kurtz, uomo misterioso e di grande successo nel mercato dell’avorio locale, che viene venerato come una divinità dalla popolazione indigena, ma ora gravemente malato. “La sua era una tenebra impenetrabile”, così ne parla Marlow. Il tema del colonialismo è ben presente nella narrazione (e fortemente dibattuto dalla critica), ma non penso in realtà che sia il tema centrale del libro. La questione della prossimità del male al cuore dell’uomo mi sembra, infatti, il tema più urgente che Conrad comunica e Marlow testimonia.Nel raccontare, il narratore rielabora e commenta ciò che vede, usando accostamenti di parole, aggettivi e similitudini molto forti e connotativi: afferma per esempio che “la silente regione selvaggia […] mi colpiva come qualcosa di possente e invincibile, come il male o la verità”. Lo stile di Conrad è affascinante e quasi dolorosamente introspettivo. Il “suo” Marlow non si limita infatti alla semplice registrazione dei fatti, come avviene più spesso nelle fiabe, ma li commenta e vi reagisce emotivamente. Il narratore ci comunica di continuo i suoi turbamenti davanti all’oscurità del cuore umano, che la profondità e la solitudine della foresta primigenia fa emergere con violenza.Una delle cose che mi ha più colpita è il fatto che, nel mostrare il lato abominevole e disperato dell’umano, il narratore non lo giudica come un dato esterno. Anzi: egli ne soffre, soffre sulla propria pelle ciò che vede, perché lo riconosce dormiente anche in sé stesso. Questa mi sembra una questione non solo eternamente attuale, ma anche quasi presagio delle tragedie che poi, di fatto, sono seguite nel Novecento. In Marlow si percepisce il timore nei confronti dell’oscurità che incontra, non perché essa sia inopportuna, ma perché gli è interna, presente anche nel fondo dell’intimo.
Il lonfo non vaterca né gluiscee molto raramente barigatta,ma quando soffia il bego a bisce biscesdilenca un poco, e gnagio s’archipatta. Buongiorno, mi chiamo Marica Iannuzzi e sono una studentessa dell’Università di Zurigo.Quello che avete appena ascoltato è l’incipit di Il lonfo, una delle fanfole più famose di Fosco Maraini. La sua raccolta è stata pubblicata per la prima volta negli anni ’60 ed è stata riedita nel 2019 dalla Nave di Teseo con il titolo Gnosi delle fanfole.Ma cosa è una fanfola? Esperimenti di poesia metasemantica – così la definisce l’autore stesso nell’introduzione. Un componimento poetico, quindi, con il quale il poeta sperimenta la poesia (meta)semantica, una poesia che va “al di là” delle parole. Le parole sono apparentemente senza significato, ma rispettano le regole della grammatica e della metrica e i suoni richiamano a qualcosa di conosciuto.Il padre della fanfola è Fosco Maraini, autore italiano, amante e insegnante di lingue e culture orientali e padre della nota scrittrice Dacia Maraini. Nasce nel 1912 a Firenze e nel ‘38 si trasferisce con la famiglia in Asia, dove rimane fino al ‘45 per poi tornare in Italia. È a lui che si deve anche la nascita del termine metasemantica, la tecnica letteraria usata proprio nella sua raccolta di fanfole.La raccolta Gnosi delle fanfole di Fosco Maraini può essere considerata un capolavoro d’invenzione letteraria che raccoglie esperimenti straordinari. A prima lettura i testi possono sembrare confusi, insensati, enigmatici, ma leggendo e rileggendo si possono carpire immagini e narrazioni che – pur travalicando il lessico comune e ordinario – si rivelano linguaggio comunicante. Perché è proprio il linguaggio il vero protagonista. L’autore accosta liberamente parole, il cui suono richiama a forme e a strutture conosciute. Ogni fanfola ha un titolo e ognuna racconta qualcosa e ha un senso proprio. Alcune hanno un tono ironico, altre malinconico, altre ancora esprimono dichiarazioni d’amore o domande esistenziali.Per l’autore la parola è una caramella, qualcosa da rigirare tra lingua e palato con voluttà, a lungo, estraendo fiumi di sapori e delizie. Le parole sono evocative, la fanfola è un testo evocativo, nel quale chiunque, leggendolo – e l’autore consiglia di leggerlo ad alta voce – troverà il proprio significato.E il bello, per me, sta proprio in questo: decifrare una lingua privata e segreta e assistere a veri e propri spettacoli di magia realizzati con le parole. Io ve lo assicuro: tra scontri e incontri di suoni, tra lingua e fantasia, le parole di Fosco Maraini riescono a lasciare chiunque a bocca e orecchie aperte!E un’ultima cosa prima di concludere: durante la lettura o l’ascolto delle fanfole… fate attenzione al vecchio lonfo ammargelluto!
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