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Il Viaggio in Italia di Goethe
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Il Viaggio in Italia di Goethe

Author: Loquis Originals

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Description

Uno dei viaggi più conosciuti e ambiti dagli uomini facoltosi del passato, il Grand Tour in Italia, è nato anche grazie a Goethe e al suo racconto emozionante lungo la penisola. Lasciati trasportare in questo viaggio e rivivi il tragitto del grande poeta e scrittore tedesco.
In questa seconda puntata Goethe lascia il lago di Garda e ammira l'arena di Verona, le ville Palladiane a Vicenza e le statue di Padova.
Una produzione Loquis
Editing: Andrea Calvo
Voce: Niccolò Morrone
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20 Episodes
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Alle 3 del mattino partii di soppiatto da Carlsbad, Karlovy Vary, alle 3 del mattino, all'insaputa di tutti: altrimenti non mi avrebbero lasciato andar via,. Gli amici, che avevan voluto festeggiare con tanta cortesia il ventotto agosto, mio natalizio, s'erano acquistati anche il diritto di trattenermi un po' di più, ma oramai non m'era più possibile differire. Salii, del tutto solo in una sedia di posta, le carrozze che mettevano a disposizione alla posta per i viaggiatori, portando con me soltanto un portamantello ed una valigia [...]
Toccata appena la Baviera, s’incontra la badia di Waldsassen possessione stupenda di quei membri del clero, i quali furono avveduti prima degli altri uomini. Giace in fondo ad una valle, o per meglio dire di un vero bacino, al centro di stupende praterie, attorniate da colline di dolce pendìo, e fertilissime. Le proprietà del monastero si stendono, a grande distanza, tutto intorno. Il terreno è formato di argilla, e di ardesia decomposte. Il quarzo che si trova pure nei monti di questa specie, e che non si scioglie nè si decompone, rende la terra mobile, leggera, e pertanto fertile. Le acque scendono all’Eger ed all’Elba, e si continua a salire sino a Thirschenreuth. Da questo si scende verso mezzogiorno, e le acque vanno al Danubio. Mi formo facilmente un’idea di ogni contrada, osservando attentamente il corso delle acque, la loro direzione, ed il bacino, o conca fluviale, a cui appartengono; e dopo di ciò, anche nelle regioni le quali che si percorrono soltanto di sfuggita è facile formarsi anche un idea del complesso dei monti e delle valli. Da quel punto comincia una strada postale di tale bontà che non la si potrebbe immaginare migliore: la ghiaia granitica, e la terra argillosa con le quali è formata, si uniscono così bene, da formare una massiciata dura, compatta, e liscia, quanto mai si possa dire. Per contro, non è nè bella, nè fertile la contrada attraversata da quella strada stupenda; non si scorgono che pianure sabbiose, ed in parte anche paludose. Siccome però si scende sempre, si viaggia rapidamente verso i confini della Boemia.
Il mattino seguente, verso le dieci, arrivai a Ratisbona. Avevo quindi già impiegato trentanove ore a percorrere ventiquattro miglia e mezzo di strada. La posizione di Ratisbona è propriamente amena, i dintorni allettavano a fondarvi una città, ed anche qui il clero non ha perso tempo. Quasi tutto il territorio della città gli appartiene; e a Ratisbona le chiese sorgono a fianco di altre chiese, i monasteri a fianco di altri monasteri. Il Danubio mi ricorda la parte antica di Magonza. A Francoforte il fiume ed i ponti porgono migliore aspetto, ma qui, dal fiume, la vista è comunque molto gradevole. Mi affrettai ad andare al collegio dei gesuiti, dove vi era lo spettacolo che danno gli allievi ogni anno; vidi la fine dell’opera, ed il principio della tragedia. Quei giovani non recitavano male, non erano inferiori a qualsiasi compagnia di dilettanti, ed erano pure vestiti splendidamente. Ed anche questa pubblica rappresentazione mi persuase sempre più dell’accortezza dei gesuiti. Nulla trascurano di quanto vale ad acquistare influenza, e lo sanno trattare con amore, e con avvedutezza [...] e nello stesso modo che adornano splendidamente le loro chiese, sanno pure, piegarsi ai gusti mondani, innalzando un teatro, intorno al quale nulla vi è da ridire. [...] Le loro chiese, i loro campanili, tutti i loro edifici hanno aspetto grandioso, imponente, che ispira agli uomini, senza che neppure questi se ne avvedano, rispetto. Nella decorazione delle loro chiese fanno un tale sfoggio d’oro, d’argento, di metalli, di marmi preziosi, che deve propriamente acciecare i poveri, che pongono il piede al loro interno. Si adopera qui per le costruzioni una singolare qualità di pietra, di aspetto cupo, antico, di natura porosa...una specie di porfido di colore verdastro [...] Avrei desiderato prenderne un campione con me, ma pesano e ho giurato di non caricarmi più di sassi in questo viaggio.
Arrivai a Monaco alle sei del mattino, ma non essendomi trattenuto più di dodici ore, poco ne potrei dire. Nella galleria dei quadri vidi cose pregevoli, e gli schizzi di Rubens della galleria del Lussemborgo, mi procurarono molta soddisfazione. Vidi pure un bellissimo modello della colonna Traiana. Il fondo è di lapis lazzuli, le figure sono in oro; e quantunque non la si possa dire opera d’arte seria, però la si contempla con piacere. Nella sala delle sculture antiche ho capito, che i miei occhi non ancora abituati a quella vista, e per non sprecare il tempo, mi trattenni poco. Molte cose non mi producono impressione, senza che io valessi a rendermi conto del motivo. La mia attenzione fu fissata da un Druso; mi piacquero molto due Antonini, e così ancora alcuni altri oggetti. Nel gabinetto di storia naturale trovai oggetti pregevoli, del Tirolo specialmente, dei quali avevo visto già campioni in piccolo, ed anzi taluni ne possedo. Trovai una donna la quale vendeva fichi, ed essendo i primi che io abbia gustato, mi parvero eccellenti, ma l’uva sotto il quarantottesimo grado, non si può dire ancora buona. Qui tutti si lagnano dell’umidità e del freddo, e infatti nell’arrivare trovai una nebbiaccia, alla quale si sarebbe quasi potuto dare il nome di pioggia. [...] Ora, mentre vi scrivo, il sole che sta per tramontare illumina la sommità di un campanile, che spunta davanti alla mia finestra. Vogliate scusarmi se vi parlo così di sovente del vento, del sole, e della pioggia. Il viaggiatore si trova alle dipendenze del tempo, e sarebbe spiacevole dovessi trovare, viaggiando, un autunno altrettanto cattivo, quanto la pessima estate che ho vissuto a casa.
Erano le quattro e mezzo, quando arrivai a Wallensee, e a un'ora di distanza da questa località, mi avvenne un caso curioso. Incontrai un uomo che portava un arpa, accompagnato da una sua figlia, di undici anni circa, che il padre mi pregò di accogliere nella mia carrozza. [...] Feci sedere al mio fianco la ragazza, [...] una creaturina graziosa, educata, e assuefatta a girare il mondo. Era già stata con sua madre a piedi alla Madonna di Einsiedeln, ed erano sul punto di intraprendere il pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, quando la madre venne a morire, e non potè compiere il suo voto. Quella ragazza aveva grande devozione per la Vergine[...] Narrava di aver visto coi propri occhi una casa rovinata da un grande incendio, e un'immagine della Madonna sotto vetro che stava sopra la porta, rimasta totalmente illesa, la qual cosa non si poteva spiegare in altro modo, che per mezzo di un miracolo. Aveva fatti tutti i suoi viaggi a piedi; ultimamente aveva suonato a Monaco alla presenza del principe elettore. Parlava propriamente benino; aveva occhi neri, grandi e belli, una fronte intelligente, che talvolta si corrugava diventando seria. Parlava con grazia, con naturalezza, soprattutto sorrideva in modo fanciullesco; per contro quando taceva pareva stesse riflettendo, e faceva con il labbro superiore una smorfia propriamente curiosa. Le parlai di molte cose [...] Mi domandò il nome di un albero. Era un grande acero, il primo ch’io avessi incontrato lungo il cammino. Mi disse che stava andando alla fiera di Bolzano, dove supponeva fossi diretto pure io, e mi disse che qualora io l’avessi incontrata, avrei dovuto farle regalo, cosa che io le promisi.
Innsbruck giace stupendamente in una valle ampia e fertile, circondato da alte rupi, e da monti. Volevo fermarmi, ma non si trovarono stanze. Mi divertì per poco tempo con il figliuolo dell’albergatore, giovane vivacissimo. La città era tutta addobbata a festa per solennizzare la Natività della Madonna. Tutti si avviavano a Wilden, punto di pellegrinaggio, un santuario a tre quarti d’ora dalla città, sui monti, e quando ripartì, la mia carrozza era attorniata dall folla variopinta, lieta, e chiassosa. Partendo da Innsbruck la strada diventa sempre più pittorica. Si entra in una gola, dove corre un affluente dell’Inn, e la vista varia ad ogni istante. Mentre la strada sale sù per una rupe ripida, e quasi la si può dire scavata in quella, la pendice di fronte scende più dolcemente al basso, tutta coltivata. Si vedono sorgere sulle rupi fra i boschi, o posare su piccoli alti piani villaggi, case, casipole, capanne, il tutto colorato accuratamente di bianco. Ad una certa altezza lo spettacolo cambia; si scorgono pascoli salire fino alla sommità dei monti. Poco per volta l’oscurità venne crescendo; i particolari si perdevano; non si scorgeva più che il paesaggio nel suo complesso, ma sempre più grandioso, più splendido. Questo pure a sua volta scomparì, ma non tardò a ricomparire ai raggi della luna sorta sulle vette nevose, ed aspettai che il giorno venisse a rendere la luce a questa gola alpestre, nella quale mi trovavo, stretto ai confini fra il mezzogiorno e il settentrione.
Verso sera volli ancora disegnare la locanda, o la casa della posta sul Brennero, ma non sono riuscito a essere soddisfatto del mio schizzo, e me ne tornai a casa piuttosto di malumore. L’albergatore mi domandò se per avventura non volessi partire; mi disse che splendeva la luna, che la strada era buona, e per quanto io sapessi benissimo che non era disinteressata questa proposta, dato che gli servivano i cavalli per un altro viaggio il mattino, siccome corrispondeva al mio desiderio interno, accettai. Il sole era ricomparso sull’orizzonte, il vento era tollerabile; posi in ordine il mio bagaglio, ed alle sette salì in vettura. L’atmosfera era limpida, e la sera bellissima. Il cocchiere sonnecchiava, ma la strada era buona, e i cavalli, assuefatti a percorrerla, correvano rapidamente nella discesa; giunti ad un tratto piano, rallentarono il loro corso. Il cocchiere, svegliatosi, ridestò il loro ardore, e camminando attraverso le rupi, non tardai ad arrivare all’Adige. La luna splendeva; tutti gli oggetti che mi circondavano assumevano proporzioni grandiose. Alcuni molini, che sorgevano in mezzo a vecchi pini sul fiume spumeggiante, erano dei veri quadri. Arrivai, verso le nove, a Sterzingen mi si disse che avrei pure potuto continuare il mio viaggio, e quando arrivai verso mezzanotte a Mittelwald, trovai tutti addormentati, a parte il cocchiere, cosicchè potei proseguire la strada fino a Brixen, e di lì a Colman, dove arrivai sul fare del giorno. Allo spuntar del giorno vidi le prime colline piantate a viti. Una buona donna mi offrì pere e pesche; attraversai Teutschen che battevano le sette del mattino, e continuai a viaggiare, ed allora finalmente, quando splendeva già alto il sole, vidi la valle dove giace Bolzano. Circondata da monti ripidi, di mediocre altezza, si trova affacciata a sud, e coperta a settentrione dai monti del Tirolo. Le colline ai piedi dei monti sono coltivate a viti. I tralci sono disposti in filari e i grappoli oramai già neri, pendono da quelli, giovandosi per la maturazione del calore della terra.
Arrivai a Bolzano con un sole splendidissimo; tutti i merciaiuoli ambulanti si affollavano intorno a me; il loro aspetto rivelava la contentezza, il benessere. Sulla piazza c’erano venditrici di frutta, con ceste piatte e rotonde, ripiene di pesche, disposte quasi per terra, di modo che non pesassero l’una sull’altra. Mi venne allora alla memoria un’iscrizione che avevo letta in Ratisbona, sulla porta di una locanda. Alla fiera di Bolzano si fa grande commercio di seterie; vi si vendono pure panni, e cuoiami che scendono dai monti. I mercatanti però, vi vengono principalmente per incassare il loro danaro, per ricevere nuove commissioni e aprire nuovi crediti. Avrei pure avuto desiderio di osservare tutti i prodotti che arrivano qui, ma l’irrequietudine che si è impossessata di me, ormai non mi dà tregua, e mi affrettai a partire di nuovo, consolandomi col pensiero, che in un epoca, nella quale la statistica gode di tanto favore, tutto ciò si trova stampato, e se ne può prendere conoscenza ricorrendo ai libri. L'essenziale è, che io prenda di nuovo interessamento alle cose di questo mondo; che io cerchi di nuovo di esercitare il mio spirito di osservazione, per quanto i miei lumi e le mie cognizioni lo consentano; che la mia vista è pronta ad afferrare rapidamente quanto si offre allo sguardo; e che il mio animo possa di nuovo esercitare le sue facoltà, le quali erano rimaste oppresse e irrigidite. E ora che sono costretto a servirmi da me, a badare a tutto, a non perdere di vista niente, mi sento, nonostante siano trascorsi pochi giorni, ben altra elasticità di spirito; sono abituato a informarmi del corso del danaro, cambiare monete, pagare, tenere conti, prendere appunti, scrivere, al posto di pensare soltanto come prima, riflettere, volere, dare ordini, e dettare.
Ho percorso la città [di Trento] che è molto antica, ma che ha in alcune strade delle case nuove, di buona costruzione. La chiesa dei gesuiti è bella, colle colonne di marmo rossiccio nella facciata, e l’ingresso è preceduto da una tenda pesante per impedire l’accesso alla polvere; la chiesa stessa poi è chiusa da una cancellata in ferro, la quale consente di spingere lo sguardo all’interno. Mentre io stavo esaminando l’architettura, entrò un vecchio, togliendosi la berretta nera che aveva in testa. Tutti i suoi abiti neri, vecchi, logori, rivelavano appartenere al clero; egli s’inginocchiò davanti alla cancellata, e dopo una breve preghiera, si alzò di nuovo in piedi, e disse a mezza voce, quasi parlando a sè stesso «Ora che hanno cacciati i gesuiti, avrebbero per lo meno dovuto pagare loro quanto ha loro costato la chiesa. Io so pure al pari di tanti altri, quanto sia loro costato non solo la chiesa, ma ancora il seminario.» Fermo sull’ultimo gradino diceva ancora «Non è l’imperatore che abbia ciò fatto; lo volle il Papa.» «Prima gli Spagnuoli; dopo noi; quindi i Francesi. Il sangue di Abele grida vendetta, contro Caino suo fratello» e scendendo la gradinata si avviò per la strada, continuando a parlare in quel modo, con sè stesso. Un giovane, al quale domandai conto delle cose notevoli della città, mi additò una casa alla quale danno nome di casa del diavolo, pretendendo sia stata costruita dal distruttore universale di ogni cosa, nello spazio di una notte. Se nonché, il buon giovane, non si avvedeva della particolarità più curiosa, ed era, che questa casa è l’unica di buon gusto che io abbia veduta in Trento. Partii alla sera, dopo le cinque, accompagnato come il giorno precedente, tosto che fu tramontato il sole, dal canto dei grilli.
12 settembre, Torbole

12 settembre, Torbole

2021-05-16--:--

Quanto bramerei che i miei amici si trovassero ora per pochi istanti al mio fianco, per poter godere con loro pure, della vista incantevole che mi sta davanti. Avrei potuto arrivare a Verona fin di questa sera, ma avrei dovuto per questo lasciare in disparte uno stupendo punto di vista, quello del lago di Garda di cui non mi volevo privare, e fui ampiamente ricompensato di avere allungato la strada. Partito [...] dopo le cinque, presi una valle laterale che versa le sue acque nell’Adige. Dopo aver salito alquanto, s’incontra un colle abbastanza elevato, che si deve valicare per scendere al lago. Si potrebbero trovare in quelle colline motivi di bellissimi paesaggi. Terminata la discesa, s’incontra un piccolo villaggio, all’estremità settentrionale del lago, con un piccolo porto naturale, Torbole. Avevo trovato già lungo la strada piante di fico, e sceso ora in quell’anfiteatro naturale di colline, trovai i primi alberi di olivo, carichi di frutti. [...] Rilevo da Volkmann, che questo lago nell’antichità portava nome di Benaco, ed egli adduce un verso di Virgilio, che ne fa parola Fluctibus et fremitu resonans, Benace marino. È questo il primo verso latino di cui io scorga il significato vivo davanti il mio sguardo; e ciò nel momento appunto, in cui le onde, agitate dal vento fattosi più gagliardo, si frangono sulla spiaggia. [...] Quante cose cambiarono; ma soffia sempre lo stesso vento su questo bel lago, illustrato da Virgilio. Venuto con la sera il fresco andai a passeggio, in una contrada nuova. Gli uomini vivono vita alla buona; le porte non hanno serrature, ma l’albergatore mi accertò, che potevo stare pienamente tranquillo, avessi avuto pure con me diamanti; le finestre non hanno vetri, sono chiuse con fogli di carta inzuppati nell’olio; mancano anche le cose più indispensabili. Avendo domandato al garzone della locanda dove avrei potuto soddisfare un certo bisogno, mi additò la corte al basso, dicendo «Qui abbasso può servirsi» ed avendo io insistito «Ma dove?» «Dappertutto, dove vuole,» mi rispose alla buona. Il mio albergatore mi annunciò con un enfasi tutta italiana, che era felice di potermi servire trote propriamente stupende. Si prendono presso Torbole, dove il torrente scende dai monti, e dove il pesce cerca risalirlo. Non sono propriamente trote, ma una specie analoga, il loro gusto sta fra quello della trota e del salmone, e a onor del vero sono di gusto delicatissimo e saporite. Migliori però di ogni cosa è la frutta, specialmente i fichi e le pere.
Questa mattina, prestissimo, circa alle tre, partii da Torbole con due rematori. Da principio il vento era favorevole, e potemmo spiegare la vela. Il mattino era stupendo, il cielo a dire il vero abbastanza coperto, ma l’atmosfera tranquilla. Passammo davanti a Limone, dove i giardini disposti in vari piani con piante di agrumi, porgono bella e ricca vista. Tutti i giardini sono formati da ordini di pilastri bianchi, quadrangolari, i quali ad una certa distanza gli uni dagli altri si appoggiano al monte, e contemporaneamente lo sostengono. Sopra questi pilastri sono appoggiati legni, destinati a sostenere nell’inverno i tetti mobili coi quali si proteggono le piante dal freddo e dalla neve. La lentezza con la quale la barca camminava mi permetteva di godere a pieno di quella vista piacevole, ed eravamo giunti già di fronte a Malsesine, quando il vento cambiò tutto ad un tratto, soffiando secondo il suo solito in direzione di tramontana. Coi soli remi si faticava troppo, e si faceva poca strada; fu difficile sbarcare a Malsesine, primo villaggio veneziano, sulla sponda orientale del lago. Quando si viaggia per acqua, non si può dire oggi sarò qui o là. Voglio trarre profitto per quanto io possa di questo soggiorno forzato, per disegnare il castello che sporge sul lago, e che ha un aspetto bellissimo. Stamane nel passarvi davanti ne ho disegnato già uno schizzo.
Il vento contrario che mi spinse ieri a Malcesine mi procurò una spiacevole avventura, che sostenni di buon animo. Come mi ero promesso il giorno prima, andai al vecchio castello, il quale non ha nè porte, nè guardie, ne custodi, e dove è libero l’accesso. Mi collocai nella corte, di fronte all’antica torre disegnando quei ruderi sopra una pietra. Ero seduto da poco, quando entrarono parecchie persone, [...] e non tardai a essere circondato dalla gente. Capì che il mio disegno aveva attirato la loro attenzione, ma non ne diedi peso, e continuai a lavorare. A un certo punto mi si avvicinò un tale che mi domandò che cosa io stessi facendo. Risposi che stavo facendo un disegno della vecchia torre, per portar con me un ricordo di Malcesine. Mi replicò che la cosa non era permessa, e che avrei dovuto desistere dal mio lavoro. E siccome mi aveva dette queste parole in dialetto veneziano, che faticavo a comprendere, gli replicai che non avevo capito. Allora con un piglio tutto italiano, egli prese il mio foglio e lo stracciò. Mi accorsi che il suo atto era stato disapprovato dai presenti, particolarmente da una vecchia, la quale chiamò il podestà. Io me ne stavo sul mio gradino, in piedi con le spalle addossate alla porta, contemplando la folla che andava crescendo. Gli sguardi avidi di curiosità, l’aspetto in generale benevolo, e tutti i tratti caratteristici di una riunione di persone straniere, finirono per divertirmi. Ero tornato di buon umore, quando giunsero il podestà e il suo attuario, e alla loro domanda sul perchè io stessi disegnando la loro fortezza gli risposi che io non scorgevo affatto una fortezza ma rovine, considerando lo stato della torre e la mancanza di porte e cancelli. Mi si rispose: E quando anche fosse solo una rovina, che cosa poteva presentare questa di pregevole? Risposi che dovevano pur sapere come molti viaggiatori venissero in Italia unicamente per contemplarvi rovine; come Roma, capitale del mondo distrutta dai barbari, o l’arena di Verona, che io speravo di vedere a breve. L’attuario allora, rinfrancato, disse che le mie osservazioni calzavano a pennello per quell’antico monumento conosciuto in tutto il mondo, ma che nulla avevano a che fare con queste rovine. Dissi allora che non solo le rovine romane meritano essere studiate, ma anche quelle del medioevo. L’attuario allora disse che tutto ciò era vero, ma che l’imperatore Giuseppe era un principe irrequieto che poteva nutrire disegni ostili contro la repubblica veneta, e che io potevo benissimo essere un suo suddito, un suo emissario incaricato di studiare, di riconoscere i confini. Replicai allora di essere nato a Francoforte sul Meno. Chiamarono allora un tale, Gregorio, che aveva lavorato nella mia città. Era un uomo di cinquant’anni di colorito bruno, un vero tipo di fisionomia italiana. Parlò disinvolto, quale uomo esperto del mondo [...] Per fortuna il suo soggiorno a Francoforte coincideva con gli anni della mia gioventù. Gli parlai di tutte le famiglie italiane che io conoscevo benissimo. Seppi pure dargli conto dei figli, dei nipoti, di quelle famiglie che conosceva; dirgli come fossero stati educati, quali fossero le loro condizioni attuali, chi avessero sposato, quanti fossero attualmente i membri della famiglia. Quando finì il discorso l’uomo era quasi commosso e disse: «Signor podestà, sono persuaso che questo signore è persona dabbene, agiata, e colta, la quale viaggia per la sua istruzione. Dobbiamo lasciarlo andare con ogni dimostrazione di cortesia, perchè egli possa dire bene di noi a suoi concittadini, ed invaghirli a venire a Malcesine.» Ottenni allora il permesso di potere girare il paese in lungo ed in largo, a mio arbitrio, in compagnia di mastro Gregorio. Il padrone della locanda dove era sceso ci volle accompagnare e si rallegrava con l’idea dei molti forastieri, i quali non possono mancare di affluire a Malcesine, quando ne saranno divulgati i pregi. Verso sera il buon’uomo mi volle portare nella sua vigna stupendamente collocata su di un pendio che scende al lago. Ci accompagnò suo figlio, di quindici anni, il quale si arrampicava sù per gli alberi per potermi porgere la frutta migliori, mentre il padre mi andava cercando nella vigna i grappoli d’uva più matura. In mezzo a questi due stranieri pieni di benevolenza, nella solitudine completa di quest’angolo appartato del mondo, ripensando a quel che mi era capitato, sentivo quale strana creatura sia l’uomo, il quale sovente si guasta e si rende pericoloso quando invece potrebbe godere con tranquillità e in buona compagnia del mondo, e ciò unicamente, per il capriccio di volere ridurlo a una sua cosa.
16 settembre, Verona

16 settembre, Verona

2021-05-13--:--

Questo anfiteatro è pertanto il primo monumento ragguardevole dell’antichità che io abbia visto, e in quale stato di conservazione! Quando vi entrai, , mi faceva l’effetto singolare di sembrarmi grandioso, senza che comparisse propriamente tale. E vero altresì che non lo si vuole vedere vuoto, ma bensì pieno zeppo di persone. Se non che, nel tempo antico unicamente, doveva produrre tutto il suo effetto, anche perché allora il popolo era ben più popolo, di quanto non lo sia oggi. Quando in una pianura succede qualcosa di straordinario, e tutti corrono a volerlo contemplare, gli ultimi arrivati cercano sollevarsi in ogni modo più in alto di quelli che vennero prima; si sale sui banchi, si conducono sul luogo carri, vi si fanno rotolare botti, che quindi si rizzano in piedi, vi si allogano sopra tavole, si sale sulle colline in vicinanza, e presto si forma uno spazio circolare, vuoto, a forma di cratere d'un vulcano. Se lo spettacolo si deve riprodurre frequentemente nello stesso luogo, non si indugia a costruire palchi leggeri per quelli che possono pagare; gli altri si aggiustano nel modo migliore, e sorge allora il compito dell’architetto, trovare il modo di dare soddisfazione a quel bisogno generale. Egli forma coll’arte un tale cratère quanto può più semplice perchè il popolo stesso ne debba formare l’ornamento. E quando lo vide pieno di popolo dovette provare egli stesso stupore, scorgendo al posto della confusione, del disordine un tutto ordinato, riunito. La semplicità dell'ellisse è facilmente accessibile a qualunque occhio; ogni testa serve in quello al complesso, giova a formare un tutto, una cosa sola. Ora nel vedere un anfiteatro vuoto, non si ha misura per giudicarne la capacità, si ignora se sia vasto o ristretto. I Veronesi meritano encomio per la buona conservazione di questo loro monumento. È costruito con una specie di marmo rossiccio, il quale si degrada sotto l’influenza del tempo, e perciò è mestiere restaurare quà e là di tempo in tempo i gradini, e poco per volta pare siano stati rinnovati tutti.. Non si scorge che una parte delle mura esteriori. Le volte sotterranee, le quali sono aderenti alla grande piazza denominata il Brà, vennero date in affitto ad artigiani, ed è curioso vederli uscire fuori da quegli antri, ora di nuovo popolati.
Quando tornavo questa sera dall’arena, trovai a poca distanza da quella uno spettacolo moderno. Quattro gentiluomini veronesi stavano giocando al pallone, contro quattro gentiluomini vicentini. Dessi praticano quest’esercizio fra loro tutto l’anno, per due ore circa prima della notte, ma questa sera la presenza dei Vicentini, aveva radunata quantità grande di persone. Vi potevano essere da un quattro a cinque mille spettatori, però non vidi nessuna donna. Ho già descritto altra volta l’anfiteatro naturale che si va formando quando una folla è mossa dal desiderio di vedere qualcosa, e prima di giungere sul sito, udivo i battimani col quale si faceva plauso ad ogni bel colpo. Il gioco ha luogo in questo modo. Alla debita distanza sono collocati due leggieri tavolati in dolce pendenza. Colui il quale deve colpire il pallone, sta sulla estremità superiore del tavolato, colla destra armata di un bracciale in legno, a punte. Nel mentre un altro del suo partito gli caccia il pallone, egli si lancia con impeto contro questo, accrescendo la forza del suo colpo. Gli avversari tentano ricacciare il pallone, e così si fà in fino a tanto il pallone cade a terra. Si producono in quell’esercizio movenze, attitudini bellissime, meritevoli di essere scolpite in marmo. E siccome i giocatori sono tutti giovani arditi, vigorosi, vestiti tutti ugualmente in corto ed interamente di bianco, portano, per distinguere i due campi combattenti, un segnale di colore. E singolarmente bella l’attitudine che prende il giocatore, quando si lancia a corpo inclinato contro il pallone per colpirlo; ricorda in quel gesto il gladiatore del museo Borghese. Mi fece senso però vedere questo gioco in vicinanza di un antico muro della città, dove non vi era nessun modo di sedersi comodamente per gli spettatori, specialmente se persone distinte; perché non si fa questo gioco nell’anfiteatro, il quale vi si presterebbe perfettamente?
È grande qui la frequenza, e il movimento, specialmente in alcune strade, dove le botteghe dei mercatanti e gli opifizi di artigiani sono molti, e si seguono gli uni agli altri. Le porte di questi e di quelle sono continuamente aperte, e lo sguardo può penetrare liberamente all'interno. Si vedono intenti al loro lavoro i sarti, i calzolai, e anzi occupano parte della strada, ridotta a laboratorio; alla sera poi, quando si accendono i lumi, lo spettacolo riesce propriamente animato. Nei giorni di mercato la folla sulla piazza è grandissima, e l’occhio si può rallegrare alla vista di vere montagne di frutta, di legumi, di aglio, di cipolle. Tutti gridano, cantano, scherzano per tutta quanta la giornata; si spingono, si urtano, fanno strepito, e ridono senza posa. Il clima temperato, il tenue prezzo delle derrate rendono la vita facile, e tutto ciò succede all’aria libera. Il rumore e i canti non cessano neppure del tutto, durante la notte. Si sente cantare in ogni strada la canzone di Marlborough, si odono, ora un salterio, ora un violino. Sanno imitare con un fischietto il canto di tutti gli uccelli; si sentono dovunque suoni, voci, meravigliose talvolta. La mitezza del clima consente questi spassi anche ai poveri, e l’aspetto del popolo vi guadagna. Per altra parte poi, non posso fare a meno di avere stupore della sporcizia e la mancanza totale di ogni comodità nelle loro case; sono sempre fuori, e, trascuranti per natura, non pensano a nulla. Il popolo in fondo è buono, si accontenta di poco; gl’individui del ceto medio vivono anch’essi pure alla giornata; i ricchi e le persone distinte si restringono a curare le loro abitazioni, le quali però sono lontane dall'offrire le comodità dei paesi settentrionali. Le loro riunioni hanno luogo per lo più nei siti pubblici. Le corti, gli atri, le scale sono ripiene di sporcizie. Il popolo si ritiene dovunque a casa sua. Il ricco può essere ricco quanto vuole, può costruire palazzi; il nobile può avere parte al governo, ma quando innalza un porticato, un peristilio, il popolo subito se ne impossessa per ogni suo bisogno.. Il popolo continua a esercitare i propri diritti sugli edifici pubblici, e sono generali le lagnanze a questo riguardo dei forestieri in Italia. Sebbene il popolo sia non curante pensando ai propri affari, tiene però aperto l’occhio sui forestieri. Potei osservare ad esempio che nei primi giorni tutti facevano attenzione ai miei stivali, perché di questo tipo, siccome calzatura troppo costosa, si fa uso qui soltanto durante l’inverno. Ora che esco di casa con scarpe e calze, nessuno più bada a me. Stamane poi per tempo, mi ha stupito che mentre tutti venivano dal mercato portando in mano un ricordo di quello, o fiori, o legumi, o aglio, tutti volgessero lo sguardo ad un ramoscello di cipresso, che portavo in mano, dal quale pendevano i frutti come quelli del pino. Inoltre, avevo alcune pianticelle di capperi in fiore. Tutti mi guardavano, uomini donne, ragazzi, e parevano trovare la cosa strana.
Sono qui giunto da quattro ore, e ho già percorso la città, e visti il teatro olimpico, e gli edifici del Palladio. Si è pubblicata ad uso dei forestieri una piccola guida con incisioni e con un testo scritto con gusto in materia d’arte. Nel contemplare quegli edifici si riconosce subito il loro pregio, attirando l’attenzione per la loro grandezza e per la loro imponenza, e soddisfano lo sguardo, per la perfetta armonia delle loro dimensioni, e per la prospettiva delle sporgenze, e delle parti rientranti. [...] Si scorge veramente un non so che di divino nelle sue linee, armoniche quanto i versi di un gran poeta, il quale dalla verità e dalla menzogna sa trarre un terzo elemento affatto nuovo, il quale incanta, rapisce! Il teatro olimpico è certo il teatro degli antichi, ridotto a minime proporzioni, ma pur sempre di inarrivabile bellezza; paragonato ai teatri moderni, fa la figura di un giovane di buona famiglia, ricco, stupendamente educato, a fronte di un uomo maturo, di origine meno distinta, meno ricco, meno colto, ma che sà meglio del primo quanto possa ottenere con i suoi mezzi. Quando si considerano qui sul sito gli edifici stupendi eretti da quel genio, e come li abbiano ridotti il sudiciume e la trascuranza, allora si scorge che avvenne al Palladio, quanto avvenne ad altri, vale a dire che si ottiene poca gratitudine dagli uomini, quando si accrescono le loro pretese, quando si mira ad ispirare loro un idea grande di sé stessi, e a far loro comprendere la bellezza di un'esistenza veramente nobile. Ma quando si illudono gli insulsi, quando si narrano a loro favole, quando si cerca di corromperli, allora si è grandi, allora si ottiene favore; e questa è la ragione per la quale si scorgono cotanti sconci nell’età presente.
[...] Oggi sono stato a visitare lo stupendo edificio denominato la Rotonda, il quale sorge su di un'amena collina a mezz’ora di distanza dalla città. È di forma quadrata alla base, con una sala circolare nel centro, la quale riceve luce dall’alto. Vi si sale dalle quattro parti per mezzo di ampie gradinate, le quali portano ad altrettanti peristili, formati da sei colonne di ordine corinzio. Lo spazio occupato dalle gradinate, e dai peristili è maggiore di quello del resto dell’edificio, il quale, in tutti quattro i lati porge l’aspetto di un tempio. Nell’interno questo a tutto rigore si potrebbe dire abitabile, non però fatto per essere abitato. La sala è delle più belle proporzioni, come anche le stanze; ma il tutto basterebbe a stento per residenza estiva di una famiglia distinta. E grande la varietà di aspetto che porge il complesso dell’edificio, con le tre colonne sul primo piano; si gode da quell’altura una vista stupenda delle contrade circostanti. E nella stessa guisa che oggi la Rotonda appare in tutto il suo splendore, da ogni punto delle campagne fra cui sorge, si gode da quella, una vista piacevolissima di queste. Si scorgono il corso del Bacchiglione, le barche che scendendo da Verona e si avviano verso la Brenta, e le ampie proprietà che il marchese Capra volle rendere inalienabili nella sua famiglia.
Arrivai questa mattina ancora per tempo a Thiene, il quale giace verso i monti, a settentrione, dove si sta restaurando un nuovo edificio secondo il disegno antico, del quale rimanevano poche tracce. Per tal guisa dura in queste contrade il culto del passato, e si ha abbastanza cognizione per innalzare un edificio nuovo, secondo un disegno antico. Il castello giace in bella posizione in una vasta pianura, e vi sorgono davanti i monti, senza colline di sorta, nello spazio intermedio. Partendo dal castello in linea retta la strada è fiancheggiata da due canali di acqua corrente, che forniscono l’irrigazione ai campi che si stendono a destra e a sinistra, coltivati a riso. Non ho viste finora che due città italiane, e non ho parlato ancora con molte persone; però ritengo di conoscere già abbastanza gli italiani. Sono uomini cortesi, che ritengono essere il primo popolo del mondo, e che sanno vantarsi e trarre vantaggio di certi pregi, che per dir vero, non si possono loro negare. In complesso poi gli italiani mi sembrano una buona nazione; basta porre mente ai ragazzi e alle persone, colle quali mi trovo di continuo a contatto, e che non manco mai di osservare attentamente. Quale bellezza poi, e quale nobiltà di fisionomie! Devo fare particolare encomio poi delle Vicentine, nelle quali si scorgono i pregi delle abitatrici di una grande città. Non badano a voi, per quanto facciate per attirare la loro attenzione; ma se indirizzate loro la parola, vi rispondono con grazia e cortesia, le donne maritate soprattutto. Non voglio però far torto alle Veronesi, sono ben fatte di corpo, e hanno un profilo caratteristico, sono in generale pallide e il zendalo, (lo scialle con cui si coprono) non giova a mostrarle, nonostante questo, anche sotto il migliore costume, si cerca qualcosa di seducente. Qui poi ho trovato ragazze bellissime, e fra le altre, una brunetta riccioluta, che mi ha ispirato un interesse particolare.Vidi pure una bella bionda, ma non mi andò altrettanto a genio.
26 settembre, Padova

26 settembre, Padova

2021-05-07--:--

Sono arrivato qui oggi da Vicenza in quattro ore, in una carrozza a un posto solo, a cui danno nome di sediolo. Finalmente ho potuto trovare le opere del Palladio, [...] per acquistare questo libro entrai in una bottega di libraio, le quali porgono in Italia un aspetto tutto loro. I libri sono disposti su tutte le pareti, non legati, ma in semplice brochure, e nella bottega si può trovare tutto il giorno buona compagnia. Vi si radunano nobili, sacerdoti, artisti, tutti coloro in una parola, che si interessano alla letteratura. Si domanda un libro, lo si rimette al suo posto, si sfogliano le pagine, si fa conversazione. L’edificio dell’università mi ha quasi spaventato con la sua imponenza, e mi rallegro di non avervi dovuto fare i miei studi. Il teatro anatomico specialmente, si può dire un modello dell’arte di assiepare gli scolari gli uni contro gli altri. L’orto botanico invece è grazioso. Molte piante possono stare all’aria aperta anche durante l’inverno, purché si abbia la precauzione di collocarle contro un muro che le protegga dal soffio della tramontana. [...] Qui, in mezzo a tutta questa varietà, il pensiero si trova in continuo esercizio, e sorge l’idea che tutte le varie specie di piante, possono pure aver avuto origine da una specie sola. La piazza maggiore della città denominato Prato della Valle, è ampissima e nel mese di giugno si tiene la fiera. Vi sono nel centro catapecchie in legno, di tutt’altro che bell’ aspetto; Si scorge in quella uno spazio di forma ellittica, circondato da statue d’uomini illustri, i quali, o nacquero a Padova o coprirono una cattedra nell’università. È permesso a qualunque cittadino padovano o straniero, innalzare in quella località una statua di una certa altezza prestabilita, basta che sia provato il merito della persona. Quello spazio elittico è circondato da un fossato pieno d’acqua, e sui quattro ponti sorgono statue colossali di Papi o di dogi. Tutte quelle statue sono opere pregevoli di scultori moderni, alcune forse un po’ di maniera. Nell’oratorio di una confraternita che ha S. Antonio per patrono, esistono quadri antichi che ricordano l’antica scuola tedesca, e vi si vedono pure alcuni dipinti del Tiziano, nei quali si possono già riconoscere i progressi fatti dalla pittura, dei quali non è possibile avere idea, a chi non ha varcate le alpi. La sala d’udienza del palazzo municipale, denominata a buon diritto il salone, è lunga trecento piedi, larga cento e così come l’altezza della volta nel centro. Queste popolazioni sono talmente assuefatte a vivere all’aria aperta, che l’architetto ideò di chiudere e di coprire una piazza, la quale potrebbe tenervi un mercato. E fuor di dubbio che questa immensità produce grandissimo effetto. Si accosta all’idea dell’infinito, la quale è conforme all’uomo, quanto quella del firmamento.
Era scritto nel libro del destino, alla pagina a me dedicata, che nel 1786 il 28 settembre a sera, e verso le cinque, secondo il nostro modo di contare le ore, sboccando dalla Brenta nella laguna, io potessi vedere Venezia per la prima volta, e poco dopo mettere piede in questa meravigliosa città, formata tutta da isole, e visitare questa repubblica di castori! La cosa sta propriamente così, e Venezia, grazie a Dio, non è più per me una parola vana, un nome vuoto, che mi ha tormentato tante volte con il suo suono fatale! Quando vidi accostarsi alla barca che mi portò da Padova la prima gondola, mi ricorse alla memoria un gioco della mia prima infanzia, che non ricordavo da forse vent’anni. Mio padre possedeva un bel modellino di una gondola, che aveva portato da Venezia, era per lui molto caro, ed era una grande concessione, quando mi permetteva di divertirmi con quello. La prima prora rivestita di latta rilucente, la cabina nera della gondola, tutte le parti di questa, mi parvero vecchie conoscenze, mi procacciarono la soavità di un caro ricordo dei primi anni. Mi trovo ben alloggiato alla Regina d’Inghilterra, a poca distanza dalla piazza di S. Marco, ed è questo il pregio principale di questa locanda; o le mie finestre si aprono sopra un canale di poca larghezza, fiancheggiato da case altissime, e propriamente sotto quelle vedo un ponte di un solo arco, ed una strada angusta, molto frequentata. Mi fermerò qui vari giorni, [...] per godermi lo spettacolo di questa città singolare e meravigliosa. Potrò pure godermi la solitudine assoluta che ho vivamente desiderato dato chein nessun luogo uno si può sentire così tanto solo, quanto mescolandosi alla folla, dove non si conosce anima viva. E a Venezia probabilmente non c’è che una sola persona che mi conosca, e sarà difficile che io la incontri.
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