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La Sveglia di Giulio Cavalli
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La Sveglia di Giulio Cavalli

Author: Giulio Cavalli

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Dal lunedì' al venerdì, ogni mattina, la sveglia per il quotidiano La Notizia. E poi le letture. E tutto quello che ci viene in mente.

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Global Sumud Flottilla, giorno 5. Le barche italiane non partono a caso: si concentrano con quelle che risalgono dalla Spagna e da Tunisi, per salpare insieme. È logistica e buon senso: arrivare alla spicciolata sarebbe un regalo a chi vuole isolare ogni equipaggio. Gli organizzatori indicano la finestra del 7 settembre per l’innesto da Catania e Tunisia, dopo controlli e prove di sicurezza: la flotta cresce a onde, non a colpi di foto. Intanto Gaza sanguina. Nelle ultime 24 ore i raid hanno ucciso almeno 69 persone e ne hanno ferite oltre 400, portando il bilancio complessivo a circa 64.300 morti dall’ottobre 2023. A Gaza City l’offensiva ha raso al suolo un grattacielo nel quartiere Rimal, mentre le sirene corrono tra le tende degli sfollati. La cronaca è una sola: bombardamenti su edifici, famiglie, strade. A Roma la premier risponde a Elly Schlein promettendo «tutela per gli italiani a bordo», invitando però ad «avvalersi dei canali umanitari già attivi» per evitare rischi. I famosi canali umanitari che non incanalano mentre accade lo sterminio. È la solita protezione condizionata: la dignità viene messa a bilancio, come se la legge del mare e il dovere consolare fossero optional. Chi oggi parla di oneri dovrebbe guardare i numeri di Gaza e decidere da che parte stare. Noi, intanto, facciamo ciò che va fatto: proteggere i naviganti, smentire i complottisti, ricordare che le acque di Gaza non sono proprietà privata. La partenza del segmento italiano avverrà con la concentrazione di tutte le barche — dalla Spagna alla Tunisia — perché questa è la forza: un’unica rotta, un’unica notizia, un’unica richiesta agli Stati che tacciono #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
La rotta è ripresa, la scia si allunga: dai video di bordo si contano già una dozzina di navi in mare e altre in arrivo, mentre dalla Tunisia si muove una piccola flotta che domenica si aggancerà alla carovana mediterranea. Cresce la presenza pubblica — quattro parlamentari italiani, Emergency, osservatori legali irlandesi — e la piazza italiana si fa sentire da Catania a Genova. C’è anche un necessario chiarimento: la delegazione italiana smentisce la “barca stampa” di Claudio Locatelli. Non è autorizzata a unirsi né a raccogliere fondi a nome della missione. «Non abbiamo bisogno di eroi né di “combattenti”, la nostra unica arma è la nonviolenza», ricorda la portavoce Maria Elena Delia. Le uniche eccezioni ammesse sono il mezzo di Emergency e il team legale della Freedom Flotilla Irlanda. Intanto Gaza sanguina. Dall’alba nuovi bombardamenti hanno ucciso decine di persone, con attacchi che colpiscono case e campi profughi; i morti per fame, indotta dall’assedio, sono saliti a 370, tra cui 131 bambini. Nelle strade mancano proteine e verdura fresca: si raziona, si sopravvive a un pasto al giorno. È qui che entra in scena la “ciurma di terra”, la chiave di tutto. Le mobilitazioni di questa settimana — da Roma alle città di porto — servono a proteggere chi naviga, a smontare i vigliacchi e i millantatori, a ricordare che il diritto internazionale è dalla parte della Flottilla e che le acque di Gaza non sono proprietà di Israele. Servono a pretendere l’apertura di un canale umanitario e politico che, per forza di vergogna, costringa gli Stati a muoversi. Se l’Europa vuole davvero “difendere la legalità”, cominci da qui. Il resto è rumore di fondo.. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
GLobal Sumud Flottilla, giorno tre. Il Mediterraneo è un corridoio nervoso: mare in miglioramento dopo la notte di droni che ha allarmato gli equipaggi in rotta da Barcellona, alcune barche in sosta tecnica alle Baleari/Minorca, altre già ripartite. Sul ponte si contano presenze e responsabilità: dodici rappresentanti eletti chiedono «un corridoio umanitario immediato», delegazioni da 44 Paesi rivendicano la rotta civile, mentre l’esperta ONU Francesca Albanese ricorda che la missione «rispetta pienamente il diritto internazionale». Intorno, la politica misura se stessa. Il ministro israeliano Ben-Gvir propone di classificare come «terroristi» i volontari e detenerli nelle carceri speciali e in Italia l’ANPI prende sul serio quelle minacce e chiede due azioni che chiamano il governo alla prova dei fatti: protezione diplomatica agli equipaggi e sospensione del memorandum con Israele. Dalla Sicilia il quadro si completa: Emergency conferma la partecipazione con la Life Support in funzione di osservazione e supporto medico-logistico, con partenza dall’area di Catania insieme ad altre unità italiane. Dalla sponda sud, Tunisi è hub di raccolta e formazione: moduli su sicurezza, primo soccorso, protocolli legali; finestra di partenza a inizio settembre condizionata da meteo e verifiche, con possibili slittamenti decisi riunione dopo riunione. Il diario, oggi, registra una verità semplice: non è una flotta di slogan. È logistica, diritto e diplomazia esposti alla luce del sole, contro un assedio dichiarato illegale da giuristi e organismi internazionali. Le barche avanzano lente, ma la loro velocità non è la misura del risultato. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
La testa della flotta è già in mare dopo la partenza del 1° settembre da Barcellona. La notte è stata dura: mare grosso, apparati in tilt, molte radio mute. Gli attivisti parlano di «tempesta elettromagnetica» che ha costretto alcune barche al rientro, mentre chi è rimasto in rotta ha navigato a vista con quattordici unità. In mattinata il segnale è tornato: i report di bordo dicono che la navigazione prosegue, con danni leggeri e equipaggi in grado di tenere la linea. A terra si muove il resto del mosaico. Le unità che hanno fatto scalo a Genova hanno già lasciato il porto; il concentramento italiano e le partenze sono in Sicilia, in coordinamento con Tunisi. A metà mese l’obiettivo è tagliare la rotta verso Gaza. Sul piano politico la pressione sale di grado. Tel Aviv continua a criminalizzare la missione e ora minaccia l’intera Europa che la sostiene: un avvertimento che fa coincidere la solidarietà civile con la guerra ibrida. Nelle capitali si discute di sicurezza marittima evitando la parola blocco, mentre il ministro degli Esteri Antonio Tajani, incalzato, ha detto l’ovvio: «terroristi a bordo? Non mi risulta». Intanto Gaza resta una ferita aperta. Le cifre dei morti e della fame scivolano via dalle cronache; ogni miglio percorso rimette al centro chi sopravvive dietro il muro e chi prova a raggiungerlo dal mare. È il senso del “sumud”, la testardaggine del restare umani: una flotta di gommoni, pescherecci e persone comuni che trasformano il Mediterraneo in un registro pubblico. Se arriveranno, avremo una prova che la politica può ancora inseguire il diritto. Se verranno fermati, resterà, nitida, la traccia della mano che li ha fermati. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Diario di bordo, giorno uno. La Global Sumud Flottilla lascia Barcellona e Genova con viveri, medici, delegazioni da 44 Paesi su una ventina di barche. Appena l’orizzonte si apre, arrivano le ritorsioni annunciate: il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir promette che gli attivisti «saranno trattati come terroristi». Non una figura retorica: carceri speciali, condizioni punitive, sequestro delle imbarcazioni. La minaccia è un programma politico dichiarato. Dalla Spagna arriva la postura che in Europa dovrebbe essere normale e che invece fa notizia: il ministro degli Esteri José Manuel Albares annuncia «tutta la protezione diplomatica» per i cittadini imbarcati e mette sul tavolo in Ue embargo sulle armi a Israele, sospensione dell’accordo di associazione e nuove sanzioni contro i coloni violenti. La legge internazionale non è un’opinione, ricorda. Che cosa fa l’Italia? Balbetta. Le richieste di tutela arrivano da parlamentari di opposizione; il Pd parla di minacce «da rispedire al mittente», Più Europa chiede sostegno diplomatico, Conte domanda alla premier se intenda difendere i connazionali e quando si deciderà a prendere le distanze dalle parole di Ben-Gvir. Dal governo, silenzio operativo: un vuoto che pesa come una scelta. La portavoce in Italia Maria Elena Delia ricorda che Global Sumud Flottilla opera nella totale legalità. La politica di domani dirà chi, tra Stati membri, ha difeso i suoi cittadini e il diritto internazionale. La Spagna alza la testa. L’Italia, come troppo spesso accade, la china. E quando si china la testa in mare, si rischia di ingoiare acqua. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Gaza City è stata dichiarata «zona di combattimento». Israele rallenta o interrompe gli aiuti al nord e spinge nuove evacuazioni verso sud. La Croce Rossa avverte che un’evacuazione di massa «non può avvenire in modo sicuro e dignitoso». I fatti delle ultime ore: raid e un panificio colpito ad al-Nasr, undici civili uccisi. Dall’alba 44 morti, 66 nelle 24 ore secondo le autorità sanitarie locali. Colpire i forni quando manca il pane è più di un segnale militare: è una scelta politica sulla vita dei civili. L’Europa parla ma resta ferma. «Gaza ha bisogno di meno guerra, non di più», dice Kaja Kallas. Ma non è una guerra quella in cui un esercito trucida civili, donne e bambini, gente in fila per la farina e il pane. Gaza ha bisogno di meno vigliaccheria europea. Solo quello. Fuori dai palazzi la realtà spinge: in cinquemila al Lido di Venezia e, da Genova, la Global Sumud Flottilla prepara oltre 300 tonnellate di aiuti. La società civile misura il vuoto della politica. Intanto Washington restringe il perimetro diplomatico: visti revocati ad Abu Mazen e a funzionari palestinesi a ridosso dell’Assemblea generale. L’Onu chiede chiarimenti. Se “sicurezza” significa bombardare quartieri, ridurre gli aiuti e mettere in strada un milione di persone senza rifugio, allora stiamo descrivendo altro. Lo sanno le agenzie umanitarie, lo vedono le piazze europee. L’unica scelta seria è cessate il fuoco, pieno accesso umanitario, sanzioni efficaci contro chi sabota il diritto internazionale. Chiamare le cose col loro nome non è radicalismo: è la minima igiene della verità. Ora. La storia condannerà chi ha parlato senza agire. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Altro che “terroristi”. A Gaza il fuoco israeliano ha colpito soprattutto i civili: lo dice una banca dati interna dell’intelligence militare, non la “propaganda nemica”. Un’inchiesta di +972 Magazine e Local Call con il Guardian mostra che, allineando il database di Aman con i totali del ministero della Salute di Gaza, almeno l’83% dei palestinesi uccisi fino a maggio erano civili; considerando soltanto i decessi “certi”, la quota supera l’86%. L’esercito ha confermato l’esistenza del database, poi ha provato a ritrattare: lo stesso zig-zag che da due anni accompagna i numeri degli “operativi eliminati”, gonfiati e sgonfiati senza coerenza mentre i numeri crescevano. Persino membri della commissione Esteri e Difesa della Knesset hanno messo in dubbio quei conteggi; l’ex Ombudsman dei soldati, Itzhak Brik, parla di una cultura della menzogna: «mentono senza sosta». Il quadro operativo, intanto, racconta regole di ingaggio slargate: autorizzati più di cento civili uccisi per colpire un comandante di Hamas, fino a venti per un quadro intermedio. È la matematica del “danno collaterale” che diventa politica pubblica, con un rapporto di vittime civili rarissimo nelle guerre contemporanee. Bugie insanguinate: ogni volta che emerge un fatto o un numero, l’ipocrisia genocidiaria si svela da sé. La “guerra chirurgica” era un comunicato con l'ossessione di far tornare le cifre prima che tornasse la verità. Se perfino i dati interni israeliani convergono sul massacro di civili, resta una domanda secca: quante altre smentite serviranno perché si ammetta che la strategia ha preso di mira un popolo più che un esercito? #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
I sindacati europei tornano a fare il loro mestiere: difendere i diritti quando la politica abdica. Confederazioni e federazioni del lavoro chiedono alla Commissione di sospendere l’Accordo di associazione con Israele e di bloccare gli scambi con gli insediamenti nei Territori occupati. È il punto in cui le parole di circostanza hanno esaurito la loro utilità: davanti a Gaza affamata e rasa al suolo, il registro delle “preoccupazioni” è un alibi. Le sanzioni sono uno strumento di diritto, non un tabù. Nel frattempo, un altro fronte civile si è mosso: gli allenatori italiani hanno scritto alla Figc chiedendo di inoltrare a Uefa e Fifa la sospensione temporanea di Israele dalle competizioni internazionali. Niente crociate ideologiche: in ballo c’è un principio semplice, lo sport non può normalizzare l’eccezione permanente. Quando i corpi dei bambini pesano più delle classifiche, l’unico risultato che conta è la pressione per fermare la violenza. La richiesta dell’Aiac è netta e, per una volta, coraggiosa. Matteo Salvini ha risposto che «gli allenatori facciano gli allenatori». Accogliamo il criterio: i ministri facciano i ministri. Chi guida le Infrastrutture garantisca treni puntuali e opere trasparenti, senza usare lo sport come paravento di una linea politica impalpabile. Il governo ripete: «non politicizzate il calcio». Intanto chiede al Paese di abituarsi alla politica che non decide. Se i sindacati europei indicano la strada del diritto e gli allenatori ricordano il peso della coscienza, all’esecutivo resta un compito minimo: prendere atto che la neutralità, oggi, coincide con la complicità. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
A Verona la cartella clinica ha fatto quello che la politica elude: ha riportato i fatti. Osama, 5 anni, il bambino di Gaza bollato come «fake», è stato dimesso dopo due mesi di cure al Borgo Trento. Era arrivato il 12 giugno con un volo umanitario, 9,2 chili di peso, diagnosi di grave malnutrizione e un deficit immunitario moderato; oggi è attorno ai 14 chili, continuerà profilassi e controlli ambulatoriali. È una storia medica, prima che mediatica. Per settimane il suo volto è stato trascinato nel gioco della propaganda. L’unità COGAT e lo stesso Benjamin Netanyahu hanno indicato le foto dei «bambini affamati» come costruzioni, citando il caso e minacciando azioni legali contro chi le pubblicava. «Sono tutte false», ha detto il premier, trasformando un referto in un processo d’intenti. Qui, invece, hanno parlato i medici. «Tra le cause del grave malassorbimento intestinale anche le condizioni imposte dalla guerra», ha spiegato il pediatra che lo ha seguito. Non è un dettaglio: spiega perché un bimbo con comorbidità sia precipitato laddove i farmaci di base, gli enzimi per digerire, il cibo proteico e l’accesso alle cure sono diventati beni rari. Già a maggio Osama era stato fotografato al Nasser Hospital in un ambulatorio per la malnutrizione; e intanto l’ONU registra, solo a luglio, oltre 12 mila casi di malnutrizione acuta sotto i cinque anni, 2.500 gravi. Dati, non slogan. Questa vicenda dice qualcosa di più largo del singolo caso. Quando i corpi diventano argomenti, la prima vittima è la verità. Gli ospedali, in Italia come a Gaza, sono gli unici luoghi dove il dibattito torna misurabile: peso, esami, terapie, esiti. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Gaza è una sindone

Gaza è una sindone

2025-08-1901:41

Gaza non è un’eccezione. Gaza è la sindone del governo di Israele.» La trama si legge nitida aprendo il rapporto di Mediterranea with Palestine su Masafer Yatta: in 129 giorni, 838 violazioni in 27 villaggi; quasi una su due è un’invasione di proprietà (409), poi 51 demolizioni, 110 tra arresti e detenzioni, 12 nuovi o ampliati avamposti. È un metodo: coloni e forze dell’ordine agiscono in sincrono per produrre spossessamento e resa. Il diritto lo dice da tempo. Nel Parere del 19 luglio 2024 la Corte internazionale di giustizia qualifica l’insieme delle pratiche israeliane nei Territori occupati come illegale; impone agli Stati terzi obblighi di non riconoscere, non assistere, cooperare per far cessare la situazione. Non una nota a margine: un vincolo giuridico. I numeri descrivono l’ingegneria demografica: oltre 700.000 coloni in Cisgiordania, avamposti incentivati e poi “legalizzati”; l’invasione della sfera privata come anticamera di aggressioni, incendi, blocchi, confische. La “de-palestinizzazione” è una politica di Stato. C’è poi l’architettura carceraria: corti militari con tassi di condanna fino al 99,7%; detenzioni amministrative senza capi d’accusa rinnovabili; a maggio 2025 i prigionieri palestinesi sono 10.068, con migliaia di persone senza processo. È la normalizzazione dell’arbitrio come strumento di governo. Per questo Gaza è una sindone: imprime sul tessuto del presente l’immagine rovesciata di un sistema che si vede identico, seppure a intensità variabile, da Hebron a Khan Younis. La comunità internazionale non può continuare a contemplare il lenzuolo e fingere di non riconoscere il corpo. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Il genocidio è una politica, non un incidente. Il ciclo è chiaro: mentre in Israele decine di migliaia di persone chiedono un accordo per liberare gli ostaggi, il premier attacca chi protesta, equipara i familiari a «fiancheggiatori di Hamas» e avverte che le piazze «garantiscono un nuovo 7 ottobre». È l’uso del dolore come strumento di governo, funzionale a prolungare la guerra e a schiacciare il dissenso. Sul tavolo, intanto, c’è una nuova proposta di cessate il fuoco mediata da Qatar ed Egitto; le fazioni palestinesi hanno sollecitato Hamas a rispondere. Ma Netanyahu insiste sul pacchetto “tutto in uno”: liberazione completa, resa di Hamas, controllo israeliano su Gaza. Ha ripetuto che le intese parziali «appartengono al passato». Condizioni scritte per non atterrare: l’esito utile non è l’accordo, è il rinvio. A Gaza la politica diventa geografia: ordini di evacuazione interi quartieri, la parrocchia della Sacra Famiglia avvisa che «si distribuiscono tende». È il trasferimento forzato in forma amministrativa, l’urbanistica della precarietà. La fame resta l’arma meno rumorosa. Amnesty parla di una strategia deliberata di affamamento: convogli bloccati, infrastrutture distrutte, bambini denutriti. È la distruzione delle condizioni di vita, non un danno collaterale Chiamare questa sequenza “guerra” oscura la realtà: punizione collettiva, deportazione di fatto, negazione del soccorso. Si può misurare nei corpi e nelle mappe.Finché la comunità internazionale accetterà la semantica dell’emergenza, la politica del genocidio resterà ordinaria amministrazione. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Benjamin Netanyahu sogna una nuova Nakba. È la grammatica della forza, mentre in Israele i familiari delle vittime annunciano scioperi e blocchi per forzare un compromesso. A Gaza l’offensiva non si ferma: vengono colpite anche aree dichiarate “sicure” come Muwasi, i bambini continuano a morire, la fame è diventata struttura, l’acqua è contaminata, le malattie corrono. È il risultato di un assedio che ha trasformato la sopravvivenza in concessione politica. Nel frattempo riemergono le parole dell’ex capo dell’intelligence militare Aharon Haliva: per ogni vita spezzata il 7 ottobre “cinquanta palestinesi devono morire”, “anche se sono bambini”, “serve una Nakba ogni tanto”. Non sono scivoloni: sono la verbalizzazione di una dottrina. Il castigo collettivo come metodo, la morte civile di un popolo come prezzo accettabile. Quando il lessico della vendetta diventa politica, il genocidio smette di essere un’accusa e diventa la logica conseguenza. All’orrore sistemico si affianca una scena che resta negli occhi: il giurista Ghanem Al-Attar cammina alla ricerca d’acqua, vestito con la cura di chi rifiuta di consegnarsi al fango. È la lezione di Primo Levi attraverso il signor Steinlauf: lavarsi nel poco, tenere la schiena dritta, negare il consenso al carnefice. Dignità come ultimo diritto fondamentale. Per questo l’Europa non può più barattare il proprio silenzio con condizionali diplomatici. Servono sanzioni efficaci, embargo sulle armi, riconoscimento giuridico dei crimini in corso. Chiamare genocidio ciò che coincide con i suoi elementi costitutivi non è un abuso del linguaggio: è un dovere. Il resto è fuffa criminale. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Accogliamo i bambini che feriamo. L’Italia apre corridoi umanitari, annuncia l’arrivo di altri 31 piccoli pazienti da Gaza e rivendica di aver già curato più di 180 minori. Bello, giusto, necessario. Ma la foto è incompleta: mentre li abbracciamo sugli aeroporti, continuiamo a oliare i meccanismi che li hanno resi pazienti. Il 31 luglio Cdp Venture Capital, braccio pubblico dell’innovazione, entra nel round di finanziamento della israeliana Classiq (quantum computing). Denaro pubblico italiano che sostiene l’ecosistema tecnologico di Tel Aviv in piena guerra. «Strategico», dicono le note ufficiali. Strategico per chi? Sul versante militare, i flussi non si fermano. Nel 2024 l’Italia ha rilasciato 42 nuove autorizzazioni d’importazione di armamenti da Israele per quasi 155 milioni di euro e ne ha importati fisicamente per oltre 37 milioni. E verso Israele, sempre nel 2024, abbiamo esportato “armi e munizioni” per 5,2 milioni secondo Istat; tra dicembre 2023 e gennaio 2024 sono partite forniture da guerra per oltre 2 milioni, dopo gli 817 mila euro di ottobre-novembre 2023. Tutto mentre il ministro Tajani ripeteva che «dal 7 ottobre abbiamo bloccato i contratti». C’è una parola per questa scena di comodo: «childwashing». Accogliere alcune delle stesse vittime per coprire con sentimento ciò che si continua a finanziare con atti e bonifici. L’Italia che porta i bambini in ospedale è la stessa che investe nell’hi-tech israeliano e mantiene aperti canali d’affari militari. Finché non si tagliano quei flussi, l’abbraccio resta una posa: la carità a valle che serve a rendere accettabile la complicità a monte nella catena del genocidio. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Doppia contabilità italiana: in pubblico «linea critica» su Gaza, in riservato il braccio finanziario del governo compra startup israeliane. Cassa Depositi e Prestiti, fondo sotto il MEF da 4,7 miliardi, ha iniziato a investire in società israeliane, con focus su intelligenza artificiale e quantistica e l’obiettivo di portarne attività in Italia. La notizia è stata rivelata dal quotidiano economico israeliano «Globes». Nel pezzo si ricostruisce l’ingresso di CDP nel round di Classiq insieme a SoftBank (operazione valutata 20–30 milioni di dollari) e la strategia di «decine di milioni» su altre realtà, con la motivazione della «sovranità digitale» e della competitività del Paese. Le parole chiave arrivano dal responsabile degli investimenti diretti di CDP Venture Capital, Alessandro Scortecci, che rivendica il contributo alla competitività italiana «sul palcoscenico globale». Il passaggio politicamente più sensibile è attribuito a «una fonte israeliana di alto livello a conoscenza dell’attività del fondo»: Giorgia Meloni sarebbe «pienamente informata» del dossier e CDP viene considerata «uno strumento importante di politica pubblica», in coerenza con il programma da un miliardo per l’IA. Nel frattempo, il fondo sovrano norvegese avvia dismissioni da società israeliane: due traiettorie opposte nello stesso contesto di guerra e accuse di crimini internazionali. In Italia, su questo, nessuna prima pagina: eppure si tratta di denaro pubblico e politica estera. Palazzo Chigi e MEF riferiscano in Parlamento, rendano pubblici i documenti, aprano il dossier: l’ambizione tecnologica vive solo dentro un perimetro democratico verificabile. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
C’è un punto dirimente per dividere i collaborazionisti dagli analisti: il piano di Netanyahu non ha nulla a che vedere con la sicurezza o con la fine della guerra. È il compimento di una logica dichiarata: terra al posto delle vite. “Land, Not Life” non è un titolo a effetto, è la formula di governo. Prendere Gaza, non salvarla. Contro ogni evidenza strategica, l’esecutivo israeliano punta alla spoliazione civile e alla cancellazione fisica di chi la abita: un milione di persone spinte verso lo sfollamento forzato, in una campagna militare che non distingue più tra obiettivo militare e resistenza all’annientamento. Lo stesso establishment israeliano avverte il rischio di una trappola militare e morale, ma la coalizione al potere è salda: la visione messianica di “Greater Israel” giustifica ogni passo, ogni vittima, ogni rovina. Le vittime palestinesi quindi non sono un “effetto collaterale”. Basta ipocrisia: sono la condizione necessaria del progetto. È questo che rende Gaza il laboratorio di un genocidio visibile, annunciato, documentato giorno per giorno. Eppure, come da mesi, le cancellerie occidentali si rifugiano nelle formule di rito, rimandano, promettono verifiche, si limitano a “monitorare la situazione” mentre il terreno si riempie di fosse comuni e le mappe militari sostituiscono le strade delle città. Quello che a Gaza si consuma oggi non è l’ennesima pagina nera della storia: è un crimine in diretta, permesso dall’immobilismo di chi dovrebbe fermarlo e scelto da chi lo esegue come dottrina di governo. Mentre quelli si lambiccano sui termini stanno sprofondando le persone. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
L’ultimo atto della notte di San Lorenzo, a Gaza, non è stato uno spettacolo di stelle cadenti. È stata la luce livida di un’esplosione a illuminare la tenda di Al Jazeera accanto all’ospedale di al-Shifa, dove Anas al-Sharif e altri cinque membri della redazione sono stati uccisi. Un giornalista che aveva trasformato il suo obiettivo in testimonianza quotidiana del genocidio, e che per questo era stato indicato come “bersaglio” da una campagna diffamatoria dell’esercito israeliano. La sua unica arma era la verità, e l’ha pagata con la vita. Israele sostiene che “si spacciasse per giornalista” e che fosse con Hamas. È la stessa strategia che, da Shireen Abu Akleh in poi, cerca di neutralizzare le voci scomode prima di eliminarle fisicamente. La sequenza è sempre più chiara: prima la delegittimazione, poi il fuoco. La guerra di Benjamin Netanyahu non si limita a radere al suolo Gaza; punta a cancellarne anche la memoria, eliminando chi potrebbe trasmetterla al mondo. Mentre la fame uccide già cento bambini, mentre gli aiuti vengono colpiti e le “zone sicure” bombardate, il premier israeliano annuncia un’operazione ancora più vasta, ringrazia Donald Trump per il sostegno e respinge come “menzogne globali” le accuse di genocidio. In parallelo, dal 31 agosto, la Global Sumud Flotilla salperà con decine di imbarcazioni per rompere il blocco e consegnare aiuti, sostenuta da attivisti di oltre 44 Paesi. In fondo, la morte di Anas e dei suoi colleghi dice già tutto: non è un “effetto collaterale” ma il cuore stesso di una strategia che teme i testimoni più delle armi. Ma noi abbiamo visto già tutto. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
La guerra a Gaza ha consumato ogni brandello di umanità. Le cronache di questi giorni raccontano un orrore ciclico, una devastazione silenziosa che piega corpi e speranze. Il piano di Netanyahu — una conquista totale di Gaza — resta lontano dall’essere realizzato, frenato persino dall’opposizione interna e dalla “cabina di guerra” israeliana che ammonisce sui costi insostenibili, umani e strategici. La pressione internazionale aumenta: sedute d’emergenza all’ONU, parlamenti che si mobilitano. Ma più che a fermare il massacro, sembra si reagisca per salvare l’immagine che ancora si può salvare. E intanto a Gaza, mentre i grandi della politica si confrontano freddi, il dolore si legge negli occhi di chi ha perso tutto. I racconti dal territorio descrivono le infezioni, le ustioni, la cecità imposta dalle bombe e dal silenzio. Lì, ogni cura è un miraggio, ogni farmaco un’utopia. Ogni volto è un grido che il mondo rifiuta di ascoltare. B’Tselem, Amnesty e numerosi studiosi di diritto internazionale parlano ormai chiaramente di un disegno che travalica ogni logica militare per diventare pulizia etnica — o peggio. Ogni giorno 93 persone — tra cui donne e bambini — cadono vittime di un conflitto il cui vero obiettivo sembra essersi sdoppiato: da un lato la resa di Hamas, dall’altro l’annientamento di un’intera popolazione. Eppure, in questo squallido teatro umano, ogni passaggio verso la piena occupazione di Gaza rischia di essere l’anticamera di una guerra eterna. Gaza non è uno spazio neutro da conquistare, ma un popolo da cui partire. Anche ieri Gaza ha urlato, anche ieri il mondo ha taciuto. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Benjamin Netanyahu ha smesso di fingere. Ora è ufficiale: Israele si prepara a un’occupazione permanente della Striscia di Gaza. Non è più guerra, non è più rappresaglia. È colonizzazione. E a questo punto la domanda è tanto semplice quanto cruciale: la comunità internazionale intende applicare le stesse sanzioni che ha imposto agli altri invasori del nostro tempo? L’Iraq che occupa il Kuwait? Embargo totale, risoluzioni ONU, operazioni militari autorizzate. La Russia che invade l’Ucraina? Congelamento di riserve valutarie, esclusione dal sistema SWIFT, price cap sul petrolio, sanzioni mirate su migliaia di individui. Israele che occupa Gaza dopo averla devastata, assediata e spopolata? Nulla. Nessuna sanzione. Nessun embargo. Anzi: accordi commerciali privilegiati, rifornimenti militari e scudi politici a ripetizione. Il doppio standard non è più un sospetto. È un dato giuridico. Il diritto internazionale è chiarissimo: un’occupazione non può prevedere trasferimenti forzati, punizioni collettive, distruzioni sistematiche o blocchi umanitari. Eppure tutto questo è già realtà. E il Consiglio di Sicurezza resta paralizzato dai veti statunitensi. Ora che Israele non si nasconde più, neppure l’Occidente potrà farlo. I governi europei e i partiti italiani che hanno invocato le “regole” contro Mosca devono decidere se il diritto vale anche a Gaza. Se non lo faranno, l’eccezionalismo israeliano non sarà più solo tollerato: sarà legittimato. E con esso, il tramonto dell’ordine giuridico internazionale. Del resto ogni genocidio che si rispetti ha bisogno di una moltitudine di canaglie collaborazioniste, indifferenti e servi sciocchi. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
C’è fame, sì. Ma non per carestia. Fame indotta, calcolata, prodotta con metodo. Secondo i nuovi dati della FAO, oggi a Gaza resta accessibile e coltivabile appena l’1,5% delle terre agricole. In aprile era il 4%. Nel 2023, prima dell’assedio, Gaza era un cuore agricolo: 10% del PIL, mezzo milione di persone coinvolte, una varietà di colture locali che garantiva autosufficienza e dignità. Oggi è tutto cenere. Dal blocco totale imposto a marzo all’impossibilità di far entrare aiuti, fino al bombardamento sistematico di serre, orti, frutteti e pescherecci: l’agricoltura a Gaza è stata sterminata. E con essa i suoi abitanti. Più dell’86% dei terreni è stato danneggiato. A nord si arriva al 94%. In molti casi, come a Rafah, non si tratta solo di distruzione ma di occupazione: ciò che non è stato raso al suolo è stato reso inaccessibile. «Gaza è sull’orlo della carestia totale», avverte il direttore della FAO Qu Dongyu. Ma è già oltre l’orlo: centinaia di persone sono morte di fame, migliaia uccise mentre cercavano cibo. Michael Fakhri, relatore speciale ONU per il diritto al cibo, è chiarissimo: «Israele ha costruito la più efficiente macchina di fame che si possa immaginare». Si chiama ecocidio, quando la guerra devasta intenzionalmente l’ambiente. E in questo caso ha un solo scopo: rendere la vita impossibile. Distruggere ogni futuro. Affamare come strumento di dominio. Le caratteristiche tipiche del genocidio. Il diritto al cibo è diritto umano. A Gaza è diventato un bersaglio militare. Un altro indizio. Anzi, un’altra prova, l’ennesima, di ciò che accade a Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
Netanyahu parla di «conquista totale» di Gaza, ma la realtà lo smentisce ogni giorno. È il paradosso di una guerra che si racconta come già vinta mentre continua a fallire, sotto gli occhi stanchi dei comandi militari e la retorica furiosa di un premier che cerca consenso nel sangue. A nove mesi dall’inizio dell’operazione, Hamas non è stata distrutta, gli ostaggi non sono stati liberati, la Striscia non è sotto controllo. Secondo fonti dell’IDF, «Israele occupa solo una parte minima del territorio» e nei quartieri chiave «Hamas mantiene presenza e servizi civili». Ma Netanyahu insiste. Parla alla pancia della destra messianica, promette sicurezza e vittoria, mentre Rafah è stata divisa dal resto di Gaza con un nuovo corridoio militare – il terzo – e si affonda nel disastro umanitario. Il sistema crolla: ospedali chiusi, aiuti bloccati, blackout imposti come arma. Ma l’unico piano che il governo sembra avere è continuare la guerra. E pazienza se il costo si misura in bambini denutriti, famiglie in fuga e città rase al suolo. Anche la diplomazia è paralizzata, stritolata tra cinismo e propaganda. Intanto i generali si defilano. L’IDF chiede un’uscita strategica, ma il potere politico vuole la resa incondizionata. E mentre gli alleati tacciono, mentre gli ostaggi restano ostaggi, Netanyahu sale sui podi a dichiarare vittorie che non ci sono. Il risultato è una guerra che si perpetua per mantenere il potere e una menzogna che si autoalimenta: la conquista di Gaza come finzione necessaria, perché non c’è alcun progetto per il dopo. Né politico, né umano. Solo un vuoto. Armato. E feroce. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
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