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Pietre Parlanti
Pietre Parlanti
Author: annalisa.r
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Visitare Roma con lo sguardo all’insù, ascoltando le storie che si nascondono dietro le targhe sui muri. Pietre che parlano di palazzi, chiese, alberghi, case e dei loro ospiti molto, ma molto speciali.
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Una delle targhe, e delle case, di Pasolini a Roma
Questa è la storia di un poeta estinto mentre andava cercando libertà, da chiuso morbo combattuto e vinto. Questa è la pietra parlante di Wilhelm Waiblinger, consunto dalla tisi al primo piano di via del Mascherone 62, angolo via Giulia. Era il 1826 e l’inquieto studente di Tubinga aveva davvero bisogno di sognare. Passeggiatore solitario e fashion victim, piccola anima smarrita tra donne e poesia, si era fatto cacciare da scuola. Non bastava a consolarlo quell’amico folle che viveva in una torre e si riempiva le tasche di sassi. Spacciandosi per corrispondente letterario, Waiblinger fuggì a Roma dove:
-diede fondo a tutte le sue ghette, vagando sempre più inquieto tra città e campagna.
-incontrò un nuovo amico, il poeta Auguste Von Platen, che invidiava perché si vestiva meglio di lui ma che gli diede anche una mano a sopravvivere.
-incontrò la colonia tedesca a Roma, gentaglia stupida, pettegola, meschina, come quei Nazareni, che deliravano sui Nibelunghi e Pinturicchio.
-incontrò Nazarena di Olevano Romano, musa di un Parnaso contadino che gli ispirò i “Canti di Nazarena” e i “Canti dell’infedeltà”.
-incontrò altre contadine, cameriere, cittadine, pazze di quella faccia d’angelo caduto tra le osterie, i caffè, i teatri. L’ultima fu Nena, una focosa trasteverina, detta “Cornacchia”. Gli diede due figli e tutto l’amore necessario per accompagnarlo sereno nei suoi campi elisi.
Prima di morire Waiblinger scrisse altre poesie, corrispondenze di viaggio, una fiaba e una modernissima satira sul turismo inglese. Ma la sua opera più grande è aver capito che dentro l’amico folle chiuso nella torre con le tasche piene di sassi si nascondeva un genio, Friedrich Hölderlin.
In piazza Farnese, il palazzo omonimo vi aspetta con Sangallo e Michelangelo. A destra, al numero 96, c’è una chiesa e una pietra che parla di Santa Brigida di Svezia.
Quando arrivò a Roma, nel 1350, era una principessa, vedova e madre, che aveva avuto una visione, fondare un ordine monastico. Ma aveva bisogno del papa così, da questa casa, cominciò a:
-scrivere al papa, “prigioniero” ad Avignone, che tornasse nell’Urbe per approvare l’Ordine del Santissimo Salvatore.
-scrivere al papa che tornasse subito, perché a Roma stava andando tutto a rotoli, strade di fango ed erbacce, vipere e rospi, anche nel clero.
-richiamare i romani ad una maggiore moralità, solo che qualcuno la prese male e una notte stava per darle fuoco.
-richiamare i potenti all’ordine, perché non se ne poteva più di quell’Europa divisa e sempre in guerra.
-studiare il latino, darsi ad opere di carità, chiedere l’elemosina alle porte delle chiese.
-offrire la sua casa ai pellegrini svedesi, che, grazie a lei, arrivavano sempre più numerosi.
-pellegrinare lei stessa tra Assisi, Amalfi, Bari, Napoli, fino al cammino estremo, il Santo Sepolcro a Gerusalemme, dove si ammalò.
Di ritorno dalla Terrasanta, nel 1373, Brigida lasciò questa terra proprio in questa casa, che ancora oggi ospita pellegrini e turisti di ogni confessione. Ma ce l’aveva fatta. Il papa era tornato a Roma, anche se poco, e aveva approvato l’Ordine del Santissimo Salvatore. Il corpo della santa venne portato in Svezia che tuttora la venera come patrona. E senza di lei, a Lamporecchio non avrebbero saputo come chiamare quei dolcetti tanto buoni.
Al primo piano di un palazzo storico, di via dei Leutari 35, Gioachino Rossini trovò le armonie sempre nuove del Barbiere di Siviglia, dice una targa. E una delle più grandi delusioni della sua vita, disse lui. Era il novembre del 1815, triste era Roma, in pugno ad un papa che io i teatri li chiuderei tutti. Fortuna che il cardinale segretario di Stato la pensava diversamente, voleva allegria e dunque la stella dell’opera buffa. In cambio di un ottimo ingaggio Rossini promise “Il Barbiere”, ma:
-fece a botte con i tempi di consegna, un precipitoso crescendo che neanche i suoi.
-fece a botte con l’impresario del Teatro Argentina, dove l’opera andava in scena, per la scelta di cantanti e librettista.
-fece a botte con la sera della prima, quando leggenda dice che tutto quel che poteva andare a rotoli rotolò: un gatto nero sul palcoscenico, un cantante per terra, la pancia di Rossini dentro la ridicola zimarra.
-fece a botte col pubblico della prima che non smise mai, tranne che per qualche aria, di fischiare l’opera.
-fece a botte con sè stesso perché proprio non capiva quel fiasco, e neanche noi.
-fece a botte col Barbiere, tagliando lo spartito per la seconda rappresentazione, alla quale, dandosi malato, nemmeno si presentò. Almeno fu un trionfo, la sera dopo uguale e così sempre, per duecento e tre anni.
Rossini lasciò Via dei Leutari nel marzo del 1816, ma tornò a Roma per altre prime, divertendosi un po’ di più. Tipo una sera di Carnevale quando, travestito da donna, chiese l’elemosina suonando la chitarra per le strade del centro. Con lui, un altro pazzo en travesti che da come strapazzava il violino era sicuro quel suo amico, sì, dai, Niccolò Paganini.
Una targa tutta per te no, eh? Dovevi essere la figlia di, la moglie di e di chi poi... E allora, cara Costanza, questa pietra parlante è per te e per tutte quelle che furon lì lì ma non furono.
-Sei nata in questa casa di via dei Prefetti 22, nel 1792, da Teresa Pikler, attrice chiacchierata che ti amò ben poco e da papà Vincenzo, Monti, il poeta. T’adorava, ma sempre a caccia di un potente da adulare non aveva tempo per te. Così ti mandò in Romagna, a studiare dalle Orsoline.
-Crescevi bene, piena di grazia, dottissima, un gioiello. Poi, come sempre accade, perle ai porci. A 20 anni convolasti a nozze con un conte pesarese scelto da mamma, che al solito scelse per te il peggio.
-Pretese una cospicua dote, in cambio ti offrì titoli e corna e se provavi a prenderti i tuoi spazi la macchina del fango in moto andava.
-Ma tu volevi solo essere qualcuno perchè sapevi fare tutto, prosa, poesia, teatro, per poi non dire del tuo amato Dante, che commentavi con perizia vera. Oltre la siepe volevi volare, così convincesti il conte a trasferirvi a Roma, la tua città, che tua, però non era più.
–Gente oziosa, ladra e peggio se vi è, qual contrasto fra Roma antica e Roma ora meschina scrivevi disperata. Nella Biblioteca Vaticana non potevi entrare, nei salotti del Papa non volevi, il signor conte continuava a rincorrere sottane, ebbe anche un figlio, mentre il tuo morì neonato.
-Tornaste a Pesaro, più lontani che mai. Il conte si ammalò, i medici non capirono, morì. Contro di te l’inferno, dicevano perfino l’avessi avvelenato. Fu tutto un combattere, per discolparti, per la tua dote. E quando, finalmente, dalle tue Orsoline, ti rifugiasti a tirare il fiato, nel petto un sussulto: il primo segnale del tumore che ti portò via, a nemmeno 50 anni.
Capita che una targa si divida in due. Aldo Palazzeschi e Adelaide Ristori, coinquilini separati dal tempo, nel palazzo di Via dei Redentoristi 9, il palazzo di Adelaide marchesa Capranica del Grillo, l’attrice italiana più famosa dell’800.
Nata letteralmente su un palco, ci diventò grande, fino a quando una sera, a Roma, chiese di lei il proprietario del Teatro Metastasio, Giuliano Capranica del Grillo: voleva sposarla. Un marchese e un’attrice, quando mai. Invece Giuliano si mise a servizio perché lei potesse:
-oltrepassare le Alpi e conquistare Parigi, e George Sand, e de Lamartine, con Dumas che le rubò la ricetta dei maccheroni.
-oltrepassare la Manica e conquistare Londra, con la regina Vittoria che la trovò “una cosa sublime”.
-oltrepassare l’Europa e conquistare San Pietroburgo, con lo zar che l’ascoltò in missione diplomatica per Cavour.
-oltrepassare l’Oceano e conquistare New York, e il generale Grant, e Pedro II del Brasile.
-oltrepassare ogni confine e conquistare il mondo, con le sue regine tragiche, i vestiti che le faceva Worth, i suoi attori, la sua interpretazione.
-oltrepassare i tempi, con il suo essere marchesa, lavoratrice, moglie/madre devota.
Dopo la morte del marito, Adelaide Ristori si ritirò a Palazzo Capranica, dove ogni giorno qualcuno andava a renderle omaggio. Il 29 gennaio del 1902 entrò Vittorio Emanuele III, un onore mai reso ad altro artista. La struttura originaria di Palazzo Capranica risale al Cinquecento e ci deve essere un certo non so che se il 7 settembre del 1791 ci nacque anche Giuseppe Gioachino Belli. La targa la trovate nella vicina via Monterone.
Davanti a un cortile di Via Margutta 53/B, una targa ricorda che da un marchese di 102 anni fa Pablo Picasso affittò un atelier. L’impresario Diaghilev stava preparando a Roma Parade, il primo balletto cubista della storia. Squadra da paura, libretto di Cocteau, musica di Satie, coreografo Massine. Mancava qualcuno per scene e costumi, Cocteau pensò a Picasso e per convincerlo si travestì da Arlecchino. Lui, che stava in un periodo nero, sorrise. In questo atelier dipinse:
-Villa Medici, più volte, di sbieco, strizzando l’occhio ai puntini di Severini.
-Le ragazze di piazza di Spagna, che venivano dalla Ciociaria per far da modelle e nacquero L’Italiana e Arlecchino e donna con collana.
-Le scene, i costumi e il grandioso sipario di Parade, cubisti sì ma di un cubista che alla finestra aveva Roma e il suo passato.
Poi non è che Picasso passasse le ore qui dentro. C’era una guerra da dimenticare e i colleghi eran gente da baracca. Quindi chiudeva bottega e andava:
-a visitare musei, specie la Galleria Borghese e il suo Bernini.
-al caffè, al ristorante, specie la Basilica Ulpia al Foro di Traiano.
-a teatro e al dopo teatro, per incontrare quell’opera d’arte vivente della marchesa Casati.
-a puttane, o almeno si era segnato l’indirizzo del bordello, via Tomacelli 140.
Picasso rimase a Roma tre mesi. Le Parade andò in scena a Parigi, tre mesi dopo e fu un fiasco. Non per Picasso, però, che dal suo soggiorno nell’Urbe si portò a casa una moglie, la ballerina Olga Kokhlova, testimoni Guillaume Apollinaire e Jean Cocteau. Ma non durò molto.
Nella Basilica di Santa Maria del Popolo, nella piazza del, c’è più di una targa, ma questa storia comincia in una locanda di Trastevere, dove, nel 1656, scese un pescajuolo napoletano. Era malato, finì allo spedale, morì. Vedendo un pomfo sul tapino, qualcuno pensò: “E’ peste”. Qualcun altro pensò di no e si scelse di tacere. Ma quando il pomfo colse anche la locandiera, tutti convennero: “E’ peste”. Il papa convocò una task force d’emergenza, che ogni mattina si riuniva per:
-approntare cordoni sanitari, nelle zone di mare e di confine; chiudere le strade secondarie; lasciare aperte solo 8 porte della città, presidiando ciascuna con le armi; disinfettare i soldi nell’aceto; punire i trasgressori. Ma il morbo penetrò lo stesso. Il papa allora:
-allestì un lazzaretto di primo soccorso sull’Isola Tiberina, dove si poteva arrivare solo via fiume.
-ne allestì altri due a San Pancrazio e a Casale Pio V, per le convalescenze.
-ne allestì un quarto dentro via Giulia, post convalescenza e un quinto a Sant’Eustachio, per i soggetti a rischio.
-impedì a medici, chirurghi e compagnia di uscire da Roma, pena la morte e la confisca dei beni.
-indisse un giubileo per chiedere aiuto in alto, ma la gente aveva paura a uscire e a giubilare rimasero i prelati.
-corresse il tiro con digiuni e preghiere, sospese le processioni, le prediche di piazza, feste e consessi civili e letterari.
Ma la peste continuò, fino all’agosto dell’anno dopo. Il papa venne a celebrarne la fine in Santa Maria del Popolo, con un solenne Te Deum. I morti furono quasi 15mila, a fronte di 100mila abitanti. Eppure, furono meno che in altre città.
In piazza di Spagna 26 c'è la casa dove visse John Keats. Ma ci visse anche Axel Munthe, il medico-scrittore svedese, per quanto non ci sia nessuna targa a ricordarlo. Posso? Faccio io. Esperto di malattie nervose, curava i ricchi per curare gratis i poveri. Li cercava ovunque, dalla Lapponia a Napoli ai tempi del colera. A Capri decise di fermarsi, ma, a forza di aiutare questo e quello, rimase senza un soldo. Scrisse una lettera a un suo benefattore che gli rispose con un invito a Roma. Era il 1890, aveva 33 anni e:
-nella casa del fu Keats radunò cani, gatti, un gufo e perfino un babbuino.
-aprì uno studio medico a Trastevere, che attirò subito signore piene di soldi e disturbi immaginari.
-la sala d’attesa si riempì poi di ministri, diplomatici, nobili, d’oltralpe e d’oltreoceano;
-tra i suoi pazienti perfino Eleonora Duse, che una notte gli piombò a casa, in vestaglia, in fuga dalla solita lite con D’Annunzio.
-le suoi pazienti preferite erano però quelle che ogni giorno incontrava sulla scalinata di Trinità dei Monti: modelle, venditrici di fiori, fiammiferaie pronte a onorare la parcella con mazzolin di rose e viole.
Poi arrivò una chiamata, su, a Stoccolma, i nervi della principessa Vittoria stavano per cedere. Munthe intervenne e così bene da esser promosso a medico di corte. Quando Vittoria diventò regina, Munthe poté realizzare il sogno di una vita, una casa a Capri, aperta al vento, al sole, al mare, come un tempio greco. Villa San Michele, dove continuò a curare corone depresse, assistere gli indigenti, circondarsi di animali, scrivere il libro più venduto di sempre dopo la Bibbia e il Corano, “La Storia di San Michele”.
Giuro che non l’ho rubata io. Giuro che c’era davvero una targa ad indicare che in Via delle Muratte 78, dietro Fontana di Trevi, visse Gaetano Donizetti. Che componeva così tanto che non potevano essere tutti capolavori. Presero a chiamarlo “Dozzinetti” e quando gli dedicarono questa targa, i presenti lessero: “IN QUESTA CASA / ABITÒ GAETANO DOZZINETTI / DI BERGAMO / E VI COMPOSE / IL FURIOSO E IL TORQUATO TASSO / S.P.Q.R. / 1876”. Qualcuno rise, qualcuno no, qualcuno corresse, ma rimase l’abrasione. Comunque Donizetti arrivò a Roma per la prima volta nel 1821, a 24 anni, poverissimo.
-Trovò una scrittura al Teatro Argentina, con la “Zoraida di Granata”, melodrammone a lieto fine iniziato con un cantante morto durante le prove.
-trovò un pubblico in delirio, che lo portò in trionfo per le strade a suon di banda e balli.
-trovò ingaggi a cascata, da Napoli a Milano, anche se stava meglio a Roma, dove aveva amici cari, come Antonio Vasselli, che gli aveva trovato una stanza in casa sua, qui, in Via delle Muratte, e una moglie, Virginia.
-trovò i primi segni della sifilide che se lo sarebbe portato via e che probabilmente trasmise anche a Virginia.
-trovò la gioia, per la nascita del primo figlio, e la tragedia, perché il piccolo morì dopo una settimana.
Gaetano e Virginia ebbero altri due bambini, ma non sopravvissero nemmeno loro e subito dopo il terzo parto anche Virginia morì. Donizetti annegò la sua disperazione continuando a lavorare come un pazzo per i maggiori teatri d’Italia e d’Europa. Tornò a Roma raramente, l’ultima nel 1844, pochi giorni passati per lo più in casa, tristo e senza gaiezza.
Via di Ripetta è ombrosa e la targa al numero 22 raschiata dal tempo. Ma fermatevi lo stesso qui dove nacque Eleonora Fonseca Pimentel, la figlia ideale del secolo sbagliato. Nel 1752 il padre, un marchese portoghese in rotta col papa, trasferì la famiglia a Napoli. Se fosse rimasta, forse, Eleonora:
-non avrebbe ricevuto un’educazione formidabile, primeggiando nelle lingue antiche, moderne, diritto e scienze tutte.
-non sarebbe stata una ragazzina prodigio, che scriveva poesie e le recitava nei migliori salotti.
-non sarebbe entrata nell’Arcadia napoletana, nelle grazie di Metastasio e di Voltaire, che le dedicò versi affettuosi.
-non sarebbe stata data in moglie a un tenente borbonico più vecchio, ignorante, infedele, con le mani bucate e sempre alzate su di lei.
-non avrebbe perso due figli, uno per un’epidemia e l’altro per le botte del marito.
-non avrebbe divorziato, riprendendosi la sua vita di donna colta e libera, anche di scommettere su quel sogno di libertà che era la Repubblica Napoletana.
-non avrebbe anticipato il giornalismo moderno col suo Monitore Napoletano, scritto “in una lingua con la quale istruire il popolo minuto”.
-non sarebbe finita in galera perché la rivoluzione fallì, i Borboni tornarono a Napoli e al popolo minuto fregava poco di essere istruito.
-non sarebbe finita sul patibolo, insieme ad altre menti illuminate, il 20 agosto del 1799.
Il popolo minuto che le stava tanto a cuore le dedicò una filastrocca oscena. Lei li salutò citando Virgilio: “Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo”.
In Via del Babuino 9 una targa racconta di Napoleone Bonaparte. No, non quello, ma il nipote, Giuseppe Carlo detto Girolamo che visse due anni qui, all’Hotel de Russie. Allora si chiamava Albergo dei Re, perché i clienti erano tutti a cinque stelle, come Girolamo, che somigliava moltissimo all’imperatore zio. Lui però era il Bonaparte Rosso per via dei suoi trascorsi rivoluzionari. Col matrimonio lavorò anche per l’Unità d’Italia, solo che arrivato a una certa età, e a Roma, Girolamo, pare, incontrò Gesù. E cominciò a:
-studiare il Vangelo.
-frequentare cardinali.
-visitare catacombe e cimiteri.
-farsi vedere, a San Pietro, col libro di preghiere in mano.
-pentirsi di aver tradito troppo l’ex moglie Clotilde di Savoia, tanto più pia di lui.
-star male, fino a morire il 17 marzo del 1891, dopo aver chiesto il perdono della Chiesa e di Clotilde, che arrivò appena in tempo per chiudergli gli occhi.
O almeno così dice qualcuno. Qualcun altro invece racconta che Girolamo da quella stanza:
-teneva una corte tutta per sé.
-partecipava a feste e mondanità.
-credeva il giusto anche in punto di morte.
Nella hall dell’Albergo dei Re, Girolamo ricevette l’ultimo saluto di varie teste coronate. Il feretro fu trasportato nella vicina Chiesa di Santa Maria del Popolo per l’assoluzione. Ne uscì tra le note di una parata militare, poi il corpo viaggiò in treno e venne sepolto nella Basilica di Superga. Se volete dormire nella stanza di Girolamo, all’Hotel de Russie non si sa più quale sia. Potreste però sempre prenotare le camere occupate da Picasso e Cocteau che mentre preparavano il primo balletto cubista della storia si rubavano le arance del superbo giardino interno.
Questa è una pietra prigioniera. La dicitura c’è, le dimensioni anche, così come il posto dove si potrebbe collocare, Piazza di Spagna 5. Una proposta del Maestro Roberto Prosseda e del professor Aldo Bernardini, che tanto fanno per Mendelssohn in Italia. Ma la Soprintendenza di Stato ha detto: “La posizione del marmo non è compatibile con gli stilemi del progetto architettonico”. Peccato, sarebbe stato un modo per ricordarsi che:
-Mendelssohn venne a Roma nell’autunno del 1830. Enfant prodige cresciuto prodigioso, di
Goethe pupillo, nipote di filosofo, talent di un Bach dai secoli tradito, pianista e interprete
applaudito, pittore abile, conversatore amabile, che faccio lascio?
-Era subito sera tra inviti a palazzi, un salto al Caffè Greco evitando i Nazareni, zozzoni che si
credono Tiziano, discorsi profondi col grande Thorvaldsen, scherzi musicali con l’amico Berlioz,
contorto e senza una scintilla di talento.
–La musica per Felix stava altrove, dalle suore di clausura dietro casa, che gli ispirarono Mottetti
poi cantati da quei veli al mondo muti.
-Che crollo, però, la musica in Italia… orchestre scadenti, strumentisti indegni, interpreti mediocri,
gente insensibile e il fuggi fuggi dei grandi cantanti.
–E non era solo la musica il problema: quando si vede una parte delle Logge del Raffaello scrostata
per far posto a scritte con la matita, quando tra le stupende sale di Villa Madama si caccia il
bestiame e vi si conserva il foraggio solo per indifferenza verso ciò che è bello tutto ciò è ancora
peggio di una cattiva orchestra.
Questo paese incauto finì comunque in un bell’epistolario e, con più gloria, nella sinfonia dove si
sentono davvero fiorire i limoni: la numero 4, l’Italiana, ovvio.
Questa è una pietra Covid, corpo in casa, mente rivolta a via Torino, dove c’era una casa molto carina, Villa Strozzi, distrutta per far posto al Teatro dell’Opera. Una targa dice che nel 1781 Vittorio Alfieri visse qui per un po’, cherchez la femme, la contessa Luisa d’Albany. Si erano conosciuti a Firenze e, fortissimamente, la volle. Anche lei voleva lui ma il marito di lei voleva strangolarla. Quindi:
-Luisa chiese aiuto al cognato cardinale, che a Roma le trovò un posto dalle Orsoline.
-Alfieri la contemplava in silenzio, disperato, da una grata.
-La sventurata voleva rispondere, il Papa ebbe pietà e le cedette un pezzo del Palazzo della Cancelleria.
-Alfieri si stabilì a Villa Strozzi dove “soggiorno più gaio, e più libero, e più rurale, nel recinto di una gran città, non si potea mai trovare“.
-La mattina scriveva, il pomeriggio andava a cavallo, la sera incontrava Luisa, ma alle 11 era già a letto (o così dice).
-Scrisse 14 tragedie, e, per vedere se funzionavano, invitava gente a casa, correggendo in base al numero di sbadigli o all’irrequietezza dei sederi.
-Il marito tradito intanto continuò a dar di matto e la situazione divenne insostenibile.
Alfieri lasciò Luisa, la villa, Roma e cominciò a girar l’Europa senza pace. I due si ritrovarono solo qualche anno dopo, quando Luisa ottenne finalmente la separazione. Andarono a vivere insieme, prima a Parigi poi a Firenze. Ma felici come a Roma, non lo furono mai più. Lui morì nel 1803, lasciandole ogni bene. Lei si consolava guardando il ritratto di coppia, e, pare, anche col ritrattista.
Questa targa andrebbe un po’ corretta. Perché ci vissero tutti e due i fratelli Mann, in Via del Pantheon 57. Però la targa ricorda solo Thomas, “il poeta”, che pure di poesia ne scrisse mezza. E invece era stato Heinrich il primo ad arrivare a Roma. Cercava sollievo ai suoi polmoni e forse già che c’era anche se stesso. Qualcosa trovò, disse al fratello: “Vieni” e quello scese, fuggendo da un futuro d’ossessioni. L’Italia sembrava la cura giusta, anche se gli era indifferente fino al disprezzo e gli italiani terribilmente fastidiosi.
Cosa facevano i due fratelli Mann, nell’Urbe?
Poco turismo né passeggiate antiche, molta campagna tra Palestrina e Roma, qua e là la musica, Verdi e Puccini, per quanto Wagner…
Tante fumate e bevute e il domino giù al bar, il resto in casa, due stanze al terzo piano, sempre da soli, a ragionare sulle proprie origini.
Ragionavano su una storia di famiglia, un romanzone di mercanti e decadenza, ispirato ai Mann con altra gente. Tiravan fuori ricordi, archivi e affetti, soprattutto Heinrich, che per età aveva più memorie.
Poi uno dei due girò la testa altrove e pubblicò I Buddenbrook da solo, nel 1901. Fu subito gloria, scrisse altro, ma fu grazie a Heinrich e a questa gita a Roma, che Thomas Mann vinse il Nobel.
Anche Heinrich continuò a scrivere, senza però raggiungere il successo del fratello. Tornato in Germania entrò in rotta col resto dei parenti, fece due matrimoni infelici, si impegnò in politica, dovette andare in esilio, perse la nazionalità tedesca, cadde in povertà sopravvivendo grazie ai soldi che gli mandava il pur sempre legato Thomas. Che cercò in tutti i modi di farlo rientrare in patria, ma il visto arrivò quando Heinrich era già morto.
Roma è sempre stata un grande albergo e non si può mica mettere una pietra sopra tutti. Ma quando uno scrive “stile eccellente, camera stupenda, lunch squisito”, il tripadvisor delle targhe chiede menzione per Sigmund Freud che si registrò all’Hotel Eden, zona via Veneto, il 16 settembre del 1912. Era un habitué della città ma che fatica venir qui la prima volta. Sognava Roma da sempre ma quel sogno non riusciva a interpretarlo: se non avesse retto la realtà? L’impatto infatti fu una botta perché di Rome ne trovò ben tre.
La prima, antica, lo travolse tutta con il suo peso di rovine e miti.
Con la seconda, quella Vaticana, invece male. Era scienziato, di famiglia ebraica, insomma, blocco.
Trovò invece simpatica la terza, la Capitale giovane e in fermento, dove si diede al turismo totale. E la monetina a Trevi e la manina nella Bocca della Verità e il Palatino. 12 giorni matti e felicissimi, niente da fare, doveva ritornare.
Furono sette in tutto i viaggi a Roma: adorava Villa Borghese, una Schönbrunn degna di un Prater, il cinema all’aperto di piazza Colonna, dove scorrevano pubblicità del nuovo secolo, il teatro Quirino, dove si poteva fumare in corridoio.
Comprava souvenir da portare ai suoi e con sé, gardenie per risollevare l’umore, giocando a fare il ricco signore che vive di passioni.
La mente però in vacanza non ci riusciva a andare. Quasi ogni giorno Freud raggiungeva il Mosè di Michelangelo, a San Pietro in Vincoli, e lo fissava, senza riuscire a reggere lo sguardo. Un’ossessione che prese forma in un libretto, una lettura originale di quella statua mito.
L’ultima vacanza romana di Freud è del 1923. Durante il viaggio d’andata ebbe una emorragia, poi dolori insopportabili alla mandibola. I sintomi di un cancro alla bocca, che lo ucciderà anni dopo.
Arriva Cristina e Roma va in tilt. Succedeva nel 1655, Cristina era la regina di Svezia e cosa c’entri, tutto questo, con questo canale lo dice una pietra latina sulla facciata interna di Porta del Popolo: “PER UN INGRESSO FELICE E DI BUON AUSPICIO”.
Quando attraversò questa porta, Cristina aveva appena gettato la corona ai licheni e lasciato Lutero per il papa. Quale pubblicità per una Chiesa in crisi, papa Alessandro VII si fece prendere dall’ansia e:
- chiamò Bernini che disegnò una lettiga, le gualdrappe dei cavalli, fino al restyling di Porta del Popolo, con i simboli del papa e quelli di Cristina.
- si accollò parecchie spese del viaggio, dalle biade alle osterie.
- ordinò di addobbare le finestre delle case con parati e lanternoni, di chiudere bottega, e che nell’area del solenne passaggio nessuno circolasse.
diede istruzioni a prelati, notabili, principi e autorità su come vestirsi e muoversi al corteo, e prima ancora su come accogliere Cristina.
- il 23 dicembre le fece trovare a Ponte Milvio la lettiga di Bernini. Cristina, spada al fianco, un largo cappello sul capo, attraversò Roma a cavallo tra gli applausi della folla. Giunta a San Pietro ricevette il nome di Alessandra Maria. Da Castel Sant’Angelo spararono una girandola di razzi e in ogni parte furono fuochi d’artificio.
La festa, però, durò poco. Cristina non riusciva proprio a far sue le pratiche della sua nuova fede e mollò tutto per cercare il suo posto nel mondo. Ma quel posto era Roma, così tornò, per sempre. Si stabilì a Palazzo Corsini, a Trastevere, fece installare alberi e fontane, statue e busti antichi e una poltrona-trono dove riceveva da regina. Un piccolo regno, l’Accademia Reale, poi Arcadia.
Diciamocelo, lui è dappertutto, lei un po’ meno, e allora, quando vedi una targa che li ricorda insieme, ti viene da fermarti un po’, dietro piazza di Spagna, in via delle Carrozze 59, dove per cinque giorni vissero Anita e Giuseppe Garibaldi. Era iniziata la lunga estate crudele del 1849. Lui era venuto a difendere la Repubblica Romana, lei era rimasta a Nizza, con la suocera, i bambini e un altro in grembo. Ma piuttosto che lasciare solo il generale, e restare sola con la suocera, Anita preferì i cannoni di Oudinot. Si imbarcò su una nave e la mattina del 26 giugno:
-corse subito a Villa Spada, il quartiere generale di Garibaldi, che appena le vide esclamò: Eccola la mia Anita: adesso abbiamo un uomo in più.
- cominciò a combattere con lui, che di uomini ne stava perdendo a grappoli.
- continuò a combattere con lui, nonostante la Repubblica fosse bell’e perduta.
- smise di combattere con lui, quando lui capì che Roma non poteva essere più difesa.
- condivise con lui, in questa casa, un’ultima cena e il progetto di trasportare altrove la guerra, perché – lui le diceva – dovunque saremo, colà sarà Roma.
- andò con lui vestita da uomo, a cavallo, in Piazza San Pietro, dove Garibaldi promise ai suoi volontari fame, sete, marce forzate, morte.
Lo seguirono in più di quattromila, inseguiti da francesi, austriaci, spagnoli, borbonici. La marcia fu estenuante, qualcuno si perse per strada e a San Marino il generale sciolse la sua vincibile armata. Con i 200 fedeli rimasti mirava a Venezia, ma Anita, incinta e malata, in Romagna gli collassò tra le braccia. Il medico arrivò in tempo per scuotere la testa. Dal 1932 le sue spoglie riposano nel monumento che le hanno dedicato sul Gianicolo. Dietro, ovviamente, a quello di Garibaldi.
Se siete in Piazza di Spagna, in alto guarderete senz’altro. Guardate anche verso il numero 26, la Keats-Shelley House. Suonate e fermatevi tanto dove John Keats si fermò troppo poco.
La sua brumosa Albione alla sua tisi bene non faceva. Cercava il sole, da qui il viaggio in Italia, senza alcun desiderio di Grand Tour. Col pittore - amico Joseph Severn arrivò a Roma il 15 novembre del 1820. Affittarono un appartamento al secondo piano, con camino e due camere da letto. Tre scellini al giorno e molte spese, ma la zona era tranquilla e soprattutto c’era il dottor Clark.
Keats riscaldava, raramente, i piatti della vicina “Trattoria del Lepre”, perché secondo il dottor Clark mangiando niente sarebbe guarito dalla tisi. Faceva, raramente, passeggiate fino al Pincio, perché secondo il dottor Clark con un po’ di moto sarebbe guarito dalla tisi.
Contemplava Roma dal Pincio, ma non riusciva a leggere o a scrivere nulla, per il male sempre più sottile, la vita già postuma.
Tossiva nel suo lettino a barca, sulla testa un soffitto di fiori, quasi una prova gentile della tomba.
Ascoltava il fedele Severn, che al pianoforte gli suonava Haydn convinto potesse dargli un po’ di respiro.
Il respiro di John Keats si interruppe appena tre mesi dopo il suo arrivo. Aveva 25 anni. La targa sulla casa reca incisa una lira greca dalle corde spezzate, la stessa che trovate nel Cimitero Acattolico, nel quartiere Ostiense, dove Keats è sepolto. La Keats-Shelley House è uno dei Musei più belli della Capitale. Perché si può sfiorare la vita, attraverso la ricevuta del noleggio di un pianoforte o un soffitto dai fiori tristi.
Chiamatelo scemo. Uno che lascia moglie e figli in America, in ristrettezze, e per dimenticare i suoi insuccessi fa un lungo viaggio New York – Gerusalemme, andata e ritorno. Chiamatelo scemo uno che a metà strada si ferma dietro al Pantheon, in Piazza della Minerva, nell’hotel delle celebrità e ci resta più di un mese.
Si chiamava Herman Melville l’ospite atteso il 25 febbraio 1857. Nessuna targa lo ricorda oggi, forse per questi suoi primi flash:
- Roma mi ha dato un’impressione di piattezza, piatta da dare oppressione, scrisse deposti i bagagli a terra.
- L’intero paesaggio non sarebbe nulla se si prescindesse dalle memorie, scrisse lasciati i bagagli in camera.
- Il Tevere è un canale che cola giallo zafferano, scrisse volgendo lo sguardo oltre il fiume.
- La facciata è deludente, la cupola non eguaglia le meraviglie di Santa Sofia, scrisse volgendo lo sguardo a San Pietro.
- Non c’è luogo dove un uomo solo si senta più solo che a Roma, scrisse ascoltando un’orchestrina al Pincio.
Era così, Mr. Melville. Ovvio, ogni tanto il cuore cedeva, davanti alle Terme di Caracalla, o a Palazzo Farnese, la più bella architettura tra le dimore private, o all’Apollo del Belvedere, una specie di risposta visibile a quel tipo di umane aspirazioni alla bellezza. E furono proprio le statue a colpirlo di più, dai giganteschi santi di San Giovanni in Laterano, ai Cesari, ai filosofi sparsi ovunque. Una in particolari gli restò così dentro che venne fuori solo al ritorno in America: leggete Billy Budd, la descrizione di John Claggart è modellata sul ricordo del Tiberio visto ai Musei Capitolini. Due infami senza redenzione.



