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L’oblò

L’oblò
Author: OnePodcast
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© La Stampa 2025
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Il racconto della politica, i suoi tic, le sue contraddizioni, la propaganda e le polemiche. Quello che arriva da lontano, e quello che capita nel cortile di casa nostra. I grandi temi, ma anche le storie apparentemente minori, perché tutto intorno a noi è frutto di scelte politiche. Spiegate e commentate attraverso L’oblò di Francesca Schianchi. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì .
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Si apre una settimana campale in Francia: nel pomeriggio il primo ministro François Bayrou chiederà la fiducia all?Assemblea nazionale, la Camera dei deputati, sul suo piano di bilancio per il 2026. E con ogni probabilità non la otterrà, così cadrà il governo e il Paese precipiterà di nuovo in una crisi politica. Poi, dopodomani, un movimento neonato ma già molto rumoroso promette di bloccare dalla Normandia alla Costa Azzurra. Venerdì infine è atteso il giudizio dell?agenzia di rating Fitch, che potrebbe punire i traballanti conti pubblici transalpini.
Ho letto nel weekend un illuminante colloquio con un signore che frequentava queste comunità virtuali sessiste, e non si è mai pentito perché, cito dalle sue parole, «è una cosa da uomini. Come quando con gli amici fai i commenti su qualcuna. Ma nessuno parla sul serio, si cazzeggia». E? proprio lì che si annida la radice del problema: nella normalizzazione del gesto, nel tentativo di far passare qualcosa di violento per ?si è sempre fatto e sempre si farà?, sgravandosi la coscienza al grido di ?così fan tutti?.
E meno male che si doveva lavorare ai negoziati di pace fra Russia e Ucraina, a sentire Trump eravamo lì lì, mancava solo quel dettaglio di un incontro fra Putin e Zelensky. Ieri su Kiev sono piovuti 589 droni e 31 missili, un attacco violentissimo che ha provocato 21 vittime civili tra cui 4 bambini. Il presidente americano fa sapere che, cito, «non è contento». Finché si limiterà a condannare massacri come questi con le stesse parole con cui potrebbe rimproverare chi gli ha rovesciato il caffè sulla scrivania, temo che non faremo grandi passi avanti nella soluzione di questa guerra.
Giorgia Meloni si è presentata ieri al Meeting di comunione e liberazione di Rimini sapendo perfettamente quali tasti sfiorare per assicurarsi la benevolenza della platea, che già era ben disposta. D?altra parte, il tentativo della premier di sposare una politica pragmatica capace di metterla in sintonia anche con mondi moderati, allontanandola dall?immagine di leader di estrema destra che ha avuto per anni, lo abbiamo già colto da tempo.
La nave di una Ong è stata presa d’assalto da una motovedetta libica: la Procura di Siracusa ha aperto un’indagine per tentato omicidio, e la Commissione europea chiede chiarimenti alla Libia. Non una parola di condanna, invece, dal nostro governo.
Ieri un?altra strage a Gaza, l?ospedale di Khan Younis bombardato. Come se non bastasse la ferocia degli attacchi, la fame come strumento di guerra, il proposito di occupare la Striscia di Gaza imponendo a milioni di persone di andarsene, tocca pure sentire il tono finto contrito del premier Benjamin Netanyahu che parla di «rammarico per il tragico incidente avvenuto oggi. Israele apprezza il lavoro dei giornalisti, del personale medico e di tutti i civili». Peccato che di ?incidenti? come questo ne avvengano di continuo, che la popolazione civile venga fatta morire di fame e ai giornalisti internazionali sia impedito entrare a Gaza per vedere con i propri occhi la tragedia che si sta consumando.
E’ durata meno di tre mesi l’armonia con i vicini di Parigi. Il 3 giugno scorso un incontro a Roma tra la nostra premier Giorgia Meloni e il presidente transalpino Emmanuel Macron aveva siglato una pace, dopo qualche incidente diplomatico e una malcelata tensione tra i due. Ma ci si è messo il vicepremier Matteo Salvini a riaccendere lo scontro. La giustificazione che il capo leghista attacca Macron per interessi elettorali di partito, per occupare uno spazio a destra in competizione con Fratelli d’Italia, quello che insomma ci diciamo noi, di qua dalle Alpi, per spiegare il perché di certe intemperanze, beh di là dalle Alpi non risulta granché convincente. Visto dal loro osservatorio, è pur sempre un vicepremier, il numero due del governo, che manda con beffardo sarcasmo il capo di Stato del Paese vicino ad attaccarsi al tram. Forse non potendolo dire alla leader del suo governo.
E? passata solo una manciata di giorni dal vertice alla Casa Bianca fra Trump, Zelensky e i leader europei. E quel clima di ottimismo che aveva portato sembra ahimè già cambiare.
«Lo Stato palestinese viene cancellato dal tavolo non con slogan, ma con i fatti», ha dichiarato ieri con soddisfazione il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich. Il fatto in questione è il piano che prevede 3400 nuove abitazioni per i coloni in Cisgiordania, un modo per spezzare in due quel territorio e allontanare l?ipotesi due popoli due Stati che è sembrata a lungo l?unica possibilità di convivenza tra israeliani e palestinesi. Ma l?ultradestra al governo nello stato ebraico sta facendo di tutto per minare quella prospettiva: ognuna di quelle nuove abitazioni, ha detto con macabro compiacimento Smotrich, rappresenta «un chiodo sulla bara» dello stato palestinese.
Che Donald Trump sogni il Nobel per la pace si sa. Tanto è un desiderio noto che la sua acerrima nemica Hillary Clinton l?altro giorno lo ha punto nell?ego, dichiarando che, se riuscirà a mettere fine alla guerra in Ucraina senza concedere territori a Putin, sarà lei stessa a proporlo. Ieri però il presidente americano, parlando del conflitto e del tentativo di risolverlo, ha confessato di più, di ambire alla salvezza eterna: «Voglio provare ad andare in paradiso, se possibile», ha detto in una intervista. Una delle tante che concede di continuo, lui che con i giornalisti ha rapporti burrascosi ma frequenti. A differenza della nostra premier, e ora possiamo dirlo senza che qualche fan ci accusi di faziosità.
Se l?incontro di ieri alla Casa Bianca dovessimo valutarlo solo in base all?accoglienza calorosa riservata stavolta al presidente Zelensky, potremmo dire che è stato un successo. Anche i leader europei presenti hanno parlato di progressi mai fatti prima. Ma, al di là del fatto di riunire attorno allo stesso tavolo mezza Europa con Zelensky e Trump, la reale portata dell?inedito appuntamento nella soluzione del conflitto in Ucraina credo che potremo capirla solo quando ci sarà più chiara la sostanza delle decisioni.
Toccherà stringersi un po’ oggi nel salotto della Casa Bianca per fare spazio a tutti gli ospiti. Quasi sei mesi dopo quel 28 febbraio in cui Zelensky venne accolto nel modo più sgarbato possibile dal presidente americano Trump e dal suo vice Vance, oggi pomeriggio il presidente ucraino tornerà a sedersi in quelle stanze. Stavolta, però, con una robusta scorta: una sfilata di leader europei che lo accompagneranno. Un po’ per tentare di evitare che si ripeta un episodio simile, e molto anche perché il destino dell’Ucraina è legato a doppio filo a quello dell’Europa.
Ieri il cardinale Matteo Zuppi, il presidente della Cei, ha scandito uno dopo l’altro i nomi dei bambini israeliani e palestinesi morti dal 7 ottobre 2023 fino a oggi. “Ci chiedono di impegnarci tutti a trovare o perseguire con più intelligenza e passione la via della pace”, ha spiegato, mentre in Israele il ministro delle Finanze Smotrich avanzava un piano per “seppellire l’idea di uno stato palestinese”.
Sappiamo ancora poco dei sopravvissuti e delle vittime dell’ultimo naufragio al largo di Lampedusa. Sappiamo di una signora somala che ha perso la sua bambina di un anno e mezzo tra le onde, e sappiamo del ragazzo egiziano che ha visto annegare l’amico d’infanzia. Ce li raccontano cronisti bravissimi e appassionati come Eleonora Camilli, che oggi sulle pagine della Stampa ha raccolto le prime spaventose testimonianze. Ma sappiamo sempre troppo poco di loro, di queste persone costrette a giocare alla roulette russa col mare e con i trafficanti, delle loro storie, dei loro nomi, delle sofferenze che li hanno portati fin qui. Non riduciamoli a numeri: almeno questo glielo dobbiamo.
La portavoce della Casa Bianca ha derubricato l’attesissimo vertice di Ferragosto tra Putin e Trump a un, cito, “esercizio di ascolto” per il presidente americano. Insomma, ha dato l’idea di ridimensionare il faccia a faccia, fino a ieri ammantato da un’aura di evento storico, a un appuntamento interlocutorio, “il presidente – ha spiegato - ha sempre detto di volere la pace. Ma questo è un incontro bilaterale con una delle due parti in guerra. E servono tutte e due le parti per un’intesa”. Sono talmente d’accordo che mi chiedo perché non sia stato invitato anche il leader ucraino Zelensky.
L’appuntamento clou della settimana è previsto venerdì, il giorno di Ferragosto, il faccia a faccia di Donald Trump con il presidente russo Putin. Ma ieri, in una giornata frenetica di preparativi di quell’atteso incontro, mentre di qua dall’Atlantico l’Europa si angustia per essere esclusa dalla trattativa, il presidente ha trovato modo e tempo di annunciare trionfante anche un altro giorno della liberazione, dopo quel 2 aprile in cui proclamò entusiasta i dazi a mezzo mondo. Stavolta, si tratta nientemeno che della liberazione di Washington dal crimine.
I famosi centri per i migranti costruiti dal governo Meloni in Albania non sono solo disumani e inutili, ma pure costosissimi. Nel 2024, tra metà ottobre e fine dicembre, sono stati operativi per soli 5 giorni, per trattenere 20 persone. E sapete quanto ci sono costati? Uno sproposito: 114mila euro al giorno.
In un clima per niente solenne, in un’Aula distratta e rumorosa, ieri al Senato ha fatto un passo avanti decisivo la riforma della giustizia. Una giornata di grande festa per i berlusconiani, che hanno dedicato il risultato con slanci ispirati al fondatore di Forza Italia.
Sceglie una frase ad effetto, il sindaco di Milano Beppe Sala, in piedi davanti al consiglio comunale, tra applausi della sua maggioranza e contestazioni dell’opposizione: «Ho le mani pulite». E’ la sua risposta a chi sta accostando la vicenda dell’inchiesta milanese che lo coinvolge alle Mani pulite di 33 anni fa, l’inchiesta di Tangentopoli che partì dal capoluogo lombardo per terremotare tutto il quadro politico italiano.
Nel weekend appena trascorso si è ricordato l’anniversario della strage di via d’Amelio, quella dove nel 1992 venne ucciso il giudice Paolo Borsellino insieme a cinque agenti della scorta. Gli stessi che hanno avuto parole di affettuoso ricordo per il giudice antimafia, il giorno prima erano insorti con la consueta foga contro altri magistrati, quelli che hanno osato fare ricorso in Cassazione contro l’assoluzione del ministro Salvini per il caso Open Arms. Come fosse lesa maestà, e non stessero semplicemente facendo il loro lavoro.
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