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Torino Noir

Author: Loquis

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Un viaggio nel lato oscuro della città sabauda. Scopri assieme a Loquis i misteri e gli omicidi che hanno caratterizzato la città di Torino.
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30 Episodes
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E’ il 23 febbraio 2019 e in via Napione Stefano Leo, un giovane ventottenne biellese, sta camminando placidamente verso il suo luogo di lavoro. L’aria spensierata e il passo sicuro danno l’impressione che il ragazzo sia felice e non sa che sarà proprio questo il motivo per cui perderà la vita in quella mattina d’inverno. Proprio lungo il tragitto viene infatti raggiunto da un suo coetaneo, si chiama Said Mechaquat e prima di quella mattina i due non si erano mai incontrati. Non si conoscono, non vi è nessun conto in sospeso, nessun apparente motivo di rancore, eppure Said gli si avvicina sicuro e lo accoltella mortalmente alla gola per poi scappare verso piazza Vittorio. A permettere alla giustizia di fare il suo corso è proprio il killer, costituitosi alla polizia un mese dopo il delitto. Lo stesso che fornirà agli inquirenti l’agghiacciante movente dell’omicidio: Said aveva comprato un coltello la sera prema della morte di Stefano, confessa poi di aver deciso di compiere il delitto scegliendo un giovane a caso solo perché camminava con l’aria felice. Said aveva inoltre commesso quel barbaro atto proprio a poca distanza dalla casa dell’ex fidanzata, da cui aveva avuto un figlio, e del nuovo compagno di lei. Una situazione, questa, che aveva aggravato la già instabile situazione del giovane marocchino. L’atroce gesto costa a Said trent’anni di carcere e il fallimento del tentativo di vendetta verso la città in cui viveva e dove erano cresciute depressione e ossessione verso l’ex compagna.
Erano gli anni quaranta del secolo scorso e anche a Torino, come in tante altre città, la popolazione aveva imparato a riconoscere il suono sordo delle sirene che annunciavano possibili bombardamenti. La popolazione scappava allora prontamente in uno dei tanti rifugi appositamente ricavati per trovare riparo e salvezza. Tra questi vi erano anche i sotterranei de la Cavallerizza, il suggestivo edificio costruito nel 1668 per volere di Carlo Emanuele II di Savoia. All’epoca la struttura ospitava le abitazioni di numerose famiglie, nonché alcune attività artigianali tra cui un laboratorio di sartoria in cui molte ragazzine del popolo lavoravano dalla sera alla mattina con la schiena china sulle macchine da cucire. Ci fu, così, un giorno che dodici di loro, al suono della sirena che presagiva l’ennesimo bombardamento, si precipitarono giù dalle scale de la Cavallerizza per raggiungere i suoi sotterranei che gli avrebbero dovuto dare riparo. In preda alla paura le giovani sbagliarono però scala e rimasero bloccate in una buia cantina dalla quale, al termine del fracasso delle bombe, non riuscirono più a uscire. I bombardamenti avevano infatti fatto crollare grossi massi che bloccarono le uscite, lasciando le dodici fanciulle morire di fame, di freddo e di paura in attesa che qualcuno si accorgesse della loro scomparsa. Fu solo dopo molto tempo, al termine della guerra, che alcuni operai, a lavoro per sgomberare le macerie dai sotterranei, ritrovarono i cadaveri delle sartine a cui fu finalmente possibile dare degna sepoltura. Da allora la leggenda narra, dunque, che gli spettri delle fanciulle vaghino senza pace tra le mura del palazzo in una lamentosa processione e in cerca di un’uscita che possa portarle in salvo.
La sera del 10 novembre 1978, in una villetta di Piossasco, la trentasettenne Maria Teresa Carpinello sta preparando la cena per sé e per il suo figlioletto di sette anni. Un colpo di pistola distrugge però la quiete di quel placido momento di quotidianità, romprendo il vetro della finestra e colpendo la donna che rimane uccisa davanti al proprio piccolo. Il movente appare incomprensibile e il panico comincia a serpeggiare tra i torinesi, convinti di non poter stare più tranquilli nemmeno dentro le proprie case. Trascorrono quasi vent'anni, quando gli inquirenti, mentre indagavano su alcuni furti, arrestano Franco Fuschi, ex incursore della Marina militare italiana che sembra da sempre aver avuto però un’inquietante doppia vita: nel suo paese di origine è infatti considerato un distinto agricoltore, fervente credente, con però l’hobby delle armi, passatempo che, apparentemente, ama coltivare in solitudine. Interrogato, l’uomo decide di collaborare e confessa infine ben quattro delitti fino ad allora archiviati come insoluti, compreso quello della Carpinello. Gli agenti non si fermano alla confessione, cercano prove a sostegno delle parole del Fuschi e concludono come sia nella natura dell’imputato l’alternanza di verità e menzogne. Nella sentenza che lo condannò comparvero, infatti, anche otto anni di reclusione per autocalunnia. Nonostante questo, il profilo psicologico che emerge da quello che viene considerato tra i più efferati serial killer torinesi, è quello di una persona a cui «Piaceva ammazzare. Provava piacere soprattutto nel constatare l’efficienza dell’arma, nel prendere la mira con calma, per vedere un uomo che cadeva giù come un fantoccio».
I torinesi la chiamavano piazza Carlina, dal nome del Savoia a cui era intitolata, e già prima dell’occupazione francese il boia, armato di cappio o ascia, vi giustiziava i condannati. Fu con l’occupazione napoleonica che, dalla Francia, arrivò un nuovo strumento di morte: la ghigliottina, un sistema che rispetto ai precedenti sembrò ben più “misericordioso” e che venne installato in quello stesso luogo. Fu così che, per l’occasione la piazza venne rinominata piazza della Libertà e si dice che la prima ad inaugurarla fu una donna. Era conosciuta a Torino come la bella cappellaia, proprio per la bottega che gestiva nella stessa piazza in cui venne poi condannata. Era maritata con un uomo il quale non vedeva di buon occhio i tanti giovani che si intrattenevano a parlare con lei nel suo negozio, tanto da arrivare a minacciarla di chiudere l’attività e di relegarla in casa a occuparsi dei lavori domestici. Successe così che, una sera, entrarono nell’abitazione dei due coniugi dei malviventi che immobilizzarono la donna e uccisero l’uomo. Un’altra versione narra che il marito morì dopo aver ingerito la minestra preparata dalla moglie. Qualsivoglia sia la trama a cui credere, l’accusa rivolta alla bella cappellaia fu quella di aver ucciso il marito, sola o in combutta con i suoi numerosi amanti, e fu così condannata al patibolo. Intanto il boia, fremente di provare quel nuovo strumento, venne a sapere che in Francia, in segno di massimo disprezzo, solevano schiaffeggiare il capo mozzato del condannato dopo aver eseguito la sentenza poiché la vittima continuava a vivere anche qualche minuto dopo essere stata decapitata. Volle così provare quel macabro rituale sulla donna, dai cui occhi uscirono però copiose lacrime. La leggenda vuole allora che il fantasma della cappellaia si aggiri ancora nella piazza, manifestandosi nella propria interezza, con il collo segnato da una riga rossa, o con tenendo sotto il braccio la propria testa mozzata. Il suo spettro vaga ancora senza pace alla ricerca dei lunghi capelli che le furono tagliati poco prima dell’esecuzione.
Via Alfieri 15. Un imponente portone si staglia sulla via per sbarrare l’ingresso di un palazzo che oggi ospita una banca, ma in cui un tempo si successero alcuni fatti misteriosi. Era il 1673 quando il ministro delle Finanze di Carlo Emanuele II, duca di Savoia, commissionò la costruzione di questa architettura. Inizialmente nessuna porta sbarrava il suo ingresso, ma la carica coperta dal ministro di certo non attirava le simpatie del popolo e fu presto costretto a costruire un imponente sbarramento. Il portone fu commissionato in gran segreto e venne trasportato e montato in una sola notte nel più assoluto silenzio. Su di essi vennero scolpite figure maligne in grado di intimorire i sudditi. L’opera fu addirittura completata con la rappresentazione del diavolo in persona e tale fu lo sgomento suscitato nelle coscienze del popolo la mattina successiva da instillare la convinzione che il ministro avesse stretto un patto con il demonio in persona, il quale era stato l'artefice della costruzione dell’architettura. La struttura è oggi conosciuta come “il portone del diavolo”, ma non solo per la sua singolare storia, bensì anche per i successivi fatti che avvennero dentro le mura del palazzo che difende e che confermarono la sua inquietante aura: verso la fine del diciottesimo secolo, infatti, fu lo scenario dell’omicidio di una ballerina, mentre nel 1817 vi sparì il maggiore Melchiorre du Perril, il cui scheletro fu rinvenuto murato in un anfratto venti anni dopo. Oggi quel portone protegge le mura che ospitano una banca e gli appassionati di esoterismo potranno chiedersi se sia solo pura casualità…
1925. In quella che oggi è via Roma sorgeva l’Hotel Gran Cairo, un luogo malfamato e spesso frequentato da prostitute, criminali o artisti in cerca di spunti e suggestioni capaci di stimolare la propria creatività. Quello che successe il 2 ottobre di quell’anno in quel luogo, però, lo fece diventare lo scenario di uno dei più cruenti delitti della cronaca nera piemontese: nelle sue stanze, infatti, venne uccisa e depezzata una donna per mano del marito e due suoi complici. Le indagini partirono grazie al ritrovamento di un pacco voluminoso posto sui binari di un crocevia poco distante, da parte di un macchinista che aveva appena arrestato il proprio convoglio. Quel sacco conteneva le gambe, con indosso ancora calze e scarpe con il tacco, di Erina Barbero, prostituta ventisettenne sposata con un noto spacciatore e protettore piemontese. Gli inquirenti arrivarono presto a scoprire la dinamica dei fatti: la donna era in fuga dal marito, poiché aveva assistito all’omicidio da parte di questo nei confronti di un altro trafficante a cui aveva sottratto un’ingente quantità di merce. Proprio perché scomoda testimone oculare del delitto, venne uccisa allo stesso modo nella stanza numero otto dell’hotel. Sempre in quella camera venne fatta a pezzi dal marito e altri due uomini che, per finire, sparpagliarono il suo cadavere in diverse vie della città. La giustizia per Erina arrivò solo in parte, poiché il marito venne condannato a trent’anni di carcere, ma solo per cinque anni venne recluso uno dei due complici, mentre il terzo non venne mai trovato. Oggi quella fatiscente struttura non esiste più, venne chiusa l’anno seguente questo terribile delitto. Via Roma, invece, è oggi divenuta il salotto bene della città.
L’edificio settecentesco di corso Francia 192, oggi conosciuto come villa Sartirana, viene tuttora ricordato da molti con il nome de La Tesoriera. La villa, circondata da un grazioso giardino, è oggi una biblioteca musicale e, occasionalmente, sede di eventi, ma la sua storia l’ha vista palcoscenico di numerosi intrighi che hanno fatto arrivare fino a noi due leggende che la riguardano. L’aura di mistero che la circonda vede come protagonisti ben due fantasmi che abiterebbero le sale del palazzo. Sono le anime di due donne, molto diverse l’una dall’altra: la prima pia e disperata, la seconda dannata e malevola. Il primo spirito inquieto apparterrebbe alla prima moglie del tesoriere generale e consigliere di stato del re sabaudo Vittorio Amedeo II, lo stesso che fece costruire la villa ma che morì presto e senza godere a lungo della sua abitazione. La donna era Maria Battista Cisaletti, morta senza lasciare un erede per sé e per il suo nobile consorte. Si dice che la dama fosse talmente ossessionata dai ripetuti fallimenti di maternità da avere frequenti crisi di nervi. Si sarebbe addirittura rivolta a una fattucchiera la quale però, scontenta dello scarso compenso ricevuto per le sue prestazioni, anziché aiutarla le avrebbe lanciato una maledizione. Maria Battista Cisaletti pare infatti sia morta di parto, insieme al suo bambino, c’è chi dice a causa della maledizione chi per motivi ben più terreni. La leggenda vuole comunque che il suo fantasma si aggiri senza pace per le stanze e i giardini de La Tesoriera: si avvicina ai bambini che incontra, li accarezza e sospirando prega ancora di poter avere un figlio. Ma la storia di villa Sartirana è lunga e, dalla morte del tesoriere, passò poi di mano in mano fino a diventare anche, durante l’occupazione napoleonica, una caserma per i soldati. E’ proprio in questo momento storico che si svolse la vicenda che riguarda la seconda donna il cui fantasma infesta ancora il palazzo. Il suo nome era Ninetta ed era una fanciulla di rara bellezza. La giovane si recava spesso nel palazzo, allora adibito ad abitazione per le truppe napoleoniche, per svolgere dei servizi. Ninetta attirò naturalmente l’attenzione dei soldati i quali non tardarono a mostrarle le loro cattive intenzioni. La fanciulla cercò allora riparo nella cappella del parco, chiedendo asilo al prete che la abitava ma che, tuttavia, le sprangò la porta negandole asilo. Il branco di uomini, allora, la raggiunse, trascinandola all’interno della caserma e facendole tanti soprusi da portarla alla morte. Il suo fantasma gira dunque ancora per la villa, ma non accarezza i bambini né ha preghiere da volgere al cielo: la donna bensì sghignazza e terrorizza i passanti e se poi per caso si imbatte in un prete allora si dice moltiplichi addirittura i suoi sforzi.
Il 16 aprile 1952 Erio Codecà, dirigente FIAT e cittadino modello dalle tranquille abitudini, usciva dalla sua abitazione al numero 24 di via Villa della Regina per portare fuori il cane. Erano passate da poco le 21.00 quando uno scoppio secco turbò la quiete di quell’elegante via collinare. Il vicinato, affacciatosi dalla finestra, scorse la figura di un uomo accasciato a terra accanto al quale un cane, in stato di agitazione, abbaiava furiosamente. Vani furono i tentativi di soccorso, quell’uomo, Erio Codecà, morì poco dopo essere arrivato in ospedale, ucciso da un fatale colpo di pistola. Le indagini scandagliarono presto la vita della vittima che risultò però scollegata da qualsivoglia forma di organizzazione sovversiva o ambiente politico turbolento. Dopo numerosi interrogatori e controlli, il delitto finì quindi nell’elenco dei casi irrisolti e fu solo tre anni dopo il fatto che due personaggi, noti alla polizia per essere abituali informatori, si presentarono in questura per fare il nome dell’uomo che, a loro dire, aveva ucciso il dirigente di via Villa della Regina: si trattava di un certo Giuseppe Faletto. I due affermavano che l’uomo, di professione pescivendolo a Porta Palazzo, si era vantato in pubblico di aver ucciso Codecà e che molte persone, pur essendo a conoscenza del fatto, non avevano aperto bocca per timore di una vendetta da parte dell’ex partigiano con la fama di infallibile tiratore. Seppur le prove contro l’uomo fossero scarse, le forze dell’ordine arrestarono Faletto che venne condannato a giudizio con l’accusa di «omicidio volontario premeditato per motivi futili e abietti». Partì il processo, durante il quale l’uomo si dichiarò sempre innocente, ma che venne infine condannato all’ergastolo per per sette omicidi commessi in tempo di guerra. Per l’omicidio di Erio Codecà venne invece assolto. La vittima di Villa della Regina riposa, quindi, ancora oggi senza che il colpevole del suo assassinio sia mai stato scoperto, mentre Giuseppe Faletto uscì dal carcere dopo soli vent’anni.
Nel 1600 la maggior parte dei matrimoni erano spesso più simili a una negoziazione d’interessi che alla celebrazione dell’amore di due persone che si sono liberamente scelte. Nonostante fosse questa la tendenza dell’epoca, non è quello che accadde a Elena Matilde Provana di Druent e Gerolamo Gabriele Falletti di Barolo, due giovani in procinto di convolare a nozze una mattina d’inverno del 1695. Tra i due era infatti scoppiato un amore sincero che mosse Gerolamo a scendere a patti con il padre di Elena, il conte Giacinto Ottavio Antonio Provana di Druent, assecondando l’avarizia dell’uomo e accettando una dote davvero esigua. Il conte era infatti noto per la sua avidità, aridità di sentimenti e poca accomodanza nei confronti degli altri. Così, pur di veder celebrare il loro amore i promessi sposi accettarono tra le clausole del contratto anche di andare ad abitare a palazzo Provana, casa del conte, sottostando a un’altra abile mossa per ridurre l’esborso. Nel palazzo paterno della sposa i due condussero comunque una vita felice, ebbero tre figli, ma anche dopo tempo della dote promessa dal conte Gerolamo non si ebbe notizia. Il giovane si risolse così ad affrontare il cognato per ottenere quel che gli spettava, ma ne scaturì una terribile litigata che si concluse con l’abbandono del palazzo da parte di Gerolamo e i suoi figli. A Elena Matilde fu però impedito di seguirli, ritrovandosi sola e prigioniera in casa di suo padre. Consumata da una sofferenza senza fine, il mattino del 24 febbraio 1701 la giovane si affacciò per l’ultima volta alle finestre del piano nobile del palazzo e, in camicia da notte, con un ultimo straziante grido di dolore, si lanciò nel vuoto. L’arido padre non si commosse nemmeno di fronte a quel disperato gesto, imprecando contro la figlia e perfino impedendo alla moglie di avvicinarsi al suo corpo per darle l’ultimo saluto. Fu solo nel 1710 che la giustizia costrinse il conte di Provana a versare al genero la dote di Elena Matilde. A dispetto delle sue volontà, inoltre, palazzo Provana passò in eredità al primogenito di Gerolamo e di Elena Matilde, Ottavio Falletti di Barolo, diventando l’odierno palazzo Barolo. Ne seguì un’importante ristrutturazione che ancora oggi mostra nell’ornamento delle finestre la volontà del committente di ricordare questa triste storia: così sul lato del portone d’ingresso che dà verso via San Domenico, si può osservare una fila di sculture che rappresentano piccoli volti femminili con espressioni sgomente, malinconiche, piangenti, mentre uno è contratto in una smorfia di sofferenza, in un silenzioso grido di disperazione. Quella è la finestra dalla quale, in un freddo e nevoso mattino di febbraio, Elena Matilde Provana di Druent decise di porre fine al proprio strazio, lanciandosi nel vuoto.
Era il 1976 ed erano gli anni di piombo. Il capoluogo sabaudo era blindato come un enorme bunker: le strade chiuse, i poliziotti che sottoponevano i passanti a minuziosi controlli, la città sorvegliata da agguerrite pattuglie ventiquattr’ore al giorno. Nessun cittadino si permetteva però di protestare, intravedendo in quelle misure l’unica soluzione per mettere fine al timore di poter uscire di casa senza essere raggiunti da un proiettile. Un evento in particolare permetteva alla popolazione di intravedere la luce in fondo al tunnel di quel periodo cupo della storia italiana: l’inizio del processo ai capi storici delle Brigate Rosse. La sua organizzazione incontrò però non poche difficoltà, poiché i giudici scelti per sovrintenderlo furono più volte minacciati di morte, tanto che molti di loro presentarono certificati medici per esimersi dall’incarico. Con non poche difficoltà e molte ricerche venne infine nominato Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati, che accettò l’incarico. Era il pomeriggio del 28 aprile 1977 quando, a pochi giorni dall’inizio del processo, l’avvocato venne ucciso nell’androne del suo studio in via Perrone 125, freddato a colpi di pistola da un gruppo delle BR. L'omicidio fu rivendicato dal gruppo terroristico con una telefonata al quotidiano «La Stampa» e all'Ansa. In qualità di presidente dell'ordine, Croce aveva assunto la difesa di ufficio dei brigatisti rossi i quali, per invalidare il processo, avevano però ricusato sia i difensori di fiducia che quelli di ufficio nominati dal presidente della Corte di assise. Il processo venne ripreso tempo dopo, ma prima e durante la sua celebrazione altre persone vennero uccise: dagli investigatori Antonio Esposito e Rosario Berardi, al vicedirettore del quotidiano «La Stampa», Carlo Casalegno. Solo un escamotage permise alla giustizia di portare a termine l’iter giudiziario, utilizzando la formula per indicare il difensore come un semplice “garante del rispetto del rito”. Un cavillo questo che rese però possibile la chiusura del processo nel 1978 e la condanna degli imputati.
E’ l’8 agosto 1989 quando Camilla Bini viene vista rientrare per l’ultima volta nel suo appartamento in via Limone 13 bis. Da quel giorno della trentaquattrenne impiegata in una prestigiosa ditta torinese si perdono le notizie. Ancora oggi, a distanza di più di trent’anni, non è stato ritrovato nessun corpo, né è stato individuato nessun colpevole. Il sopralluogo degli inquirenti fa emergere come l’aspetto della casa abbia tutta l’aria di essere stato lasciato da qualcuno intenzionato a rientrare poco tempo dopo, mentre nel lavello della cucina vengono ritrovati indizi del fatto che Camilla prima di sparire abbia ricevuto ospiti. Tra i sospettati compaiono due nomi: Beatrice Della Croce e Paolo Stroppiana. Entrambi colleghi della donna, negano però di aver avuto con lei rapporti extra lavorativi. Versione, questa, confutata dalle numerose testimonianze dei colleghi: Paolo Stroppiana doveva infatti aver avuto un qualche tipo di legame sentimentale con Camilla, mentre Beatrice Della Croce aveva proposto alla Bini di passare insieme la pausa estiva organizzando con lei alcune giornate fuori porta. Che la sparizione di Camilla abbia dunque a che fare con un delitto passionale? O con il rifiuto della Bini a una qualche proposta che scatenò l’ira del suo carnefice? La scomparsa di Camilla Bini è tutt’ora nei fascicoli dei casi irrisolti, ma a far crescere i sospetti e a rigettare ombre sulla coppia Stroppiana - Della Croce fu un'altra tragica sparizione che li vide coinvolti. Si trattò del caso di Marina Di Modica, vista salire sulla sua auto sotto la sua abitazione in via della Rocca e mai più ricomparsa. La donna aveva un appuntamento per discutere della vendita di alcuni suoi vecchi francobolli con un collezionista dal nome non nuovo alle orecchie degli inquirenti: Paolo Stroppiana. A fornirgli un alibi poi fu niente meno che Beatrice Della Croce, anche lei coinvolta ancora una volta con l’uomo in un caso di scomparsa. Stavolta però l’alibi fornito non resse e gli indizi a carico dell’uomo furono davvero tanti per non vederlo condannato a quattordici anni di reclusione. Paolo Stroppiana venne così riconosciuto colpevole per l’omicidio preterintenzionale di Marina Di Modica. Il movente venne individuato nel rifiuto della donna ad avere un rapporto sessuale o alla sua ribellione a un comportamento sgradito. Beatrice Della Croce uscì invece di scena con una condanna per falsa testimonianza, una pena esigua che riconobbe la sua colpa solo nell’aver fornito un alibi falso allo Stroppiana per l’omicidio Di Modica. Dalla cella l’uomo continua a professarsi innocente, mentre per la Bini ancora nessuno è riuscito a fare giustizia. Certamente bisogna essere davvero molto sfortunati per trovarsi casualmente implicati in ben due casi di scomparsa!
Era la mattina del 15 novembre 1988, quando numerose chiamate avvertirono la polizia di strane urla, intervallate a cantilene e colpi sordi, provenienti da un appartamento in via Gradisca 84. Quando gli agenti arrivarono sul posto e individuarono lo stabile da cui si udivano anche richieste d’aiuto, si videro aprire la porta da un uomo che, in evidente stato di allucinazione e con indosso solo un paio di mutande, gliela richiuse in faccia prontamente. Fu allora obbligatorio irrompere con la forza e la scena che si presentò raggelò le forze dell’ordine: due uomini, sommariamente vestiti, stavano danzando sul corpo ferito e sanguinante di una giovane donna. Il loro evidente stato di alterazione richiese l’intervento di rinforzi, poiché non appena si videro braccati i due si scagliarono l’uno contro l’altro mordendosi a vicenda e procurandosi ferite che portarono alla morte uno di loro. Solo più tardi si scoprirono i nomi degli attori della vicenda: erano i fratelli Giuseppe e Gaspare Gullo, che morì prima dell’arrivo in ospedale, e Fosca Setteducati, anch’ella deceduta prima dell’arrivo dei soccorsi per le ferite riportate. Nonostante Giuseppe avesse la lingua lacerata dai morsi del fratello, riuscì a pronunciare parole confuse che permisero una prima e sommaria ricostruzione dei fatti di quella notte. A sua detta la giovane, fidanzata del fratello Gaspare, sarebbe stata posseduta dal demonio. I due, allora, dopo aver ingerito una miscela di droghe e aver avuto con lei un rapporto sessuale, le sarebbero saliti sopra per scacciare il mostro dal suo corpo. Ma la verità sui fatti di via Gradisca venne fuori poco per volta, facendo emergere uno scenario che poco aveva a che fare con gli spiriti e molto con uno squallido e concreto mondo fatto di prostituzione, consumo e spaccio di droga. Un sopralluogo approfondito all’interno dell'appartamento trovò infatti un consistente numero e quantitativo di droghe. Sostanze che però, in maggior parte, erano destinate allo spaccio. I due fratelli erano infatti due balordi dediti alla vendita di droga; Fosca invece, era stata incaricata da una banda di trafficanti di nascondere una partita di eroina. I fratelli si erano allora arrabbiati con lei, quando la donna si rifiutò di dir loro dove la nascondesse e avrebbero deciso di punirla picchiandola fino a sfondarle l’addome e il torace. Avevano poi messo a soqquadro l’appartamento, inscenando la versione di un esorcismo finito male. Anche durante il processo Gaspare Gullo continuò a sostenere la delirante tesi della messa nera, chiese il rito abbreviato e fu infine condannato a ventiquattro anni di carcere: otto per spaccio di droga e solo sedici per il brutale assassinio di Fosca. Così quello che i quotidiani avevano definito un «massacro nel nome di Satana», si scoprì essere una storia di ordinario degrado.
Antonio Andriani è un ex travestito e da poco più di un anno, grazie a un intervento chirurgico, è diventato un transessuale. Originario di Molfetta, è arrivato a Torino ormai da undici anni ed è presto diventato una star dei marciapiedi, col soprannome di Asha. Tutte le sere, con pelliccia e abiti succinti, attira i clienti all’angolo tra via Cialdini e corso Ferrucci, nota come zona dei travestiti. E’ il 14 febbraio 1991 quando arriva una segnalazione alla polizia: un’auto in corsa ha gettato per strada il corpo esanime di una donna. Arrivati sul posto, gli inquirenti rilevano il cadavere: è quello di Asha, ritrovata morta in fondo a via Sangano, riversa in un lago di sangue e a poca distanza da dove solitamente incontrava i suoi clienti. Un piccolo foro sotto l’orecchio suggerisce che sia stata uccisa con un colpo di pistola, mentre vicino al cadavere vengono ritrovate tracce di Renault R5 blu, la stessa sulla quale, secondo le testimonianze, Asha sarebbe stata vista quella notte in compagnia di due uomini. La soluzione del caso non tarda ad arrivare, poiché a poca distanza dal ritrovamento del corpo viene segnalata la presenza di un’auto in fiamme: è proprio una Renault R5 blu e sul suo sedile posteriore vi è una pistola per il tiro sportivo. Il proprietario, rintracciato e con addosso ancora macchie di sangue, racconta goffamente di essere stato rapinato della sua auto e nega quindi di essere coinvolto nel caso. Ma il tentativo dell’uomo di costruirsi un alibi crolla presto e successivamente ammette di aver assistito all’omicidio della donna mentre guidava la sua auto, ma che tuttavia il colpo mortale sarebbe partito dalla mano di un suo amico con cui quella sera era in compagnia. A rendere ancor più tragica la vicenda sono il movente del delitto e l’esigua pena inflitta ai due esecutori: Asha venne infatti uccisa per gioco, mentre i due si divertivano a provare quella pistola illegalmente detenuta, sparando colpi in aria mentre la macchina era in movimento. Forse proprio una brusca manovra dell’auto colpì alla testa Asha che morì sul colpo. Per il primo, il guidatore, la pena fu di un solo anno di carcere per detenzione illegale d’arma da fuoco; per l’uomo che sparò invece solo sei anni e quattro mesi di carcere, poiché il giudice accolse la tesi della difesa che sostenne che l’omicida non sapeva che l’arma fosse carica. Nel 1992 i giornali annunciarono, però, che l’uomo era già tornato in libertà.
Era il 1979 e l’Italia stava vivendo gli Anni di Piombo. I terroristi avevano già mietuto molte vittime innocenti, barbaramente uccise solo perché espressione di un sistema che volevano abbattere. I bersagli erano solitamente uomini e donne la cui morte era in grado di suscitare un sicuro effetto sull’opinione pubblica. Oltre loro, però, a cadere sotto il fuoco terrorista vi furono anche molti innocenti, vittime involontarie trovatesi solo nel posto sbagliato al momento sbagliato, senza nessuna carica né divisa. Tra queste vi è anche il nome di Emanuele Iurillo, giovane di appena diciotto anni, che trovò la morte in via Millio mentre tornava da scuola. Emanuele, in procinto di preparare l’esame di maturità per diventare perito aeronautico, quel 9 marzo pagò con la vita le battaglie di altri. Quel giorno, infatti, un commando di Prima Linea decise di vendicare due dei loro compagni rimasti uccisi poco tempo prima. Il bersaglio era una bottiglieria a via Millio che venne assediata e i cui proprietari vennero tenuti in ostaggio. Non tardò allora ad arrivare una volante della polizia e, con lei, lo scontro a fuoco tra agenti e banditi. Mentre le pallottole impazzavano in quell’angolo di Torino, Emanuele stava placidamente rientrando a casa, ritrovandosi tragicamente coinvolto nella sparatoria in atto. Il ragazzo venne colpito al braccio da una pallottola, la stessa che proseguì il suo fatale viaggio trapassandogli il torace, perforandogli un polmone e che si fermò vicinissima al cuore. Enorme fu lo strazio della madre che, sentendo il frastuono, si affacciò alla finestra del suo appartamento, a poca distanza da dove avvenne la tragedia, e vide il suo unico figlio stramazzare a terra. Inutili furono poi i tentativi di rianimazione da parte dei soccorsi, Emanuele morì quasi sul colpo, a pochi giorni dal suo compleanno e dal suo esame di maturità. Fu solo anni dopo che la famiglia del giovane riuscì a vedere i carnefici di Emanuele alla sbarra. Molti di loro però, tristemente indifferenti, voltarono le spalle alla corte com’era in uso in quegli anni. Solo uno dei leader della colonna torinese di Prima Linea, Marco Donat Cattin, sembrò mostrare un segno di pentimento coprendosi il volto con le mani.
In via Vibò, nel giardinetto incastrato nelle case popolari della periferia nord della città, un gruppetto di quindicenni di origine romena stanno chiacchierando attorno a una fontanella. Ad animare la discussione è il calcio e il nuovo allenatore della loro squadra del cuore, la Juventus. Sono le 17.30 quando lo spensierato pomeriggio della comitiva viene interrotto da un gruppetto di ragazzi, dei connazionali poco più grandi di loro, che si avvicina chiedendo a uno di loro una sigaretta. Il ragazzo interpellato è George Monteanu, detto Giorgino, che però non fuma, che risponde quindi negativamente alla richiesta e che per questo, di tutta risposta, viene accerchiato. I loschi individui passano poi a un tentativo di rapina, in cui provano a sottrarre al giovane un Nokia regalatogli dai parenti per Natale. Il ragazzo però si oppone e viene allora picchiato. Calci, pugni, finché qualcuno non tira fuori addirittura un coltello che colpisce mortalmente Giorgino alla gola. L’aggressore si dilegua e scattano subito i soccorsi. Quando arriva il 118, le condizioni del giovane sono però disperate: quando arriva in ospedale è già morto. Grazie alle immagini riprese da alcune telecamere della zona, vengono presto indagati e arrestati due fratelli, visti poco tempo prima dell’aggressione comprare alcuni cartonati di vino. Entrambi si erano nascosti a casa della madre, uno di loro, all’epoca dei fatti, non aveva ancora compiuto la maggiore età. I due, sotto i fumi dell’alcol consumato sulle panchine del parco, avevano cercato un pretesto per attaccare briga e non si accontentarono di tirare qualche pugno. La sentenza pronunciata dai giudici fu un secondo colpo al cuore per la madre di Giorgino che vide condannare gli assassini di suo figlio a solo poco più di dieci anni.
Deborah Rossi aveva vent’anni quando si trasferì a Torino, in via Stradella 12, con la sua amica del cuore Giulia Fiore e il compagno di questa, Antonio Ferraro anche conosciuto come Toni, in attesa che il suo fidanzato uscisse dal carcere. Non è però solo la giovane età di Deborah che rese tragico il ritrovamento del suo cadavere il 16 settembre 2006, perché insieme alla ragazza quel giorno morì anche il bambino che portava in grembo da cinque mesi. Il corpo senza vita della vittima fu ritrovato nella sua abitazione: Deborah fu colpita dapprima più volte alla testa con un ferro da stiro per poi essere trafitta da ben sette coltellate. Le indagini arrivarono subito agli artefici di quella tragedia, riconoscendoli nei due coinquilini della donna: Giulia e Toni. Per comprendere il movente dell’orribile delitto fu necessario risalire alla storia di amicizia che intercorreva tra le due donne, un rapporto quasi morboso che legò il carattere più fragile e bisognoso di Deborah a quello apparentemente forte e manipolatorio di Giulia. Fu infatti proprio la percezione della Fiore, nel vedere la sua amica incinta e intenta a farsi una vita propria, a scatenare la gelosia omicida della donna, arrabbiata per non essere più al centro della sua attenzione. Sia Giulia che Toni, accusato di essere stato complice dell’orrendo delitto, vennero inizialmente condannati all’ergastolo. Dopo quattro anni di carcere l’uomo venne però scarcerato e assolto in appello. Giulia continua invece a scontare la sua pena, nonostante un goffo tentativo di crearsi un alibi che non la salvò dalla condanna.
In una Torino in cui si sentivano ancora gli echi della Grande Guerra, Pietro Balocco, un giovane piemontese, affittava un appartamento al numero 19 di via San Filippo, oggi conosciuta come via Maria Vittoria. Balocco era solito ricevere visita da un prete amico, Don Guglielmo Gnavi, con cui venne spesso visto entrare e uscire dalla sua abitazione, fino a un fatidico giorno in cui il giovane uscì da solo e del prete non si ebbero più notizie. A nutrire i primi sospetti su una qualche tragedia accaduta a Don Gnavi fu la portinaia dello stabile, Giuseppina, i cui dubbi divennero certezze quando ebbe la notizia di un barcaiolo che, navigando sulla sua imbarcazione, trovò galleggiare una gamba umana nel Po. Ormai convinta che attorno alla sparizione del prete vi fosse qualche torbida vicenda e decisa a sciogliere il mistero, Giuseppina convinse la proprietaria dell’appartamento di Balocco ad effettuare un sopralluogo nell’abitazione, con la scusa di risolvere un piccolo guasto all’impianto del riscaldamento. Davanti ai loro occhi si stagliò allora uno spettacolo raccapricciante: in una cesta custodita nell’appartamento giaceva il corpo di Don Gnavi, depezzato e martoriato. Alla tragica scoperta seguì un tentativo di fuga da parte del giovane che venne però presto fermata da un passante, grazie a delle foto pubblicate su un giornale, poiché fu riconosciuto per strada, nonostante un tentativo di camuffamento. Il movente del delitto fu una banale questione di denaro: il prete aveva infatti prestato la somma di 30 mila lire a Balocco che, non sapendo come restituirli, aveva pensato di ucciderlo e farlo a pezzi. Il giovane venne inevitabilmente condannato all’ergastolo e il suo bieco piano omicida fu risolto grazie all’acume di un’intraprendente portinaia e alle acque del Po.
Erano le 18.15 del 13 febbraio 1983 e presso il cinema Statuto circa cento spettatori avevano da poco iniziato a godere della proiezione de La Capra, un film comico con Gérard Depardieu. Passati pochi minuti dall’inizio, la sala smise di riempirsi di risa per lasciare spazio alle urla di terrore per le fiamme che pervadevano gli spazi della struttura. Solo poche persone riuscirono a mettersi in salvo, molte di più trovarono sbarrate le uscite d’emergenza, precedentemente chiuse a chiave per evitare l’ingresso dall’esterno di persone senza biglietto. Le urla provenienti dalla sala e le mani che battevano sulle porte non portarono comunque il gestore ad accendere le luci. Una decisione fatale, forse presa per non far aumentare il panico, ma che provocò la morte di 68 persone, molte delle quali decedute per inalazione dei fumi velenosi prodotti dalla combustione dei materiali utilizzati per la tappezzeria delle poltrone. Gli spettatori in galleria non si accorsero di nulla, se non quando non fu troppo tardi, due ragazzi vennero invece ritrovati abbracciati e ancora seduti sulle poltrone, altri ancora si ammassarono nei bagni nel tentativo di ripararsi dalle fiamme. Le successive perizie stabilirono che a provocare l’incendio fu un accidentale cortocircuito, avvenuto nonostante i precedenti controlli avessero stabilito che quel cinema fosse un posto sicuro. Il tragico evento segnò quindi il punto di svolta per riscrivere le norme di sicurezza dei luoghi pubblici in Italia, nonché per mettere in atto un’opera di risanazione degli stessi. Ma di chi fu la colpa dell’incendio scatenato quel pomeriggio d’inverno? La legge stabilì che la tragedia fu accidentale, ma vennero tuttavia condannati per omicidio plurimo colposo ben sei persone, tra cui l’ex proprietario del cinema. Rimangono, tuttavia, altre due piste, una delle quali fu per del tempo seguita anche dagli inquirenti e che prendeva in considerazione l’idea che dietro la tragedia ci fosse la mano di un piromane. L’anno prima, infatti, ben tre cinema torinesi erano stati incendiati dolosamente. Ma Torino, si sa, è la città italiana esoterica per eccellenza e non manca la lettura in chiave magica anche di questa storia che sostiene che il vero artefice di quell’incendio fu Lucifero in persona. Il numero 13, tradizionalmente associato al diavolo, aveva un’impressionante ricorrenza in questo caso: la data dell’incendio era il 13 febbraio, il film era alla sua tredicesima proiezione, i 64 morti erano suddivisi esattamente in 31 uomini, 31 donne, un bambino e una bambina. Infine il film proiettato era La Capra, che nei tarocchi viene comunemente associata al demonio. Insomma per i fanatici dell’esoterismo furono tanti i segni a sostegno di questa soprannaturale interpretazione. Che si creda o meno alla magia, in quella tragica notte, persero la vita 68 persone in pochi istanti di terrore, mentre la neve fuori ricopriva la città e molti festeggiavano il carnevale.
La storia di Enrichetta Naum è la storia di colei che viene ricordata come l’unica donna in Italia a cui la società dell’epoca riconobbe l’autorità politica e religiosa come esorcista. Residente al civico numero 6 di via Cappel Verde, era nota tra le persone per avere la capacità di scacciare demoni, spiriti maligni e, in alcuni casi, curare malattie misteriose. Molte furono, forse, le dicerie e pochi i fatti comprovati, di certo ci furono però gli strani odori, le litanie e urla disumane riportati dal vicinato e provenienti dall’appartamento della donna. Le cronache giunte fino ai nostri giorni, comunque, documentano in modo ufficiale solo un caso che vide la guarigione di una persona: quella del quattordicenne Giuseppe Brossa i cui “depravati” atteggiamenti furono curati dalla donna e dalle sue presunte pozioni magiche. La Naum non proveniva certamente da un ambiente colto, ma si pensa che la sua apparente esperienza rispetto a riti e pozioni magiche fosse frutto di letture di numerosi testi e volumi che trattavano l’argomento del demonio, pratiche esoteriche ed esorcismi. La donna li avrebbe consultati frequentando la biblioteca della chiesa, sita nei pressi della sua abitazione. Fu, forse, proprio perché si documentò su testi riconosciuti dal mondo clericale che la donna non venne mai osteggiata dalla chiesa, ma venne altresì supportata poiché induceva i propri “pazienti” a sposare il cattolicesimo per purificare le proprie anime. L’attività della Naum finì con l’arrivo a Torino della Grande Esposizione Internazionale, anche se una leggenda narra che il suo spirito non abbia mai abbandonato la sua casa. Via Cappel Verde, a distanza di ben più di un secolo, rimane comunque una tappa obbligata per gli amanti del lato magico ed esoterico di Torino. E se, dunque, le vicende legate a Enrichetta sono perlopiù frutto di tradizione e folclore, la Naum va senza dubbio annoverata tra le personalità che hanno plasmato l’anima e le tradizioni della città.
Nella metà del 1800, al secondo piano del palazzo di via Lagrange 14, abitavano Angelo Mustone, facoltoso medico ottantaquattrenne, e Lucia Magis, bella venticinquenne solitamente dedita all’organizzazione della casa. L’allarme della loro scomparsa scattò l’8 settembre 1878, quando il nipote del medico, preoccupato dalla prolungata assenza di notizie da parte del Mustone si convinse a fare irruzione nell’appartamento. La scena che gli si stagliò davanti agli occhi fu raggelante: i corpi dei due giacevano senza vita e in evidente stato di putrefazione. Lucia era adagiata sul letto con la gola recisa da un rasoio, mentre Angelo era riverso bocconi sul pavimento. Il duplice delitto di via Lagrange sarebbe rimasto, probabilmente, impunito se non fosse stata per l’acuta intuizione di un agente di polizia che si convinse ad approfondire le indagini sul cugino della Magis, Giovanni Pipino, assiduo frequentatore della casa delle vittime. Aiutati da alcune testimonianze e convinti dalla mancanza di un alibi che lo scagionasse, gli inquirenti arrestarono l’uomo, con il sospetto che avesse comunque agito con l’aiuto di un complice. Il processo a Giovanni Pipino fu di impressionante rapidità. A scagliarsi contro l’uomo non fu solo l’accusa, ma anche l’impeto dell’opinione pubblica e dei giornali che contribuirono alla demonizzazione dell’uomo. Il movente era chiaro: Pipino, i cui affari commerciali andavano male, aveva aggredito i due a scopo di rapina. A riprova di questa tesi vi fu un cospicuo bottino di cui l’uomo fu trovato in possesso e che non poteva, di certo, appartenere ai suoi proventi. I fatti di via Lagrange suscitarono di certo grande scalpore, come, con grande clamore, si ricorda la morbosità delle persone incuriosite da ogni dettaglio emerso durante il processo su quel tragico duplice omicidio. Le ombre intorno al caso non furono tuttavia del tutto dissipate e forse proprio per questo la pena di morte, a cui inizialmente fu condannato Pipino, venne commutata nei lavori forzati a vita. Si chiuse così una tragica vicenda che, per un lungo periodo, appassionò l’Italia intera.
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