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Author: BastaBugie

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Commento teologico-pratico al vangelo della domenica (e delle feste liturgiche più importanti dell'anno)
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TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8383OMELIA DELLA NOTTE E DEL GIORNO DI NATALE - ANNO A di Giacomo Biffi 1) MESSA DELLA NOTTE"In questa santissima notte" la nostra oscurità è stata illuminata "con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo". Il silenzio della campagna di Betlem si è animato di voci di angeli e di grida festose di uomini.DAL NATALE TUTTA LA NOSTRA ESISTENZA È DIVINIZZATADio non ama le luci false e il chiasso frenetico. Quando le luci false e artificiali delle nostre presunzioni, delle ideologie che cercano di far violenza all'autenticità delle cose, delle nostre pretese di imporre noi, dal di fuori, le norme e il senso del vivere; quando le luci false e artificiali si spengono, allora e solo allora Dio si rivela. Quando il chiasso del nostro compiacimento, del nostro orgoglio, del nostro disperato agitarci si acquieta, allora e solo allora si fa sentire la voce del cielo e ci giunge notizia del mondo invisibile e vero.Così è avvenuto in quella notte unica e decisiva, che noi siamo ancora qui a ricordare e a rivivere dopo duemila anni. Così è difficile che avvenga nella notte dell'uomo di oggi, pasciuto eppur spiritualmente denutrito, assetata di verità e abbeverato quotidianamente di vuote parole, avido di luce vera e accecato dai bagliori fatui del suo sconsolato sapere.È difficile, ma non impossibile. Dio tenta e ritenta sempre di farsi capire da noi. Dio tenta e ritenta sempre di trovare la strada del nostro cuore. Questo Natale 1986 è un altro tentativo dell'amore di Dio, che ancora una volta si vuol rivelare perché gli uomini ritrovino se stessi e il loro destino.IL NATALE CI RIVELA CHE DIO È PADRE"In questa santissima notte" Dio si è rivelato come Padre. Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio (Gal 4, 4), ha scritto San Paolo. Dunque Dio ha un Figlio: non è l'infinità gelida e inerte dell'essere senza confini, che avevano intravisto i filosofi, ma è paternità sostanziale, è fecondità, è donazione, è amore. Dio è Padre: non è solo l'artefice ingegnoso che ha costruito l'universo e poi se ne è andato per i fatti suoi, ma è un padre affettuoso che non può non pensare a noi, che ci insegue col suo desiderio di farci felici, che non si dà pace finché non ci vede ricondotti nel calore della sua casa.Il Natale è la smentita più recisa e più alta dell'idea – che qualche volta gli uomini insipientemente si fanno - di un Dio lontano e distratto, chiuso nel suo cielo e indifferente a ciò che avviene sulla terra.Dio - continua San Paolo - mandò suo Figlio, nato da donna (Gal 4,4). Il Figlio di Dio è nato da una donna: questo è il grande evento del Natale, che ha stupito e commosso così tanto gli uomini che essi in tutta la terra continuano a ritenere il giorno che lo commemora come il giorno più nobile e santo, anche se la maggior parte di loro non si ricorda più la ragione dello stupore e il motivo della commozione.Il Figlio di Dio è nato da donna come noi. Ha assunto tutta l'esistenza umana, con l'umiltà e la fragilità della nostra nascita, con la sofferenza che immancabilmente l'accompagna, con la morte che fatalmente la conclude. È diventato dei nostri. Si è fatto partecipe di tutta la nostra sorte, e così l'ha consacrata e divinizzata.IL VERBO DI DIO È DIVENUTO UNO DI NOI PERCHÉ NOI DIVENTASSIMO COME LUIIl Figlio di Dio è venuto alla luce nello squallore di una mangiatoia, dopo aver ricevuto l'avvilimento di un rifiuto: non c'era posto per loro nell'albergo (Lc 2, 7). Ma la sua venuta non è un puro abbassarsi; il Natale non è l'esaltazione della povertà e dell'umiliazione per la povertà e per l'umiliazione. L'Unigenito del Padre è diventato uno di noi perché noi diventassimo come lui, insigniti della stessa dignità di figli di Dio. Si è imprigionato nella nostra miseria perché noi ne uscissimo, e il peso insopportabile della nostra meschinità e del dolore umano si trasformasse nella ricchezza della vita divina.Perciò questa notte ci appare tutta pervasa di gioia. Hai moltiplicato la gioia. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia (Is 9,2), abbiamo ascoltato dal profeta. Vi annunzio una grande gioia (Lc 2, 10), ha detto l'angelo ai pastori e a noi.È importante non lasciarsi prendere soltanto da un sentimento generico di tenerezza umana o di poesia. La nostra gioia non si fonda sul fatto, preso per se stesso, che un bambino è nato per noi (Is 9, 5); ma sul fatto che il bambino, che è nato, è chiamato ed è Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace (Is 9,5). La nostra gioia deriva dal fatto che ci è nato un salvatore, e quindi è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini (Tt 2, 11). Vale a dire: la gioia natalizia può scaturire solo dal pieno accoglimento della visione di fede.In una fede chiara, semplice, ferma - che conosce e riconosce il Figlio unigenito di Dio che "per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo... e si è fatto uomo" - consiste la vera accoglienza del Natale e del suo messaggio.Il Signore ci conceda di accoglierlo come i pastori, non di rifiutarlo come hanno fatto gli abitanti di Betlem. E questo sia il più sostanzioso augurio natalizio: saper accogliere il Signore Gesù, nella sua parola, nel sacramento della sua presenza che ogni domenica ci convoca attorno all'altare, nella fedeltà alla sua Chiesa, nei fratelli che si trovano nel bisogno e si appellano a noi; essere e restare consapevoli che Gesù è venuto "per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga"; impegnarci a lavorare perché si conosca e si esalti la gloria di Dio e si affermi la pace in terra per gli uomini che Dio ama.2) MESSA DEL GIORNOIl Natale è indubbiamente un giorno unico nella serie dei nostri giorni. Oggi il mondo sembra diverso; perfino gli uomini - "durum genus", gente dura e spietata, come ha detto un grande e umanissimo poeta latino - oggi sembrano diversi e più buoni.Che cosa è avvenuto in questo giorno? Niente di straordinario, parrebbe: una donna ha dato alla luce un figlio, che è stato avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Dove sta la novità, dove sta la grandezza? Chi è questo bambino che, dopo duemila anni, riesce ancora a incantare il mondo, a placare per un po' rancori, odi, accanimenti, ad ammansire per qualche momento gli uomini, cioè le creature più feroci che respirano sulla terra?Di chi è questa nascita, così miserabile da sembrare quella di un figlio di vagabondi, e così decisiva che da essa si contano gli anni della storia? Quali sono le vere ragioni della nostra festa?Non cerchiamo la risposta nel sentimentalismo senza contenuti di verità, nel quale troppe volte va a stemperarsi e a estenuarsi la vigorosa autenticità del Natale. Non cerchiamo la risposta nella superficialità e nella leggerezza con la quale la più rivoluzionaria esaltazione della povertà e del silenzio è stata trasformata in occasione per ostentare la nostra abbondanza e per accrescere la nostra agitazione e il nostro chiasso.Cerchiamo piuttosto la risposta nella parola di Dio.IL NATALE È AFFERMAZIONE DELLA VITAOgni nascita è un trionfo della vita; ma questa lo è in modo unico e trascendente, perché il piccolo nato in una stalla, che noi adoriamo, è colui che possiede la pienezza della vita ed è il principio di ciò che esiste: Tutto è stato fatto per mezzo di lui... In lui era la vita (Gv 1, 3-4), abbiamo ascoltato.Se è affermazione della vita, il Natale è, nella sua sostanza, condanna di ogni pensiero, di ogni atto, di ogni pratica, di ogni legislazione, di ogni comportamento privato e pubblico che sia apportatore di morte.L'egoismo umano - spesso ammantandosi ipocritamente dei nomi più suggestivi - ha esteso sempre più ampiamente tra noi una cultura di morte: per questa cultura si arriva a soffocare la vita nascente e addirittura a ritenere una conquista sociale il diritto di uccidere gli esseri più innocenti, più indifesi quindi più sacri; per questa cultura di morte c'è gente che, mossa dall'avidità del guadagno, non esita a diffondere tra i giovani e perfino tra i ragazzi la disperazione della droga; per questa cultura di morte, si continua a potenziare il mercato dei mezzi di distruzione, spingendo così anche i popoli più sfortunati e poveri a dilaniarsi in lotte fratricide.Forse proprio perché intuiamo di essere immersi, oggi più che in altre epoche, in questa cultura di morte, tutti, credenti e non credenti, sentiamo il fascino della celebrazione natalizia e siamo portati a solennizzarla anche nelle maniere più incongrue, percependo in essa l'ultimo spazio concesso alla cultura di vita e alla speranza per la sopravvivenza dell'uomo.IL NATALE È AFFERMAZIONE DELLA LUCE, CIOÈ DELLA VERITÀLa luce splende nelle tenebre... Veniva al mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo (Gv 1, 5.9). Ma che cos'è la verità?Verità è conoscere le cose come stanno in faccia a Dio, non come si vorrebbe che fossero in ossequio ai nostri interessi e alle nostre prevaricazioni. Verità è dare le risposte giuste ai "perché" fondamentali dell'esistenza. Verità è cogliere l'intimo significato di ciò che è veramente importante: il significato del nostro venire al mondo e del nostro morire, il significato del lavoro, della fatica e della sofferenza, il significato di questa esistenza terrena, cui siamo così tenacemente attaccati e che è così rapida nello scorrere e nel dileguarsi. Verità è insomma sapere e capire ciò che né la mirabile e complicata scienza mondana né le molte parole riversate quotidianamente su di noi dai "signori" della comunicazione sociale ci aiutano affatto a comprendere.Siamo fatti per la luce, e tuttavia siamo tutti immersi nell'oscurità. E la notte dell'errore, del d
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8312OMELIA XXXIII DOMENICA T.O. - ANNO C (Lc 21, 5-19) di Giacomo Biffi Parole oscure e forti - che sono al tempo stesso profezie di sventure e inviti alla speranza - abbiamo ascoltato nell'odierna pagina di vangelo. Gesù le ha pronunciate poco tempo prima del suo arresto e della sua condanna a morte, quando già percepiva imminente la fine, e si faceva più urgente per lui il compito di preparare il suo "piccolo gregge" alle prove e alle sofferenze che avrebbe incontrato. I suoi ascoltatori sembrano ancora spensierati e sereni, tanto che indugiano ad ammirare la bellezza dell'architettura del tempio e la ricchezza dei suoi ornamenti. E proprio prendendo lo spunto da questo ingenuo compiacimento il Signore avvia le sue severe riflessioni. Gli argomenti del discorso di Cristo sono tre: il preannuncio della distruzione di Gerusalemme, preceduta da grandi dolori; la persecuzione cui saranno sottoposti i suoi discepoli; la garanzia della sua presenza di salvatore anche in mezzo alle più tragiche difficoltà. Sono tre temi che tra loro si intrecciano e si rifiniscono. L'INEVITABILE DESTINO DI SOFFERENZA PER IL MONDO E PER LA CHIESA COME CONDIZIONE PER GIUNGERE ALLA GLORIA Non resterà pietra su pietra (Lc 21,6): così sarà castigata la Città santa; così perirà l'edificio più sacro della gente ebraica. Come tutti sappiamo, la profezia di Gesù si è avverata circa quarant'anni dopo ad opera dell'esercito romano guidato da Tito, il figlio dell'imperatore Vespasiano. Sotto un certo profilo, perciò, potremmo dire che non ci riguarda più. Ma nel libro di Dio Gerusalemme, oltre che una città precisa che ha avuto una grande importanza nella storia, è anche il simbolo e la raffigurazione di tutta la terra abitata. Ciò che qui è detto di Gerusalemme, vale per il mondo: anche il mondo troverà una fine violenta, quando la vicenda umana si sarà conclusa e il Signore "di nuovo verrà nella gloria". Ciò che qui è detto delle sofferenze del popolo ebraico, vale anche per la Chiesa, alla quale è dunque riservata una storia di pena. Le parole del nostro Salvatore ci rivelano ciò che noi - noi uomini, ma anche e soprattutto noi cristiani - dobbiamo aspettarci: ci rivelano non ciò che sarebbe conforme ai desideri naturali del nostro cuore, ma ciò che corrisponde al disegno di Dio, il quale vuole che la sua Chiesa arrivi sì alla vittoria, alla gioia, alla gloria, ma passando per la strada della sconfitta e della croce. LA NOSTRA SICUREZZA NON SI FONDA SULLA POTENZA UMANA, MA SU QUELLA DI DIO In concreto, con questo brano evangelico che cosa ci dice Gesù, che possa servire anche alla vita ecclesiale dei nostri giorni? 1. Ci dice prima di tutto che non dobbiamo mai fondare la nostra sicurezza e la nostra fiducia su quanto di esteriore e di strutturale c'è nella Chiesa: non sul numero e sullo splendore degli edifici di culto, non sulla potenza delle opere cattoliche, non sull'efficienza della nostra organizzazione. Certo, tutto deve essere valorizzato al servizio del Regno di Dio. Le cose esteriori non vanno disprezzate o condannate come antievangeliche o ritenute inutili e senza pregio. In particolare, dobbiamo amare le nostre chiese, così come Gesù ha avuto caro il tempio e la Città Santa, al punto di piangere sulla prevista rovina. Però, in niente di tutto questo sta la nostra speranza, che è sorretta soltanto dall'energia dello Spirito Santo, mandato a noi dal Risorto a suscitare negli uomini la fede e a tener viva la carità. A chi gli additava la maestà dell'edificio sacro, caro a ogni ebreo, Gesù ruvidamente risponde: Non resterà pietra su pietra che non venga distrutta (Lc 21,6). LA STAGIONE DEI MARTIRI NON È FINITA 2. Il secondo ammonimento del Signore è ancora più duro e più difficile da accettare: non dobbiamo mai aspettarci un avvenire tutto di pace e un'esistenza garantita contro tutti i guai. Specialmente la Chiesa - e in essa tutti coloro che vogliono veramente e pienamente essere cristiani, cioè appartenenti a Cristo e obbedienti al suo Vangelo - non deve contare su un destino di tranquillità e di trionfi. La promessa che abbiamo ricevuto è molto diversa: Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno (Lc 21,12). In realtà, il gregge di Cristo in ogni secolo è stato fatto oggetto di soprusi, di intimidazioni, di violenze: la stagione dei martiri non è mai finita del tutto. Va precisato anzi che il nostro secolo ha conosciuto forse le oppressioni più grandi e più sanguinose, perpetrate di solito da gente che diceva di portare la libertà, la giustizia e perfino la fraternità. QUANTO PIÙ SIAMO FEDELI, TANTO PIÙ SIAMO ODIATI 3. Il terzo ammonimento è ancora più spiacevole, e non ci meraviglia che in questi ultimi tempi la cristianità si sforzi di dimenticarlo. Non illudetevi - dice il Signore - che gli altri vi abbiano in simpatia e capiscano le vostre buone intenzioni. All'opposto, sarete traditi... sarete odiati da tutti a causa del mio nome (Lc 21,16.17). E non è detto che l'ostilità nei nostri confronti derivi sempre dal fatto che noi cristiani e noi uomini di Chiesa non siamo purtroppo senza difetti e senza torti. Sarebbe troppo bello se ci odiassero solo per quello che ci meritiamo. La Chiesa invece è tanto più malvista, malgiudicata, colpita da accuse bugiarde, quanto più è fedele al suo Maestro e annuncia senza paure la verità. Anche nell'ultima cena Gesù è ritornato su questa idea quando ha detto: Un servo non è più grande del suo padrone: se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi (Gv 15,20). Quasi a dire: se io ho raccolto odio pur non avendo mai fatto niente di male e avendo sempre amato e predicato l'amore, anche voi, quanto più mi sarete fedeli e mi assomiglierete, tanto più vi odieranno.CRISTO È LA RAGIONE DELLA NOSTRA PERSEVERANZA Per fortuna nell'odierna pagina di Vangelo questi ammonimenti così ardui e incresciosi sono compensati dalla promessa più bella: Io vi darò lingua e sapienza (Lc 21,15); cioè, sarò sempre con voi e ispirerò le vostre parole. Io sarò la vostra forza, il vostro coraggio, la vostra pace. Io vi sarò vicino in tutte le lotte che dovrete affrontare. Io sarò la ragione della vostra perseveranza. E voi, se sarete sempre con me, con la vostra perseveranza salverete le vostre anime (Lc 21,19).
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8339OMELIA DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE - ANNO A - (GV 2,13-22) di Angelo Sceppacerca L'imperatore Costantino, convertitosi al cristianesimo, donò a papa Milziade il palazzo del Laterano. Verso il 320, vi aggiunse la chiesa del Laterano, la prima di tutte le chiese d'Occidente, consacrata da papa Silvestro il 9 novembre 324, col nome di basilica del Santissimo Salvatore. Nel XII secolo, per via del suo battistero, il più antico di Roma, fu dedicata a san Giovanni Battista; da cui il nome di basilica di San Giovanni in Laterano. Per più di dieci secoli, i papi ebbero la loro residenza nelle sue vicinanze e fra le sue mura si tennero duecentocinquanta concili, di cui cinque ecumenici. Semidistrutta dagli incendi e dalle guerre, venne ricostruita sotto Benedetto XIII e venne di nuovo consacrata nel 1726.GESÙ SCACCIA I VENDITORILa scena di Gesù che scaccia i venditori dal Tempio di Gerusalemme è così vivida e movimentata da attirare tutta quanta la nostra attenzione, col rischio di lasciare in ombra quello che più conta e che l'episodio stesso vuole indicare. I giudei, infatti, avevano chiesto a Gesù "un segno" che giustificasse la sua azione e il Signore, in risposta, lancia una misteriosa sfida: "Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere". Solo dopo la risurrezione gli apostoli capiranno che il tempio di cui parlava Gesù era il suo corpo.Si comprende bene, solo alla luce di Pasqua, il rapporto fra il tempio profanato dai mercanti e il corpo di Gesù straziato sulla croce e risorto glorioso. Se anche a noi colpisce l'azione di Gesù che rovescia i banchi dei mercanti, ai suoi interlocutori l'allusione alla risurrezione doveva risultare quasi blasfema. Infatti, se il tempio (in ogni cultura religiosa) rappresenta l'ombelico che congiunge terra e cielo, luogo del divino e sorgente dell'umano, centro dello spazio e del tempo, con la persona di Gesù questo "luogo" non sarà più localizzato a Gerusalemme, né in nessun altro posto, ma sarà lui stesso il vero tempio dove abita Dio; e di questo tempio che è il suo corpo, Gesù è il capo e i credenti ne sono le membra. Gesù è il nuovo santuario, "luogo" dove la comunione tra Dio e l'uomo è piena di vita; la Chiesa, corpo di Cristo, è la dimora di Dio che abita nel cuore dei credenti, anch'essi pietre vive dell'edificio spirituale.La religione degli uomini, nata dal basso, è superata. La vera religione è "dall'alto", nel senso della grazia: Dio stesso si fa presente e visibile (udibile) nella persona e nella parola del Figlio. Lui è la tenda di Dio in mezzo al suo popolo.IL TEMPIO DI GERUSALEMMETorniamo, però, alla scena raccontata nel Vangelo. Il tempio di Gerusalemme, luogo dell'incontro con Dio, si era trasformato in mercato per la compravendita di buoi, pecore e colombe e per il cambio delle monete "impure" in quelle "pure" coniate dal tempio stesso. Se dovessimo fare un parallelo col tempo di oggi, a cosa potremmo paragonare l'episodio? Francamente non tanto ai piccoli negozi di souvenir e di oggetti religiosi che affiancano i nostri santuari: troppa sproporzione con una pagina di Vangelo! Anche se una certa purificazione è sempre auspicabile... Però, non penso che Gesù alludesse alle bancarelle di oggetti di devozione. [...]La parola del Vangelo ci incoraggia ad arrivare in fondo al cammino, irto di tentazioni, carico di fatica e facile allo scoraggiamento. L'Agnello di Dio ci attende sul piccolo monte calvario, dove verserà tutto il suo sangue in espiazione, e nel giardino lì accanto, dove si mostrerà di nuovo in piedi, vivo e risorto. L'Agnello ha preso il posto di JHWH, perché il sacrificio di Dio stesso ha preso il posto di tutti i sacrifici dell'uomo a Dio e che si riducono troppo spesso a un mero mercanteggiare.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8310OMELIA XXX DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 18,9-14) di Giacomo Biffi CHI SI PROCLAMA GIUSTO CHIUDE IL PROPRIO CUORE ALLA GRAZIA DI DIO La pagina evangelica odierna ci offre una delle più celebri parabole del Signore. È anche una delle più lineari e, apparentemente, una delle più facili da capire. In realtà, essa presenta più di altre il rischio di una lettura superficiale e quindi non incidente nella vita del nostro spirito. Soprattutto c'è il pericolo di non sentirci noi personalmente presi di mira dall'insegnamento di Gesù: è forte la tentazione di identificarci allegramente col pubblicano, e quindi di ritenere che il rimprovero di Cristo valga solo per gli "altri". Che è proprio l'atteggiamento qui condannato dalla parola di Dio. Gesù fa il suo racconto per scuotere e ammonire quanti cadono in due peccati distinti ma tra loro connessi: Disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri. In particolare, il primo è un errore al quale tutti più o meno incliniamo. Ciascuno di noi è sempre convinto di essere a posto in coscienza e di non aver niente da cambiare nella sua esistenza; in una parola, di "essere giusto". E dunque sarà buona cosa che ognuno si ritenga direttamente chiamato in causa dall'odierna lezione evangelica, in modo da salvarsi nel giudizio di Dio.Perché davanti a Dio non ci sono "giusti". Ci sono solo dei "giustificati"; che sono quelli che, riconoscendosi peccatori, implorano e accolgono con umiltà il perdono che li rinnova. Due uomini salirono al tempio. Vengono qui delineati due tipi umani molto diversi. Tutti e due colti nell'ora della preghiera solitaria. È in fondo il momento della sincerità, in cui ognuno rivela quello che pensa di sé, senza nessuna preoccupazione del parere o della reazione degli altri. 1. La differenza tra i due uomini non sta nella loro condizione economica: non è che uno sia ricco e l'altro povero, come qualcuno è portato a immaginare sentendo spesso parlare del "povero pubblicano". Generalmente i farisei erano agiati, perché appartenevano alla classe dominante di Israele. Ma i pubblicani erano di solito ancor più benestanti, perché esercitavano la lucrosissima professione di esattori delle imposte, che consentiva loro molti guadagni, leciti e disonesti. 2. Avevano piuttosto una ben diversa posizione entro la società religiosa ebraica. I farisei erano gli intransigenti e stimati custodi della legge e delle tradizioni, l'espressione del rigorismo e della fedeltà alle costumanze caratteristiche della nazione. I pubblicani invece erano i collaboratori degli odiati stranieri, più tentati di altri di cedere alle usanze pagane, in fama di essere ladri e in genere di avere una condotta non irreprensibile. Esaminiamo singolarmente le parole di questi due attori della scena descrittaci da Gesù.LA PREGHIERA DI CHI SI SENTE A POSTO CON DIO I. Prima di tutto le parole del fariseo. a) Egli pregava tra sé. Questo è indubbiamente un punto a suo vantaggio: è uno che almeno si ricorda di Dio e sente il bisogno di parlare con lui. Sono molto peggiori di lui quegli uomini che organizzano lo loro vita come se Dio non ci fosse, senza fare il minimo spazio, nella propria giornata e nella propria settimana, al pensiero del loro Creatore; salvo poi protestare quando arriva il momento della sofferenza e della prova, e sdegnarsi perché quel Dio, di cui si sono sempre dimenticati, sembra non ricordarsi di loro e delle loro necessità. b) Pregava nel tempio, vale a dire nel luogo sacro del culto ufficiale ebraico. Egli non riteneva cioè di poter far senza dei mezzi che il Signore stesso si è scelto per dare forma anche esteriore alla nostra vita religiosa. Non diceva, come tanti fanno: "Con Dio mi intendo io a modo mio", perché riconosceva che con Dio bisogna trattare nei modi che lui ha stabilito, e non secondo i nostri gusti personali. c) O Dio, ti ringrazio. Nella sua orazione il fariseo esprime la necessità di adorare Dio e di esprimergli gratitudine, perché è lui il Signore di tutti e la fonte di ogni bene che arriva fino a noi. Fino a questo punto, come si vede, si comporta bene, e la sua preghiera è lodevole. Egli comincia invece a uscire di strada quando dice: Ti ringrazio perché non sono come tutti gli altri uomini. Separandosi dagli altri e proclamandosi l'unico giusto, egli si interdice la possibilità di ricevere la grazia del Signore, che è data appunto all'umanità peccatrice. E poi, chi l'ha autorizzato a giudicare gli altri e a valutare la loro coscienza? d) E neppure come questo pubblicano. Qui va di male in peggio, perché la sua critica non resta generica, ma diventa addirittura personale. Egli prende di mira colui che gli è vicino, cioè il suo "prossimo", secondo il linguaggio evangelico, e, invece di farne oggetto d'amore, lo condanna senza misericordia. Così, in questa durezza di cuore verso il fratello trova la ragione della sua propria condanna. LA PREGHIERA DI CHI SI SENTE VERAMENTE PECCATORE II. La preghiera del pubblicano è semplice e intensa. Con pochissime parole esprime tre elementi preziosi: a) il riconoscimento di Dio come colui che si deve adorare e davanti al quale bisogna percepire il proprio niente; b) la confessione della propria condizione di colpa; c) la domanda umile e appassionata della divina pietà: O Dio, abbi pietà di me peccatore. È così preso dal sentimento della grandezza di Dio e dalla consapevolezza della sua personale miseria, che non è neppure sfiorato dal pensiero di fare confronti col comportamento altrui. Non giudica gli altri; giudica, e impietosamente, solo se stesso. Chi prega così, si trova certamente sulla strada della salvezza, e, come ci dice Gesù, viene perdonato e addirittura esaltato. È da notare che il pubblicano è un peccatore che non si vanta delle sue colpe, ma se ne pente; non vuole imporre a Dio la sua condotta aberrante, ma chiede invece la grazia del perdono, impegnandosi implicitamente a non peccare più; non pretende un'approvazione delle sue prevaricazioni, ma sollecita umilmente la pietà del Signore.  Colui che più sarebbe lontano dall'insegnamento di Cristo, è l'uomo che fosse al tempo stesso peccatore come il pubblicano e presuntuoso, deciso a non cambiare, come il fariseo. Il Signore ci aiuti a uscire dalle nostre colpe e, in ogni caso, a saper rivolgere a Dio la preghiera di chi sa di aver sbagliato e confida soltanto nella grande bontà del Padre nostro del cielo, per poter ricominciare da capo con animo nuovo una vita senza macchia.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8309OMELIA XXIX DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 18,1-8) di Giacomo Biffi Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? (Lc 18,8). È l'interrogativo più inquietante di tutto il Vangelo; inquietante soprattutto perché il Signore l'ha lasciato senza risposta, quasi a dirci che la risposta - positiva o negativa che possa essere - dipende da noi e dalla serietà del nostro impegno. Certo noi sappiamo che la grande comunità di fede, che è la Chiesa, non verrà mai meno al suo compito di essere colonna e fondamento della verità (1 Tm 3,15). Noi abbiamo la garanzia che il gregge di Cristo, affidato a Pietro e agli apostoli (che vivono nei loro successori, cioè il papa e i vescovi), resterà fino alla fine del tempo, quando Gesù "di nuovo verrà nella gloria" e porrà i sigilli conclusivi a questa vicenda di dolore e di colpa che è la storia umana. Noi siamo certi che la barca di Pietro, sempre squassata, sempre in pericolo di essere sommersa dalle ondate delle forze che con accanimento le si oppongono, non affonderà mai perché c'è il Signore con lei. La Chiesa non può essere vinta né dall'odio dei molti che inspiegabilmente la combattono, forse perché non possono sopportare il suo messaggio di luce e di amore, né dalla menzogna di quanti continuamente avvolgono di falsità i suoi atti, le sue parole, le sue intenzioni, la sua storia. La Chiesa non perirà neppure per la debolezza e l'incoerenza di coloro che ne fanno parte, cioè di noi, che spesso per la nostra insipienza e la nostra grettezza d'animo veliamo di bruttezza il volto incantevole della Sposa di Cristo. Ma la domanda evangelica potrebbe essere precisata e limitata così: il Signore, quando verrà, troverà ancora la fede, la vita cristiana, la comunità ecclesiale qui, nella nostra regione, nella nostra città, nel nostro quartiere, in mezzo al nostro popolo? In questo caso di assicurazioni tranquillizzanti non ne abbiamo più: tutto dipende dalla nostra capacità di mantenere vitale la nostra concreta famiglia di credenti, con lo slancio missionario della nostra fede e l'incisività coraggiosa della nostra testimonianza, con l'intensità e l'autenticità delle nostre celebrazioni, con la determinazione di vivere veramente e fattivamente da fratelli anche al di fuori dei nostri raduni liturgici, in tutti i campi della vita associata.LA NECESSITÀ DI PREGARE SEMPRE Come elemento essenziale per la sopravvivenza dentro di noi e fuori di noi della fede e della vita battesimale, la pagina odierna di Luca ci presenta la preghiera, e così ci invita ad approfondire appunto questo tema nella nostra riflessione settimanale. Bisogna pregare sempre e non stancarsi mai, ci ha detto Gesù. E qui già ci sentiamo toccati sul vivo, noi che fatichiamo a dare a Dio l'attenzione di pochi minuti al giorno, al mattino e alla sera; noi che talvolta crediamo di fare un grande favore al Signore se partecipiamo alla messa domenicale; noi che non sappiamo sorreggere con la preghiera i momenti importanti o difficili dell'esistenza: le gioie, le pene, le ansietà, le stanchezze, le speranze, che accompagnano il nostro cammino sulla terra. Pregare sempre. Perché? Perché sempre dipendiamo da colui che ci ha creati; perché sempre dobbiamo guardare al Padre nostro del cielo che alla conclusione dei nostri giorni ci aspetta a casa, se vogliamo che il nostro pellegrinaggio terreno abbia un senso; perché l'uomo non è mai così grande e così davvero uomo, come quando entra in dialogo con colui che misteriosamente, per amore, l'ha chiamato alla vita: un dialogo semplice, schietto, confidente, affettuoso; un dialogo nel quale possiamo chiedere tutto, noi che abbiamo bisogno di tutto, lasciando ogni ultima decisione alla sapienza di Dio; un dialogo pieno di verità, che immancabilmente ci farà apparire senza consistenza e senza valore molte delle parole umane che quotidianamente siamo costretti ad ascoltare. Dobbiamo pregare sempre perché siamo sempre un po' colpevoli e abbiamo sempre bisogno di farci perdonare qualcosa. Perciò il Signore ci ha invitato a chiedere, con il pane, anche la nostra razione quotidiana di perdono. La nostra invocazione più adatta non può dunque essere quella della vedova della parabola: Fammi giustizia, ma quella del pubblicano, che la liturgia così spesso ci suggerisce: Abbi pietà di me.PREGARE IN GESÙ CRISTO Però dobbiamo pregare da cristiani. Che cosa significa "da cristiani"? Significa come discepoli del Signore Gesù, il quale spesso si ritirava in solitudine sulle cime dei monti per parlare col Padre: tutta la sua vita è stata una continua orazione, un atto ininterrotto di adorazione e di amore. Significa appoggiarsi a Cristo, il quale in cielo è sempre vivo per intercedere a nostro favore (cf. Eb 7,25). La prima lettura ci ha descritto la scena di Mosè che, sul monte, con le sue braccia alzate nella supplica diventava garanzia di vittoria per il suo popolo. Ma il vero Mosè è il Signore Gesù: proprio perché sappiamo che è alla destra del Padre sempre intento a implorare per noi, siamo certi che la vittoria vera, di là da ogni deludente apparenza, è sempre nostra. La vittoria della Chiesa trova la sua ragione, più che nella nostra attività, nelle braccia alzate in preghiera del suo Signore. Pregare da cristiani vuol dire riconoscere che, come Cristo ha toccato il vertice della sua orazione nel sacrificio offerto sulla croce, così anche per noi il momento culminante e irrinunciabile della preghiera è la partecipazione al sacrificio di Cristo che si ripresenta e si rinnova nella messa. «Il cristiano dunque sa che la sua preghiera è Gesù; ogni sua preghiera parte da Gesù; è lui che prega in noi, con noi, per noi. Tutti coloro che credono in Dio pregano; ma il cristiano prega in Gesù Cristo: Cristo è la nostra preghiera!» (Giovanni Paolo II).CHIEDERE CON INSISTENZA, SENZA PAURA Ma il Signore oggi ci ha anche raccontato una parabola per esortarci a non temere di insistere con le nostre domande rivolte al cielo. È una parabola pittoresca, nella quale noi siamo paragonati a una vedova molesta e seccatrice, ma Dio addirittura è raffigurato in un giudice disonesto. Gesù vuol dirci che Dio desidera essere disturbato da noi: non dobbiamo avere paura di importunarlo. Vuol dirci anche che Dio sempre ci ascolta, qualunque cosa gli chiediamo, anche se poi ci esaudisce non tanto secondo la letteralità delle nostre richieste, quanto secondo la conoscenza che egli ha del nostro vero bene.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8308OMELIA XXVIII DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 17,11-19) di Giacomo Biffi Nel suo viaggio verso Gerusalemme, dove avrebbe incontrato la morte e consumato il sacrificio che ci avrebbe salvato, Gesù attraversa un territorio che è posto al confine tra la Galilea e la Samaria: due regioni ostili tra loro, discordi su tutto, anche sul modo di pregare l'unico Dio.E si imbatte in un gruppo di uomini colpiti dalla lebbra, che per sostenersi vivevano insieme e insieme si aggiravano nella campagna alla ricerca di qualcosa e di qualcuno che li aiutasse a sopravvivere: una comunità umana terrificante, compaginata dalla sventura e dalla stessa segregazione emarginante che ad essi era imposta dalla legge. Nel gruppo vi sono samaritani e giudei, perché la sofferenza è un crogiuolo nel quale i rancori e le divergenze si fondono, nel quale le inimicizie si annullano, e diventano irrilevanti tutte le liti e le beghe che pure sembrano così importanti a chi non ha maggiori fastidi e non deve sopportare disgrazie più grandi.Fermatisi a distanza, ci ha detto il Vangelo. Questi infelici conoscono i regolamenti, che vietavano a loro il contatto coi sani, e non si avvicinano. Ma da lontano si fanno sentire, con la forza che viene dalla disperazione: Alzarono la voce dicendo: Gesù, maestro, abbi pietà di noi!È abbastanza curioso che lo chiamino "maestro", essi che hanno fame di guarigione e non di insegnamenti, essi che sanno che anche volendolo non potrebbero mettersi alla sua scuola. Sembra quasi che con questa parola vogliano insinuare che Gesù è soprattutto venuto a curare i mali dello spirito e a illuminare le tenebre dei cuori; sembra quasi che vogliano ricordarci che, di tutti i mali dell'uomo, la mancanza della verità, l'ignoranza del significato delle cose e del mondo, l'assenza di certezze esistenziali siano quelli più pericolosi e sconvolgenti.Gesù risponde, probabilmente meravigliandoli e forse anche deludendoli nella loro attesa e nel loro acutissimo desiderio. Egli dice: Andate a presentarvi ai sacerdoti.Era ciò che prescriveva la legge per i lebbrosi guariti:Nel giorno della sua purificazione, il lebbroso deve essere portato dal sacerdote (Lv 14,2), che perciò fungeva da autorità sanitaria di controllo. Inviandoli prima di guarirli, Gesù metteva alla prova la loro fede in lui e nelle sue capacità taumaturgiche.Ma qui prima ancora bisogna notare che Gesù rispetta la legge, rispetta l'autorità del sacerdote giudaico, rispetta le strutture della società in cui vive. Anzi, fa in modo che proprio attraverso l'obbedienza alla legge e l'ossequio all'autorità si operi la salvezza e si compia il miracolo: Mentre andavano, furono guariti.Come si vede, il Signore non predica affatto la disobbedienza civile o il rovesciamento delle istituzioni.Piuttosto egli comunica lo Spirito di Dio che trasforma il nostro mondo interiore, dando un senso nuovo e diverso a ogni legge e a ogni ordinamento, e proponendo alla nostra obbedienza una motivazione più alta e più vera.DIO SI COMPIACE DI CHI HA L'ATTITUDINE A RINGRAZIAREL'episodio evangelico ha una seconda parte sorprendente: dei dieci beneficati, uno soltanto sente il dovere di tornare a manifestare la sua gratitudine. Ed è un Samaritano!Nessuno dei compatrioti e correligionari di Cristo viene a esprimere un pensiero di riconoscenza: probabilmente credono che ad essi tutto è dovuto.O forse qualcuno, avendo ascoltato dal Maestro che l'autorità è un servizio, ritiene che Gesù sia in obbligo di venire incontro alle sue richieste.Ma Gesù di questo grazie mancato si lamenta esplicitamente, e così ci richiama quanto sia necessario per una autentica vita religiosa il non essere ingrati. L'abitudine a ringraziare, anche nella convivenza umana, è ciò che distingue un animo capace di aprirsi e perciò di comunicare: con chi non sa mai dire la parola "grazie", credo che anche il Signore faccia fatica a intendersi.Quando ero parroco, la cosa che mi sembrava più triste e spaventosa in certi cristiani critici e contestatori, era proprio l'assenza dello spirito di gratitudine dai loro scritti, dai loro discorsi, e perciò, si poteva presumere, anche dal loro cuore: impegnati come erano a rivendicare diritti e a esigere riconoscimenti, non si accorgevano più di quanto avevano ricevuto. Tutti intenti a criticare tutti e a lamentarsi di tutti (il papa, i vescovi, gli uomini del passato, coloro che pur li avevano istruiti nella fede), non gli veniva nemmeno in mente di dire grazie a nessuno.Noi cercheremo di non essere così, per non meritare anche noi il rimprovero del Signore. E anzi pregheremo perché la lezione che oggi ci è stata data dalla parola di Dio non venga mai da noi trascurata, e perché si formi davvero in noi un cuore cortese e riconoscente.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8301OMELIA XXVII DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 17,5-10)Se aveste fede!di Giacomo Biffi COSA DOBBIAMO VERAMENTE CHIEDERE A DIO NELLA PREGHIERA Che cosa dobbiamo chiedere nella preghiera? Possiamo chiedere tutto quello che vogliamo, perché Dio è un padre che ama ascoltare i balbettii dei suoi piccoli figli (e noi siamo tutti piccoli davanti a lui), anche se non sempre si concede alle loro pretese, perché troppo spesso essi non sanno qual è il loro vero bene. Possiamo chiedere tutto quello che vogliamo, purché ci manteniamo nell'atteggiamento interiore di chi accoglie docilmente la sua volontà. Possiamo chiedere anche i favori materiali che ci sembrano convenienti. Gesù stesso ci ha insegnato a pregare non solo perché venga il Regno di Dio, ma anche perché ci sia assicurato il pane quotidiano. Ma non dobbiamo chiedere solo i favori materiali. Gli apostoli, che tante volte nella narrazione evangelica ci appaiono ancora spiritualmente rozzi e curvi sui valori terreni, questa volta ci danno l'esempio di una richiesta bellissima: Aumenta la nostra fede! (Lc 17,5), dicono al loro Maestro. Un po' di fede l'abbiamo tutti; ma tutti avremmo bisogno di averne di più, perché senza fede è difficile anche vivere decentemente da uomini. Perciò anche noi vogliamo oggi dire: "Aumenta la nostra fede!". LA PREZIOSITÀ DELLA FEDE PER LA NOSTRA VITA Che cos'è la fede? La fede è un affidarsi a Dio, alla sua parola, al suo desiderio di salvarci, alla sua guida sulle strade oscure e faticose dell'esistenza. 1. La fede è sapere che c'è un Padre, che ci ha tratti dal nulla per amore. Non siamo venuti al mondo per sbaglio, senza che nessuno ci abbia né pensato né voluto; e perciò neanche adesso siamo in balìa di un caso irragionevole e gelido: siamo nelle mani di uno che ci vuol bene e non ci abbandona. 2. La fede è sapere che il Figlio di Dio è venuto a farsi uno di noi, perché in lui potessimo avere una vita più intensa e splendente di quella delle creature terrestri che non hanno né consapevolezza né speranza. Credere quindi significa vedere le cose con gli occhi di Cristo, giudicare le idee e gli accadimenti alla luce del suo magistero, diventare capaci di un nuovo modo d'amare gli altri, che è il modo limpido e disinteressato con cui li ama lui. 3. La fede è sapere che lo Spirito santo, mandatoci dal Signore risorto, agisce nei nostri cuori, ci aiuta a distinguere il bene dal male, ci sollecita a camminare sulla strada diritta, ci induce a diventare, in un mondo litigioso e duro, uomini di concordia e di pace. 4. La fede è sapere che c'è per noi una "vita eterna"; c'è una via precisa per arrivarci, attraverso gli atti che ci santificano nei vari momenti del nostro pellegrinaggio di quaggiù; c'è per noi la gioia di appartenere alla Chiesa, che è la famiglia dei figli di Dio e il luogo dell'incontro anticipato col Padre. Non c'è nulla di più bello e di più importante della fede. È l'eredità più preziosa che abbiamo ricevuto dai nostri padri, è quanto di più necessario a vivere sensatamente e senza disperazione possiamo lasciare alle generazioni che verranno. Il mio giusto vive di fede (Ab 2,4), ci ha detto la parola di Dio. Perciò anche noi, che vogliamo essere giusti, come gli apostoli dobbiamo implorare: "Aumenta la nostra fede!". LA FORZA PRODIGIOSA DI UNA FEDE AUTENTICA Ma Gesù ci ha insegnato un'altra cosa che non dobbiamo dimenticare, ed è la grande energia che è contenuta nell'atto del credere: Se aveste fede quanto un granellino di senape, potreste dire a questo gelso: "Sii sradicato e trapiantato in mare", ed esso vi ascolterebbe (Lc 17,6). Nelle pagine di Marco e di Matteo si dice addirittura che un granello di fede rende capaci di trasportare le montagne (cf. Mc 11,23; Mt 17,20). Sono frasi paradossali, ma esprimono una grande verità; ed è che non c'è al mondo una forza paragonabile alla fede. Ce lo insegna anche la storia: tutte le grandi potenze e le grandi prepotenze, che sembrano sempre sul punto di trionfare e di imporsi, o presto o tardi traballano e vanno in rovina, mentre il debole popolo dei credenti c'è sempre a cantare le sue lodi al Dio vivo e vero e a mantenersi nell'attesa fiduciosa del Regno di Dio. DIO NON HA BISOGNO DI NOI, MA NOI ABBIAMO BISOGNO DI LUI C'è infine un terzo punto, nella pagina evangelica che è stata letta, che merita di essere rilevato. Noi siamo i servitori di Dio, non i suoi padroni. Quando abbiamo fatto la sua volontà e gli abbiamo dato l'omaggio del nostro culto, abbiamo fatto solo quanto dovevamo fare (Lc 17,10). Invece ci sono di quelli che, se vengono a messa alla domenica qualche volta, credono di aver fatto un gran piacere al Signore. Hanno fatto solo un piccolo piacere a loro stessi, perché si è meno uomini se ci si dimentica del proprio Dio. La fede è dunque anche la capacità di stare al nostro posto di fronte all'infinità del Padre che è nei cieli, e di saper dire con tutta verità: "Siamo soltanto dei servi di cui tu, o Dio, non hai nessun bisogno, mentre noi abbiamo un tremendo bisogno di te". Allora il Signore ci glorificherà e ci dischiuderà la sua dimora di luce e di gioia, perché sta scritto che, soprattutto davanti al Padrone dell'universo, chi si umilia sarà esaltato (Lc 14,11).
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8253OMELIA XXVI DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 16,19-31) di Giacomo Biffi La Provvidenza ci offre oggi, per la nostra meditazione settimanale, una delle più celebri parabole raccontate dal Signore Gesù: la parabola del ricco e di Lazzaro. È, per così dire, una tragedia in due atti. Il primo atto è collocato in questo mondo e ci presenta due figure fortemente contrapposte; il ricco che vive nell'agiatezza e nel godimento, e il povero, affamato, piagato, trascurato da tutti tranne che dai cani; il secondo atto è ultraterreno, e ci dice che la storia dell'uomo non finisce quaggiù, ma ha un esito nel mondo invisibile, il mondo definitivo e più vero.Ci sono dunque in questo racconto come due versanti: il versante della vita che si conclude con la morte, e il versante della vita che comincia dopo la morte. E ci sono offerti due tipi di insegnamento: in primo luogo ciò che dobbiamo fare per impiegare bene questigiorni fuggevoli che ci sono dati, e poi ciò che dobbiamo attenderci oltre la soglia misteriosa, per la giornata che non conoscerà tramonto.Per quel che si riferisce alla vita presente, la parabola ci insegna soprattutto tre cose.LA TRISTEZZA DI UNA VITA SENZA DIO La prima è che non dobbiamo comportarci come quel ricco gaudente. Ma in che cosa egli è condannabile? Non tanto perché si godeva la vita, quanto perché nei godimenti terreni aveva identificato tutte le sue aspirazioni e tutte le sue speranze. È un uomo senza ideali, senza tensione che non sia la ricerca dei suoi agi e dei suoi piaceri. È un uomo che si appaga di ciò cheriesce ad assaporare giorno per giorno, che confida solo nella potenza delle sue ricchezze, che non si dà nessun pensiero né del suo destino, né della moralità del suo comportamento, né del rapporto personale con la realtà eterna di Dio.Un uomo così - che per molti aspetti può essere considerato la raffigurazione dell'umanità de nostri tempi - è avviato, secondo Gesù, a una tragica sorte. Come ci ha detto il profeta nella prima lettura, guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulle montagne di Samaria!Insomma, il primo avvertimento che ci dà la parabola sta nell'invito a recuperare la dimensione religiosa dell'esistenza, cioè a dare a Dio - e non ai nostri programmi di benessere - l'attenzione primaria del nostro cuore; a considerare Dio - e non i mezzi offertici dalle nostre bravure e dalle fortune umane - il fondamento della nostra fiducia e della nostra serenità; a fare di Dio - e non dei successi mondani - il vero traguardo al quale tendere con tutte le nostre forze.NON BASTA EVITARE IL MALE, OCCORRE ANCHE FARE IL BENEC'è un altro insegnamento prezioso. Il ricco è condannato non tanto per i suoi vestiti e i suoi banchetti, quanto perché il suo lusso e la sua avidità di godere hanno così rattrappito la sua anima e inaridito il suo cuore che neppure si accorge di avere alla sua porta un essere umano - e quindi un suo fratello - nella miseria e nella sofferenza. È dunque condannato non tanto per quello che fa, ma per quello che non gli viene neanche in mente di fare.Così ci viene detto che non basta evitare il male e non recare danno a nessuno; bisogna anche fare il bene e aiutare positivamente coloro che sono nella necessità.Al momento del giudizio saremo esaminati anche sull'attenzione che avremo saputo dare agli altri, a coloro che, vicino a noi, sono l'immagine del Signore Gesù.LA VITA CRISTIANA NON SI REGGE SUI FATTI STRAORDINARIL'ultima avvertenza della parabola per la vita di quaggiù riguarda il fondamento della fede e della vita cristiana, che non deve essere ricercato nei fenomeni insoliti e prodigiosi - come le apparizioni, le rivelazioni private, i miracoli - ma nella verità divina che ci è presentata dalla Chiesa. A capire le cose che contano e a vivere bene non servono tanto i fatti straordinari; basta - se il cuore è ben disposto - la forza della parola di Dio: Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro.Noi, che abbiamo la fortuna di venire ogni domenica alla scuola del Figlio di Dio, l'unico vero Maestro, dobbiamo radicarci bene nella persuasione che proprio qui possiamo trovare il nutrimento che ci dà l'energia necessaria a mantenerci sulla giusta strada.Chi si apre a questa luce, può vincere ogni debolezza, può superare ogni eventuale sbandamento, può procedere decisamente incontro al Signore.SENZA LA FEDE NELL'ALDILÀ MANCA LO STIMOLO PER FARE IL BENE Ma questa parabola è ancora più importante per le prospettive richiamate sul mondo che sta oltre la morte. Qui è preso di mira direttamente quello scetticismo diffuso che il mondo senza fede in cui viviamo riesce a insinuare anche in coloro che pur si dicono credenti. Oggi non si parla più molto né del Paradiso né dell'Inferno; sembra quasi che li si considerino i residui di una visione fiabesca ormai improponibile.È una insipienza che ci potrebbe procurare dei grossi guai. Gesù oggi ci ricorda vigorosamente che la nostra esistenza si concluderà o con un premio o con una condanna; e proprio perché esiste questo duplice destino ha un significato essere onesti, ha un significato essere generosi, ha un significato vivere.L'uomo, che crede di essere diventato adulto perché si è liberato della convinzione che sta scegliendo tra una salvezza senza insidie e una perdizione senza rimedio, alla fine si trova privo di motivazioni: non ha una motivazione adeguata né per praticare le giustizia né peroperare con bontà né per durare a vivere con fatica.La controprova di questa verità evangelica è sotto i nostri occhi. Le dottrine sociali e politiche, le proposte di comportamento, le abitudini di vita che non riconoscono un al di là - quali che siano le loro etichette e le loro ispirazioni - approdano tutte a costruire un mondo più violento, più disumano, più disperato, dove non ci si difende più dai prevaricatori, dove le leggi e i castighi non bastano più a fronteggiare la malvagità e il disordine.Come si vede, la parola di Gesù è dura, aspra, forse sgradita al nostro palato troppo delicato, ma è salutare e feconda. La verità di Dio non è mai compiacente: contesta sempre i miti carezzevoli, i pensieri troppo dolci e leggeri, le sciocche spensieratezze, chetroppo spesso trovano accoglienza nel nostro cuore.Noi abbiamo bisogno di essa. Abbiamo bisogno che ci venga proposta con coraggio, senza arbitrarie riduzioni, senza travisamenti. Alla fine è solo la verità di Dio che resta, e solo affidandoci alla verità di Dio noi ci possiamo salvare.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8252OMELIA XXV DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 16,1-13)Non potete servire Dio e la ricchezzadi Giacomo Biffi Questa che abbiamo ascoltato è senza dubbio la più sconcertante parabola del Signore. In essa Gesù prende a paragone un fatto che doveva essere molto frequente nel mondo antico, ma che, a giudicare da quel che spesso si legge sui giornali, non deve essere del tutto raro neppure nel mondo di oggi, che pure ha condizioni sociali ed economiche molto diverse.È il caso di un amministratore disonesto che si trova di fronte a un'improvvisa verifica del suo operato e quindi deve di punto in bianco fronteggiare la prospettiva della propria imminente rovina.La stranezza del racconto sta in questo, che il furfante (che se la cava imbrogliando una volta di più) viene lodato dal padrone e parrebbe addirittura proposto ai discepoli di Cristo come modello. Ma non dobbiamo dimenticare che qui si tratta di una parabola; e non tutti gli elementi di una parabola sono trasferibili nell'insegnamento, ma solo quelli che vengono intesi e indicati come tali. Nello stesso modo, ad esempio, quando Gesù, per descrivere la sua seconda venuta alla fine dei tempi, parla del ladro che viene a rubare di notte, vuole solo ricordare che il suo ritorno sarà una sorpresa, e non intende affatto, paragonando se stesso al ladro, esaltare il furto come un'azione lodevole.Qui è indubbio che il comportamento del protagonista della parabola è disapprovato, tanto è vero che viene chiamato esplicitamente "disonesto".Qual è allora l'aspetto del racconto che ci viene presentato come caricato di un insegnamento di vita? Mi pare che, senza forzature e senza acrobazie dialettiche, se ne possano trovare due. L'INVITO A FARE IL BENE CON LA STESSA "ASTUZIA" DI CHI FA IL MALE1. È in primo luogo l'abilità e la prontezza di riflessi con cui il furfante riesce a cavarsela dai suoi guai, tanto da strappare perfino l'ammirazione del derubato.Gesù fa un'osservazione che purtroppo ogni giorno è comprovata dall'esperienza: I figli di questo mondo... sono più scaltri dei figli della luce. È con questa frase implicitamente esprime anche il suo rammarico e il suo desiderio che i buoni diventino più svegli e più intraprendenti. Una delle disgrazie dell'umanità sta proprio qui: troppo spesso il male è fatto bene, con impegno, con intelligenza, con tenacia; e troppo spesso il bene è fatto male, senza passione, senza genialità, senza costanza, presentato in forme scolorite e prive di fascino.Con stupore e con meraviglia vediamo che i "figli della luce", cioè coloro che hanno gli occhi illuminati dalla fede e che, possedendo le verità che contano per l'esistenza, sanno dare il giusto valore alle cose e conoscono il senso e la fine della storia umana, sono più indecisi, fiacchi, incoerenti nell'agire. Mentre quelli che sciaguratamente si sono posti al servizio della menzogna e della ingiustizia sono di solito tanto abili e attivi.Non sta scritto da nessuna parte nel Vangelo che i buoni debbano essere sprovveduti, che i cristiani debbano essere degli incapaci, che i discepoli di Cristo debbano caritatevolmente aiutare gli avversari con la loro stupidità, facendosi incantare dai capziosi ragionamenti degli altri e mettendosi quasi al loro servizio per amore del dialogo, della comprensione,della mitezza o, più verosimilmente, del quieto vivere. Sta scritto precisamente il contrario, come appare dalla lettura di oggi. Confrontate col pensiero di Cristo, molte vicende della cristianità italiana di questi vent'anni trovano qui un giudizio severo.L'"ASTUZIA SPIRITUALE" DELLA GENEROSITÀ VERSO GLI ALTRI2. Il secondo insegnamento della parabola è di dirci che tutti noi siamo di fronte a Dio nella condizione dell'amministratore infedele. Anche noi abbiamo prevaricato; abbiamo abusato della fiducia del Creatore, che ci ha regalato la vita perché ne usassimo per la giustizia; siamo nei suoi confronti oberati da debiti spaventosi; il nostro stato è fallimentare.Ogni giorno che passa si avvicina il momento del rendiconto, quando tutte le nostre menzogne saranno scoperte e noi saremo nella situazione imbarazzante di non saper rispondere alle contestazioni precise e incontrovertibili del nostro Padrone.Ebbene, Gesù ci dice che c'è un modo per salvarci dalla prevedibile condanna e dalla catastrofe; ed è quello di essere generosi verso il prossimo del nostro perdono, del nostro tempo, del nostro interessamento, del nostro denaro. È, in fondo, ciò che suggeriscela preghiera del Padre nostro: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. È vero che elargendo agli altri le nostre cose noi non diamo propriamente del nostro, perché tutto è dono di Dio; ma Dio è contento così e attribuisce a noi il merito dei regali fatti con i beni suoi; anzi è disposto perfino a tramutare in lode il biasimo che ci sarebbe toccato: Il padrone lodò quell'amministratore; Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.Questa è la strada per la quale anche i ricchi possono sperare di trovare salvezza, come appare da ciò che san Paolo scriveva a Timoteo, e che può convenire in misura diversa a ciascuno di noi: Ai ricchi in questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi, di nonriporre la speranza sull'incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera (1 Tm 6,17-19). IL DOVERE DI NON SCENDERE A PATTI CON IL MALE3. E quasi a dissipare ogni equivoco e a ribadire che con questa parabola non vuole insegnarci nessun compromesso con la disonestà e nessun patteggiamento col male, Gesù enuncia il principio del giusto integralismo cristiano: Nessuno può servire a duepadroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona, cioè alla ricchezza, al desiderio di possesso, a tutto ciò che finisce col dominare il cuore dell'uomo.Il servo di cui si parla è lo schiavo del mondo antico, che aveva un servizio a tempo pieno, senza ferie e senza giornate di riposo. Così deve essere il nostro servizio di Dio: non deve avanzare spazio per nessun altro dominatore. Nessuna visione del mondo, nessuna ideologia, può contendere la nostra mente al Vangelo di Cristo; nessun impegno terreno può disputare il nostro cuore all'impegno per il Signore Gesù e per il suo Regno. Le cose del mondo - la mammona - devono servire a noi per l'affermazione della giustizia e della verità, non devono essere servite da noi, perché uno solo è il Signore, come ancora una volta abbiamo ripetuto all'inizio di questa messa: "Tu solo il Signore, Gesù Cristo".
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8263OMELIA PER LA FESTA DELLA ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE (Gv 3,13-17) di Raniero Cantalamessa Oggi la croce non è presentata ai fedeli nel suo aspetto di sofferenza, di dura necessità della vita, o anche di via per cui seguire Cristo, ma nel suo aspetto glorioso, come motivo di vanto, non di pianto. Diciamo anzitutto qualcosa sull'origine della festa. Essa ricorda due avvenimenti distanti tra loro nel tempo. Il primo è l'inaugurazione, da parte dell'imperatore Costantino, di due basiliche, una sul Golgota e una sul sepolcro di Cristo, nel 325. L'altro avvenimento, del secolo VII, è la vittoria cristiana sui persiani che portò al recupero delle reliquie della croce e al loro ritorno trionfale a Gerusalemme. Con il passar del tempo, la festa però ha acquistato un significato autonomo. E' diventata celebrazione gioiosa del mistero della croce che, da strumento di ignominia e di supplizio, Cristo ha trasformato in strumento di salvezza.Le letture riflettono questo taglio. La seconda lettura ripropone il celebre inno della Lettera ai Filippesi, dove la croce è vista come il motivo della grande "esaltazione" di Cristo: "Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre". Anche il Vangelo parla della croce come del momento in cui "il Figlio dell'uomo è stato innalzato perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna".Ci sono stati, nella storia, due modi fondamentali di rappresentare la croce e il crocifisso. Li chiamiamo, per comodità, il modo antico e il modo moderno. Il modo antico, che si può ammirare nei mosaici delle antiche basiliche e nei crocifissi dell'arte romanica, è un modo glorioso, festoso, pieno di maestà. La croce, spesso da sola, senza il crocifisso sopra, appare punteggiata di gemme, proiettata contro un cielo stellato, con sotto la scritta: "Salvezza del mondo, salus mundi", come in un celebre mosaico di Ravenna.Nei crocifissi lignei dell'arte romanica, questo stesso tipo di rappresentazione si esprime nel Cristo che troneggia in vestimenti regali e sacerdotali dalla croce, con gli occhi aperti, lo sguardo frontale, senza ombra di sofferenza, ma irraggiante maestà e vittoria, non più coronato di spine, ma di gemme. E' la traduzione in pittura del versetto del salmo "Dio ha regnato dal legno" (regnavit a ligno Deus). Gesù parlava della sua croce in questi stessi termini: come del momento della sua "esaltazione": "Io, quando sarò esaltato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12, 32).Il modo moderno comincia con l'arte gotica e si accentua sempre di più, fino a diventare il modo ordinario di rappresentare il crocifisso, in epoca moderna. Un esempio estremo è la crocifissione di Matthias Grünewald nell'Altare di Isenheim. Le mani e i piedi si contorcono come sterpi intorno ai chiodi, il capo agonizza sotto un fascio di spine, il corpo tutto piagato. Anche i crocifissi di Velasquez e di Salvador Dalì e di tanti altri appartengono a questo tipo.Tutti e due questi modi mettono in luce un aspetto vero del mistero. Il modo moderno - drammatico, realistico, straziante - rappresenta la croce vista, per così dire, "davanti", "in faccia", nella sua cruda realtà, nel momento in cui vi si muore sopra. La croce come simbolo del male, della sofferenza del mondo e della tremenda realtà della morte. La croce è rappresentata qui "nelle sue cause", cioè in quello che, di solito, la produce: l'odio, la cattiveria, l'ingiustizia, il peccato.Il modo antico metteva in luce, non le cause, ma gli effetti della croce; non quello che produce la croce, ma quello che è prodotto dalla croce: riconciliazione, pace, gloria, sicurezza, vita eterna. La croce che Paolo definisce "gloria" o "vanto" del credente. La festa del 14 Settembre si chiama "esaltazione" della croce, perché celebra proprio questo aspetto "esaltante", della croce.Bisogna unire, al modo moderno di considerare la croce, quello antico: riscoprire la croce gloriosa. Se al momento in cui la prova era in atto, poteva esserci utile pensare a Gesù sulla croce tra dolori e spasimi, perché questo ce lo faceva sentire vicino al nostro dolore, ora bisogna pensare alla croce in altro modo. Mi spiego con un esempio. Abbiamo di recente perso una persona cara, forse dopo mesi di grandi sofferenze. Ebbene, non continuare a pensare a lei come era sul suo letto; in quella circostanza, in quell'altra, come era ridotta alla fine, cosa faceva, cosa diceva, torturandosi magari il cuore e la mente, alimentando inutili sensi di colpa. Tutto questo è finito, non esiste più, è irrealtà; così facendo non facciamo che prolungare la sofferenza e conservarla artificialmente in vita.Vi sono mamme (non lo dico per giudicarle, ma per aiutarle) che dopo aver accompagnato per anni un figlio nel suo calvario, una volta che il Signore l'ha chiamato a sé, si rifiutano di vivere altrimenti. In casa tutto deve restare com'era al momento della morte del figlio; tutto deve parlare di lui; visite continue al cimitero. Se vi sono altri bambini in famiglia, devono adattarsi a vivere anch'essi in questo clima ovattato di morte, con grave danno psicologico. Ogni manifestazione di gioia in casa sembra loro una profanazione. Queste persone sono quelle che hanno più bisogno di scoprire il senso della festa di oggi: l'esaltazione della croce. Non più tu che porti la croce, ma la croce che ormai porta te; la croce che non ti schiaccia, ma ti innalza.Bisogna pensare la persona cara come è ora che "tutto è finito". Così facevano con Gesù quegli antichi artisti. Lo contemplavano come è ora: risorto, glorioso, felice, sereno, seduto sullo stesso trono di Dio, con il Padre che ha "asciugato ogni lacrima dai suoi occhi" e gli ha dato "ogni potere nei cieli e sulla terra". Non più tra gli spasimi dell'agonia e della morte. Non dico che si possa sempre comandare al proprio cuore e impedirgli sanguinare al ricordo di quello che è stato, ma bisogna cercare di far prevalere la considerazione di fede. Se no, a che serve la fede?
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8251OMELIA XXIII DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 14,25-33) di Giacomo Biffi Con questa pagina evangelica - che con qualche sua espressione può anche urtare la nostra sensibilità, e in ogni caso arriva a scuotere lo spirito dalla sua mediocrità - il Signore Gesù ci ricorda energicamente quali debbano essere le condizioni interiori di chi si pone al suo seguito e vuol diventare suo discepolo.Ci sono come due gradi nella sequela di Cristo: il primo è proprio di tutti i battezzati, di tutti i "cristiani", di tutti coloro insomma che vogliono fare del vangelo la norma e l'ispirazione di tutta l'esistenza; il secondo è proprio di coloro che si pongono volontariamente al servizio di una missione particolare che ricevono dal Signore, come è il caso degli apostoli. Ciascuno si deve collocare - sempre con generosità e coerenza - sulla strada che Dio ha voluto per lui. Ciascuno deve tendere alla perfezione e deve fiorire nella santità dove il Signore ha voluto piantarlo. Anche le condizioni della sequela di Cristo, sulle quali il Vangelo di oggi ci invita a riflettere, riguardano tutti noi, quale che sia il nostro stato di vita, pur se dobbiamo riconoscere che queste condizioni valgono più o meno intensamente e urgentemente a seconda dell'impegno che ciascuno liberamente si è preso.;IL DOVERE DI SUBORDINARE OGNI AFFETTO UMANO ALL'AMORE DI CRISTO1. La prima condizione della sequela di Cristo è quella dell'amore: un amore per Gesù che non tema confronti. Il testo dice addirittura: Chi non odia...; parola dura, ma che nel significato del linguaggio semitico vuol solo dire: "Chi preferisce..., chi pone davanti...".Certo, il Signore Gesù non è disumano e non ci proibisce d'amare; non ci proibisce di nutrire affetto per coloro che il sangue o l'amicizia o le circostanze della vita ci hanno collocato vicino; non ci proibisce di contrarre dei forti legami, che insieme sono fonte di grande dolcezza e di grande sofferenza, perché chi più ama più è chiamato a soffrire.Non ci proibisce d'amare, ma vuole che l'amore per lui sia al di sopra di tutto, sia il più grande, il più tenace, il più appassionato. Proprio per questa preminenza dell'amore di Cristo, il vero discepolo di Cristo conserva una grande libertà interiore che, senza essere freddezza o indifferenza o aridità di cuore, gli consente di affrontare i distacchi, le separazioni, perfino le morti delle persone care, con grande pena ma anche con grande serenità.LA NECESSITÀ DELLA CROCE PER ESSERE RINNOVATI2. La seconda condizione della sequela di Cristo è la croce: Chi non porta la sua croce... non può essere mio discepolo.La sofferenza di norma non va ricercata, perché noi siamo fatti per la gioia. Ma quando arriva - e arriva sempre o presto o tardi - va accolta senza ribellioni, perché noi siamo e vogliamo essere discepoli di uno che, pur non avendo il più piccolo torto, è stato crocifisso.Per volontà misteriosa e sapiente del Padre, Gesù non ha potuto rinnovarci senza crocifissione, e noi senza crocifissione non possiamo essere rinnovati.Nessun discepolo di Gesù si illuda che ci sia un'altra strada per cambiare il mondo e salvarlo, per cambiare se stesso e salvarsi.L'INVITO AD UN CRISTIANESIMO SERIO E RESPONSABILE3. La terza condizione è quella della prudenza, cioè della capacità di commisurare le nostre forze coi nostri impegni, e di valutare ogni decisione e ogni atto in tutte le sue conseguenze. E per farci capire la necessità della prudenza nella vita dello spirito, Gesù racconta due parabole prese dalla vita terrena: quella del costruttore, che se non sa far bene il preventivo finanziario rischia il fallimento della sua impresa; e quella del condottiero di eserciti, che se non calcola bene le sue forze e quelle del nemico rischia la sconfitta.Fuori dell'immagine, l'insegnamento è questo. Il Signore non vuole al suo servizio degli irresoluti, della gente incapace di decidere e di impegnare la vita (non una stagione o un anno, ma la vita intera); ma non vuole neppure degli sventati, degli imprudenti, della gente che con la scusa dell'ispirazione divina o del suo carisma o della sua luce interiore si ritiene dispensata dal riflettere su quello che fa e su quello che può fare, dall'esaminare bene gli effetti su di sé e sugli altri di quanto intraprende, dall'ascoltare il magistero della Chiesa o il parere di un confessore saggio e illuminato. E così finisce col commetteredelle pazzie, magari mettendole in conto allo Spirito santo, e col far del male, magari in buona fede, a sé e ai fratelli.Il Signore conceda un po' di buon senso a tutti, ma specialmente alle persone devote.LA NOSTRA PREGHIERAPossiamo ormai concludere la nostra rapida meditazione.Ci siamo messi tutti al servizio di un padrone esigente e buono; esigente perché vuol portarci in alto, buono perché ci prende come siamo e ci aiuta. Pretende molto da noi, ma è disposto a darci lui con la sua grazia quello che pretende. Purché ci affidiamo a lui e lo lasciamo fare. Purché gli chiediamo umilmente nella preghiera quello che per noi è così difficile avere: un amore per lui senza limiti, una vera capacità di portare la nostra croce, un po' di concreta saggezza.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8250OMELIA XXII DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 14,1.7-14) di Giacomo Biffi Nel contesto di un banchetto in casa di uno dei capi dei farisei, Gesù enuncia alcuni insegnamenti, che ci vengono offerti dall'odierna pagina evangelica. Per la nostra consueta meditazione, proporremo alcune riflessioni che si riferiscono alla cornice del quadro, cioè all'ambiente esterno in cui il Signore viene a trovarsi, e alcune riflessioni che si riferiscono alle parole pronunciate da Gesù.1. LA CHIESA DI CRISTO È DI TUTTIGesù ha accettato un invito a pranzo. Non è la sola volta: il Vangelo annota con molta frequenza questa partecipazione di Gesù ai banchetti. Alcune delle sue frasi più profonde, più decisive, più ricche di luce, sono state proferite appunto nell'atmosfera lieta e serena di una tavola imbandita. In genere noi lo troviamo alla mensa di uomini ricchi e potenti: i farisei, che erano i capi religiosi e politici del suo popolo; e i pubblicani, danarosi e gaudenti. Egli pensa a sfamare i poveri, moltiplicando i pani e i pesci, ma non disdegna di dare ai ricchi la sua compagnia e di riceverne in cambio il loro cibo. Egli dice chiaro che i preferiti di Dio sono i poveri, ma non esclude nessuno dalla sua attenzione e dal suo amore. Perfino ai farisei, che per mentalità, opinioni religiose, classe sociale, erano i più lontani da lui, egli non si rifiuta: la salvezza è offerta a tutti.Perciò la sua Chiesa è e deve restare la Chiesa di tutti, si capisce di tutti coloro che con sincerità accettano le sue norme di vita e tentano onestamente (senza mai riuscirci del tutto) di essere i suoi discepoli. Perciò al suo banchetto - cioè il banchetto eucaristico - non ci sono posti riservati; ed è così che la messa diventa davvero l'immagine del Regno dei cieli.2. GESÙ NON OSTENTA LE SUE VIRTÙCredo si possa fare qualche considerazione anche sul fatto che appare qui uno stile caratteristico di Cristo, quello della discrezione, quello di non ostentare la sua virtù, quello di non infastidire il prossimo con lo sbandieramento dei suoi proclami di austerità. Egli sa digiunare: ma quando digiuna, si nasconde nel deserto, non lo fa sulla piazza. In pubblico si fa vedere come uno che mangia e beve come gli altri.Egli vive da povero, ma la pratica della povertà non lo induce a vestirsi male: il Vangelo parla del suo mantello ornato di frange e della sua tunica preziosa, intessuta in un solo pezzo, che ai piedi della croce fu tirata a sorte. Ho spesso notato che i veri poveri cercano di vestirsi decentemente: hanno troppa paura di non poterlo fare più, un giorno. La divisa ostentata del povero piace soprattutto ai figli dei ricchi, sazi, sicuri, in cerca di nuove emozioni.3. LA TENTAZIONE DEI "PRIMI POSTI" IN OGNI AMBITO DELLA VITACome nota il Vangelo, i commensali di quell'occasione sono alquanto scortesi con lui: Stavano a osservarlo, evidentemente per sorprendere di lui qualche parola o qualche gesto sbagliato. Non si fa così: chi siede a mensa con noi, deve essere da noi trattato con amicizia, non deve essere messo a disagio, non deve sentirsi avvolto da un ambiente ostile.Gesù lo nota e risponde, attaccando per primo con molto garbo coloro che insidiano la serenità del suo pranzo. Avendo osservato come gli invitati sceglievano i primi posti, imparte loro una piccola lezione di buon gusto e di furbizia umana: se non vuoi fare, presto o tardi, una brutta figura, è meglio che resti sempre un po' indietro. Saranno gli altri allora a farti salire.4. IL CRISTIANO RICONOSCE CON UMILTÀ IL PROPRIO REALE VALOREMa il testo dice che il discorso di Gesù è una "parabola", cioè ha un significato più profondo e più importante di quello immediato: esprime cioè un principio che vale soprattutto nei nostri rapporti con Dio.È l'insegnamento dell'umiltà, senza della quale non c'è una vera e feconda vita religiosa. L'umiltà è la virtù che ci fa tener presente sempre quello che veramente valiamo (e cioè non molto in faccia agli uomini e niente in faccia a Dio), e ci comportiamo di conseguenza, evitando ogni autoesaltazione, ogni ostentazione, ogni prepotenza, ogni affermazione arrogante dei nostri diritti (che davanti a Dio sono inesistenti). Allora il Signore ci esalterà e ci darà tutto, perché avremo riconosciuto il nostro reale valore. Come abbiamo ascoltato nella prima lettura: Quanto più sei grande, tanto più umiliati; così troverai grazia davanti al Signore; perché dagli umili egli è glorificato.5. IL CRISTIANO NON CERCA IL PROPRIO VANTAGGIO NEL COMPIERE IL BENE Infine, sempre prendendo lo spunto dalla realtà del banchetto cui stava partecipando, Gesù ci imparte un'ultima lezione: nella vita cristiana, cioè nella vita di fede, di speranza, di carità, non deve entrare mai (o almeno ci si deve sforzare di non fare entrare) il tornaconto umano come motivo delle nostre azioni di bene.Sia quando manifestiamo l'amore verso Dio nella preghiera e in tutti gli atti di culto, sia quando esprimiamo l'amore verso il prossimo facendo del bene, il calcolo dei vantaggi umani non deve contaminare le nostre intenzioni. Così, se non troveremo nessun vantaggio, nessun premio, nessuna corrispondenza, nessuna gratitudine, non ci meraviglieremo, ma ravviveremo la fiducia nel premio della vita nuova ed eterna.Col suo gusto per le frasi paradossali, Gesù ci dice addirittura che dovremo essere felici di non ricavare niente in questa vita dalla nostra bontà, dalla nostra giustizia, dalla nostra religione: Sarai beato... Riceverai infatti la tua ricompensa nella risurrezione dei giusti.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8249OMELIA XXI DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 13,22-30) di Giacomo Biffi Continua in questa domenica la provocazione del Vangelo. Continua la serie delle pagine aspre, degli insegnamenti sgraditi, che hanno però il pregio di scuoterci dal cristianesimo inerte, rassegnato o falsamente ottimista, nel quale tutti qualche volta ci scopriamo adagiati.Scegliamo da questo brano di Luca alcune frasi che ci aiutino a organizzare la nostra breve meditazione.UN SALVATORE CHE VA IN CERCA DELL'UOMOGesù passava per città e villaggi, insegnando. Il suo è dunque un viaggio apostolico, è un ricercare l'umanità dovunque si trovi, è un darsi pena di raggiungere gli uomini, perché tutti possano ascoltare la parola nuova, l'annuncio che tocca i cuori e li trasforma, il messaggio di verità. Si sobbarca alla fatica di girare per gli sparsi centri abitati, perché vuole che a tutti sia portata la possibilità di salvezza. Come si vede, quella che ci viene offerta è l'immagine, consolante e splendida di speranza, di un Salvatore che va in cerca dell'uomo. E proprio a proposito di salvezza il Signore viene un giorno interrogato. IL DOVERE DI NON INDUGIARE NELLE CURIOSITÀ INUTILI E NELLE QUESTIONI OZIOSE Un tale gli chiese: Signore, sono pochi quelli che si salvano? A essere sinceri, lo sconosciuto interlocutore di Cristo ha interpretato la curiosità di noi tutti. Sono tanti o pochi quelli che si salvano? È un problema che presto o tardi tutti si propongono. Alcuni però non si accontentano di farsi la domanda, ma arrivano anche a darsi da soli la risposta. C'è chi risponde: sono pochi. Gli uomini cadono nell'inferno come fiocchi di neve. E c'è chi risponde: si salvano tutti. L'inferno, se c'è, deve essere vuoto. La prima risposta era più frequente un tempo, quando era più forte e vivo nella coscienza comune il senso della colpa. La seconda prevale oggi, in cui nessuno sembra più prendere sul serio l'idea di un vero peccato personale. L'una e l'altra risposta hanno in comune di essere ugualmente infondate e arbitrarie: che ne sappiamo noi della situazione anagrafica del paradiso e dell'inferno? L'unico che avrebbe potuto con cognizione di causa appagare la nostra curiosità era proprio il Signore Gesù. Che però, come abbiamo visto, anche quando è stato espressamente interrogato su questo punto, non lo ha fatto. A chi gli chiede: Sono tanti o pochi?, dice: Sforzatevi. Cioè: invece di farti domande oziose sulla salvezza degli altri, impegnati con decisione a guadagnarti la tua. Più che tentare di violare il segreto di Dio, tieni desta e tesa la volontà di operare ogni giorno per il raggiungimento del traguardo di gioia eterna che ti è stato assegnato, senza la visione buia e scoraggiante di chi ritiene che tutto è contaminato e sopraffatto dal male, e senza la giuliva superficialità di chi si illude che, comunque vadano le cose, alla fine tutto in qualche modo si aggiusta.IL DOVERE DI IMPEGNARSI PER POTERSI SALVARE Sforzatevi di entrare per la porta stretta, dice Gesù. Che significa: la strada che ci condurrà alla casa del Padre è faticosa. Non è e non è mai stato comodo essere veramente cristiani. È la strada che passa per l'osservanza di tutti i comandamenti, che vanno rispettati sempre, anche quando è arduo, anche quando è logorante, anche quando si ha l'impressione di essere soli. È la strada del precetto alto e difficile dell'amore: l'amore di Dio sopra tutte le cose, espresso concretamente nella donazione di noi, del nostro tempo, dei nostri beni; l'amore del prossimo, anche quando il prossimo è antipatico, ostile, ingrato. È la strada del riconoscimento dei propri torti e delle proprie ingiustizie, è la strada della verifica quotidiana della coerenza cristiana della nostra vita, è la strada dell'attenzione ai propri doveri più che ai propri diritti.IL DOVERE DI NON PERDERE TEMPO DI FRONTE AL BENE Il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta. Con questa frase Gesù ci vuol dire che il tempo della pazienza di Dio non si prolunga indefinitamente, che lo spazio per cambiare la nostra condotta e metterci in regola con il Signore non ci sarà sempre concesso. Arriva un momento in cui la porta si chiude, in cui i giochi sono fatti, le decisioni sono prese senza ritorno. Questo è un punto fondamentale della dottrina evangelica: finché c'è vita, c'è sempre speranza di salvezza, anche per il più malvagio dei delinquenti, anche per il più incallito dei peccatori. Ma la vita non c'è sempre. Il momento della morte pone fine a tutte le possibilità: chiuderà la porta. Perciò dobbiamo deciderci subito per il bene, perché non sappiamo quanto tempo ancora ci sia dato.IL DOVERE DI UN CRISTIANESIMO FATTIVO Un ultimo insegnamento possiamo raccogliere dalle parole del Signore: ed è che a farci varcare la porta della salvezza non ci varrà la qualifica puramente verbale di "cristiani", e neppure la familiarità con le discussioni religiose o con la cronaca di vita ecclesiastica. Anche coloro che conoscono i nomi di tutti i cardinali o di tutti i canonici della cattedrale, o hanno letto tutti i documenti del Concilio, o hanno continuato a parlare di giustizia, di carità, di comunità, se non hanno rispettato tutta la legge di Dio e non hanno fattivamente vissuto il comandamento dell'amore, si sentiranno dire: Non so di dove siete. Preghiamo allora e proponiamo perché la nostra condotta ci faccia alla fine trovare aperta e accogliente la porta del Regno.UNA SUPPLICA ACCORATA DI CHI "HA FATTO TARDI" La liturgia ambrosiana della Settimana Santa ha un confractorium (un "Canto allo spezzare del pane") che sembra mettere curiosamente un'estrema preghiera di speranza sulle labbra anche di chi è stato a lungo una "vergine stolta": Non chiudere la tua porta, anche se ho fatto tardi.Non chiudere la tua porta: sono venuto a bussare.A chi ti cerca nel pianto, apri, Signore pietoso.Accoglimi al tuo convito, donami il Pane del regno.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8248OMELIA XX DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 12,49-57) di Giacomo Biffi Le lettere di questa messa propongono alla nostra attenzione alcune verità aspre, sgradevoli, ma insieme necessarie e salutari come tutto quello che ci è presentato dalla parola di Dio. La loro meditazione è tanto più importante in quanto noi siamo istintivamente portati a trascurarle e, soprattutto in questi ultimi anni, di fatto sono state troppo spesso dimenticate e taciute.In realtà, in ogni epoca della sua storia (e più ancora nella nostra epoca) la cristianità è stata infestata da troppi falsi profeti, che del messaggio di Cristo hanno colto solo alcuni aspetti (quelli che potevano essere graditi alla mentalità mondana) e hanno sistematicamente ignorato ciò che nell'insegnamento di Gesù poteva apparire urtante, amaro, o anche solo troppo impegnativo. E così hanno finito col proporre un cristianesimo senza vigore, senz'anima, così modernizzato da essere sostanzialmente inutile per l'uomo d'oggi. Perché l'uomo di oggi che ha smarrito Cristo non ha bisogno di carezze, ha bisogno di Cristo; l'uomo che si sta distruggendo con le sue mani non ha bisogno di approvazioni, ha bisogno di essere salvato. Vediamo allora, alla luce della parola del Signore, quali siano le caratteristiche di questi falsi profeti, o almeno del loro evangelo riveduto, corretto, addolcito.1. LA VERITÀ È IN OGNI TEMPO COMBATTUTA Una prima caratteristica è quella di supporre e di insegnare che il cristiano - sul piano delle incertezze e dei principi - possa e debba andare d'accordo con tutti, sempre e in tutto, anche con quelli che esplicitamente rifiutano il messaggio di Gesù e hanno una concezione della realtà e della vita assolutamente diversa: l'importante, dicono, è evitare la lotta, la polemica, la discussione; l'importante è non passare per intolleranti, per fanatici, per retrogradi; l'importante è la pace a qualunque costo, anche a costo di rinunciare alle proprie convinzioni o di nasconderle. Qual è invece il parere di Gesù, come abbiamo ascoltato dal Vangelo di oggi? Gesù dice: Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, io sono venuto a portare la divisione. Questo infatti è sempre il destino della verità: da qualcuno è generosamente abbracciata e difesa, da qualche altro è respinta e combattuta. Un cristiano che in tutte le questioni che contano, in tutti i problemi morali e sociali, si trova sempre d'accordo coi non cristiani, deve chiedersi seriamente se sia davvero un discepolo fedele del Signore. 2. IL CRISTIANESIMO AUTENTICO NON PUÒ PRESCINDERE DALLA CROCE Una seconda caratteristica: i falsi profeti di solito predicano un cristianesimo senza croce, senza rinuncia, senza sacrifici. A sentir loro, tutto è lecito, tutto è consentito. In nessuna occasione, davanti alle gravi difficoltà dell'esistenza, della vita familiare, della vitaassociata, fanno mai appello per risolverle alla mortificazione, all'impegno, al dominio di sé, ma sempre ai mezzi sbrigativi offerti da una tecnica asservita all'egoismo individuale. Ma un cristianesimo senza croce non è quello di Cristo, che ha sempre tenuto davanti agli occhi il battesimo di sangue che avrebbe dovuto subire: C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!3. IL CORAGGIO DI ANDARE CONTRO CORRENTE Una terza caratteristica del falso vangelo è quella di voler ottenere il plauso della gente e delle forze mondane. Per questo, invece delle verità amare, i suoi annunciatori sono inclini ad annunciare le falsità dolci. È illuminante, a questo proposito, l'insegnamento della prima lettura. Geremia, che era un vero profeta, preannunciava sventure a un popolo sviato. Gli altri profeti, che erano falsi, assicuravano sempre benessere e prosperità. Così, Geremia era odiato e gli altri apprezzati e applauditi, al punto che, per evitare il fastidio delle sue parole, il popolo cerca di uccidere l'autentico inviato di Dio, gettandolo nella cisterna. In genere, l'opinione pubblica, i giornali, i mezzi audiovisivi, le forze economiche, politiche, sindacali, coloro insomma che hanno in mano il potere del mondo, tendono a parteggiare per i profeti falsi contro la vera Chiesa di Dio, e sono sempre pronti a esaltare coloro che sembrano rendere più facile, più moderna, più accomodante (e più inutile) la religione, si fregino essi delle qualifiche di psicologi, di sociologi, di teologi. Noi invece chiederemo la grazia al Signore di saper ben giudicare, cioè di giudicare secondo verità e non secondo comodità. Chiederemo la grazia di saper leggere, come vuole Gesù, i segni dei tempi. Perché è arrivato un tempo, ed è questo, in cui occorre avere il coraggio di essere contro il mondo e contro tutte le sue aberrazioni; in cui, senza preoccuparsi delle critiche, degli scherni, delle incomprensioni, bisogna essere totalmente fedeli all'Evangelo e alle sue esigenze. Preghiamo perché, anche in mezzo alla confusione, non abbiamo mai a perdere la giusta strada e, come dice la seconda lettura, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della nostra fede.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8247OMELIA XIX DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 12,32-48) di Giacomo Biffi La nostra breve meditazione domenicale è sempre un po' una verifica delle nostre convinzioni e del nostro comportamento alla luce del genuino pensiero del Signore Gesù.Chi infatti si dice cristiano deve sempre fare attenzione che la sua mentalità sia davvero conforme non alle opinioni correnti del nostro tempo né ai nostri pregiudizi incontrollati, ma all'insegnamento totale di Cristo.Il punto che ci viene oggi richiamato è la persuasione che il nostro destino non è racchiuso nei pochi giorni che ci sono dati da vivere sulla terra; che abbiamo tutti un traguardo; che perciò dobbiamo tenere vivo il senso dell'attesa. Siate simili a coloro che aspettano: per chi vuol vivere secondo il Vangelo, è essenziale mantenere desta la tensione interiore verso gli avvenimenti che concluderanno la vicenda umana.Il cristiano sa che la sua storia terminerà con un incontro personale col suo Signore; un incontro che sarà anche un rendiconto e un giudizio e al quale perciò ci si deve ogni giorno preparare: Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese.Se il nostro spirito è ricurvo e attento solo ai fatti della vita terrestre; se evitiamo, perché troppo duro e fastidioso, il pensiero di ciò che ci sarà dopo; se le nostre speranze riguardano soltanto la terra (un maggior benessere economico, una vita più serena, ecc.) non siamo dei veri discepoli di Cristo, perché il vero discepolo di Cristo è "uno che aspetta", è uno che sa di essere in cammino verso una meta, è uno che sul pensiero del traguardo regola tutta quanta la sua corsa.Per chiarire questa verità fondamentale e per farci riflettere su questo punto, Gesù, nella pagina evangelica di oggi, ci propone secondo il suo solito due paragoni.1. TENIAMOCI SEMPRE PRONTI ALL'INCONTRO CON CRISTOIl primo è preso dalle abitudini delle case signorili di una volta, ed è un quadretto molto lontano dal nostro modo attuale di vivere. È la figura di un padrone che è andato a una festa di nozze senza lasciar detto l'ora del suo ritorno. Il buon servitore, dice Gesù, resta in piedi ad attenderlo tutta la notte, per essere pronto ad aprirgli subito la porta di casa, appena sentirà la sua mano bussare.Così è di noi: il nostro padrone è partito ed è andato a festeggiare nella gloria del Padre le nozze eterne tra la divinità e l'umanità, che nella immolazione della sua Pasqua sono state riconciliate e saldate per sempre tra loro. È partito, ma tornerà. Egli verrà nell'ora che non pensiamo. A noi il compito di stare desti e aspettare: nessun giorno della nostra vita deve passare senza il pensiero del ritorno imminente di Cristo.Gesù ci dice anche un'altra cosa, una cosa che nel quadro della parabola è del tutto inverosimile, ma che si avvererà alla lettera per noi, se la fine della vita ci sorprenderà nella fedeltà e nella vigilanza: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e sarà lui a servirli.E cioè noi entreremo nel Regno di Dio non più come servi, ma come figli del Re che godranno per sempre della sua intimità.2. NON AVREMO NESSUN PREAVVISOIl secondo paragone è ancora più chiaro, ed è comprensibilissimo ai nostri tempi, soprattutto di questi giorni, quando i ladri saccheggiano e devastano gli appartamenti deserti. Nessun ladro - dice Gesù - manda il preavviso con il giorno e con l'ora in cui ha deciso di venire a rubare; il ladro viene sempre all'improvviso. Ebbene, anche il Signore, nella sua visita decisiva, verrà a noi come un ladro.Il che significa che nessuno conosce il momento né della fine del mondo né della fine della sua vita personale. E proprio per questo non ci è consentita nessuna distrazione: tutte le ore dell'esistenza vanno vissute nella fedeltà e nella coerenza col Vangelo di Cristo, perché l'ultima ora non ci sorprenda col cuore inaridito e senza fede, coll'egoismo soffocatore di ogni amore, con l'animo lontano e ribelle al Dio che è la fonte della nostra salvezza.Tenetevi pronti - teniamoci pronti - perché il Figlio dell'uomo verrà nell'ora che non pensate.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8234OMELIA XVIII DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 12,13-31) di Giacomo Biffi Niente fa litigare di più i fratelli delle questioni di eredità. Ci siano da dividere dei palazzi oppure solo dei vecchi mobili, ci siano molti milioni o poche lire, quando si tratta di eredità si finisce sempre col far baruffa. È così dal principio del mondoLa legge mosaica regolava minuziosamente, come le legislazioni moderne, il diritto di successione. Chi si credeva defraudato, si rivolgeva spesso per avere giustizia ai dottori della legge, cioè agli interpreti della Sacra Scrittura.Nell'episodio raccontato dall'odierna pagina di Vangelo, un uomo, privato di quel che gli spettava dalla prepotenza del fratello, si rivolge a Gesù, che ormai è riconosciuto maestro: Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità.Gesù risponde:- con un rifiuto, che ci meraviglia un po';- con un principio sul vero valore dell'uomo;- con una parabola, che ci fa tutti pensare.1) IL RIFIUTO: RISOLVERE ALLA RADICE OGNI PROBLEMA TEMPORALEQuell'uomo chiedeva giustizia. In una delle solite beghe, che sono la gioia degli avvocati e la rovina delle famiglie, aveva ricevuto un sopruso. La sua richiesta era dunque legittima. Eppure Gesù risponde quasi con durezza, dichiarando la sua assoluta incompetenza: O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi? Come? Non gli sta a cuore la giustizia? Non si preoccupa della sorte di chi è oppresso e derubato dall'egoismo? Gli sta più a cuore che non si facciano confusioni; si preoccupa di più che il suo messaggio appaia chiaramente per tutti l'annuncio del Regno di Dio e non, direttamente e per sé, la sistemazione delle cose del mondo. Certo egli è giudice, ma è il Giudice che giudicherà i vivi e i morti, cioè giudicherà ciascuno al termine della vita su tutto ciò che è stato compiuto. Certo egli è mediatore, ma non per le liti tra noi: è l'unico Mediatore tra Dio e gli uomini, che può riconciliarci col Padre. Allo stesso modo la Chiesa immette nel cuore dei popoli, col desiderio del Regno, una invincibile nostalgia di giustizia anche terrena, ma il suo compito primo resta la redenzione del cuore e la salvezza eterna dell'uomo2) IL PRINCIPIO: LA PREMINENZA DELL'ESSERE SULL'AVEREGesù dice: "La vita dell'uomo non dipende dai suoi beni". Cioè: il valore dell'uomo non sta in ciò che egli possiede. C'è qui un radicale contrasto tra la mentalità di Cristo e la mentalità del mondo; contrasto che potrebbe essere espresso dai due verbi più usati della lingua italiana: il verbo "avere" e il verbo "essere". Per il mondo l'uomo vale per quello che ha: "Quanto hai in banca? Hai la casa in montagna? Hai l'automobile fuori serie?". Con queste domande o con altre simili a queste, il mondo classifica un uomo. Per Cristo l'uomo vale per quello che è: "Chi sei? Che cosa sei? Sei vicino a Dio col tuo cuore e col pensiero di ogni giorno? Sei giusto? Sei buono e caritatevole con gli altri?". Con queste domande il Signore ci aiuta a fare una stima di quello che davvero valiamo. Notiamo che l'avere resta sempre esterno all'uomo e dovrà essere presto o tardi completamente abbandonato. L'essere invece è interno a noi e accompagna l'uomo anche di là dalla morte. Perciò il Signore ammonisce: Guardatevi da ogni avidità, cioè da ogni smodato desiderio di avere. Preoccupatevi invece di essere, cioè di crescere nella vostra ricchezza interiore.3) LA PARABOLA: NESSUNO PUÒ ELUDERE IL GIUDIZIO SULLA PROPRIA VITA Per farci capire bene questa verità, Gesù racconta con stile molto vivace il caso (così frequente anche ai nostri giorni) di un uomo ricco, che ha passato tutta una vita ad accumulare ricchezze e viene improvvisamente strappato ai suoi compiacimenti e alle sue fantasticherie da un piccolo colpo notturno, col quale la sua esistenza terrena bruscamente si conclude. Andava, quell'uomo, delineando un programma che sembra essere quello degli italiani a ferragosto: "Riposati, mangia, bevi, datti alla gioia". È un programma sbagliato? È piuttosto un programma incompleto. Nella vita organizzata così, sembra non ci sia nessun posto né per Dio né per i fratelli che sono nella necessità. Va rilevato anche il fatto che quest'uomo ragionava tra sé. Il suo è un monologo: sia quando pensa agli affari (magazzini, raccolto), sia quando pensa al riposo e al divertimento (mangiare, bere, stare allegri), non ha interlocutori, è solo con se stesso. Non parla né con Dio nella preghiera né con gli altri nelle opere di misericordia. Proprio per questo è stolto. Ma Dio gli disse: Stolto. Drammatica è questa finale del racconto con l'intervento della voce divina che risona nella notte. Dio è un interlocutore che sta zitto a lungo, ma, quando ha deciso, si inserisce di prepotenza nei nostri monologhi. Anche coloro che sembrano averlo escluso definitivamente dalla loro vita, e non si interrogano mai sulla sua volontà, quando meno se lo aspettano se lo troveranno davanti; alla fine dovranno ascoltare il suo parere sulla loro esistenza e sui loro progetti, e non potranno chiudergli la bocca. Per questo conviene abituarsi a parlare con lui fin da adesso, così che la sua voce non abbia un giorno a costituire una brutta sorpresa.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8232OMELIA XVII DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 11,1-13) di Giacomo Biffi Una riflessione sulla preghiera del "Padre nostro".La pagina evangelica di oggi ci offre un’eccellente occasione per riflettere sulla preghiera che Gesù ci ha insegnato e che noi recitiamo ogni giorno: e che proprio per questo può essere un po’ spenta dall’abitudine e come privata della sua originaria incisività. È anche un’occasione per riflettere su tutto il nostro modo di pregare: Gesù, infatti, più che regalarci una formula, ha voluto insegnarci uno stile di preghiera e insieme indicarci i contenuti della preghiera cristiana. PADRE NOSTRO: l’autentica preghiera cristiana è sempre rivolta a Dio, fonte di tutto l’essere e traguardo di tutte le esistenze. Se talvolta ci rivolgiamo ai santi, lo facciamo come si fa con dei fratelli, dai quali si sollecita un po’ d’aiuto e un po’ di comprensione. Ma solo a Dio noi possiamo e dobbiamo rivolgerci con l’offerta di tutto quello che siamo; la preghiera vera, infatti, non consiste tanto nella molteplicità delle parole, ma nella donazione interiore di tutto il nostro essere al nostro Creatore, donazione che nell’orazione diventa sempre più consapevole, più generosa, più completa. PADRE: ci vuole un bel coraggio a chiamare Dio col nome di padre. "Osiamo dire", ci fa pronunciare con grande finezza la Chiesa. Questo coraggio noi giustamente l’abbiamo, perché siamo "di Cristo", cioè non solo apparteniamo a lui, ma siamo in lui e partecipiamo in Cristo alla sua natura filiale. In forza della nostra incorporazione nell’Unigenito di Dio, il padre di Gesù diventa nostro padre. Per questa ragione, ogni vera preghiera che noi rivolgiamo a Dio si appoggia alla mediazione del Signore Gesù, Figlio di Dio e nostro fratello, come facciamo nelle orazioni che il sacerdote pronuncia nella messa a nome di tutti.VENGA IL TUO REGNO: chi ama Dio come un padre, non può non sentirsi a disagio in questo mondo, e come ferito dall’indifferenza e dall’estraneità che il mondo ostenta nei confronti del suo Creatore. L’apparente assenza di Dio da questo mondo suscita nel nostro cuore - se è un cuore dove c’è un po’ d’amore - la nostalgia di un mondo diverso, dove la gloria di Dio si manifesterà apertamente; in una parola, la nostalgia del Regno. Il che significa che ogni preghiera cristiana non può restare continuamente ripiegata nell’elenco delle nostre necessità, ma deve essere anche mossa e animata dal desiderio e dalla speranza del Regno.SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ: suggerendoci questa richiesta - terribile, spaventosa richiesta, che noi ripetiamo troppo incautamente, salvo a protestare quando Dio ci prende sul serio -. Gesù ci ricorda che la preghiera non è tanto un mezzo per piegare Dio alla nostra volontà, ma è piuttosto un tentare di disporci a piegare noi stessi ai voleri di Dio. Colui che veramente, sostanzialmente prega, non è uno che tenta di far prevalere i propri voleri; è, invece, uno che si arrende alle esigenze di Dio e si decide ad accoglierle anche quando sono contrastanti coi nostri piccoli progetti e con la nostra corta pazienza.IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO: nel pane è come riassunto e simboleggiato tutto ciò di cui noi abbiamo bisogno ogni giorno: il cibo, l’aria, la luce, il coraggio, la speranza, la conoscenza dei motivi per cui si vive, un po’ d’affetto da parte di qualche persona amica, un po’ di pace interiore. Tutte cose che durano poco, che si consumano in fretta, e che proprio per questo ogni giorno ci devono essere date. La nostra autonomia è molto limitata: nonostante le orgogliose sicurezze di certi momenti dell’esistenza, noi non siamo capaci di stare a lungo in piedi da soli. Per questo nella preghiera riconosciamo questa nostra povertà, questa nostra precarietà, e chiediamo al Padre che è nei cieli il suo aiuto quotidiano.In particolare, abbiamo bisogno quotidianamente di essere perdonati, perché ogni giorno sbagliamo. Col pane, dobbiamo ricevere la nostra quotidiana razione di misericordia. Perciò preghiamo: Rimetti i nostri debiti. Perciò ci impegniamo a non essere noi stessi avari di misericordia verso i nostri fratelli: Come noi li rimettiamo ai nostri debitori.Il "Padre nostro" è preghiera bella, facile, semplice da dire; difficile e ardua da vivere nella verità della nostra vita di ogni giorno. Il Signore Gesù che ce l’ha suggerita ci doni la forza di tentare ogni giorno di conformare i nostri sentimenti e le nostre azioni alla sua divina bellezza.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8206OMELIA XVI DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 10,38-42) di Giacomo Biffi L'episodio raccontatoci dalla pagina di Luca, che abbiamo ascoltato, è tra i più suggestivi di tutta la narrazione evangelica.Ha un'ambientazione, per così dire, casalinga. Siamo a Betania, la località che il viaggiatore proveniente dal deserto di Giuda incontra poco prima di arrivare a Gerusalemme. Gesù, che ha percorso proprio quel cammino spossante, ha colto con gioia la possibilità di riposarsi un po' in una dimora accogliente, prima di affrontare ancora una volta il tumulto della capitale e le fatiche della sua missione.E con gioia e cordialità è stato ospitato da Marta, una massaia solerte, che viveva con una sorella minore di nome Maria. Qui non compare, ma dal Vangelo di Giovanni sappiamo che lì vicino abitava anche un fratello di nome Lazzaro: tutti e tre i fratelli erano legati al Maestro di Nazaret da una solida e devota amicizia.Con l'incarnazione, il Figlio di Dio si è fatto un uomo vero e completo: ha un cuore capace di affetto, e niente di ciò che è autenticamente e positivamente umano gli è estraneo. Quello dell'amicizia è appunto uno dei valori dell'esistenza che egli ha voluto sperimentare.Noi siamo commossi di fronte al Creatore dell'universo - colui che infinitamente trascende tutti gli esseri che prendono vita da lui - che assume questi vincoli di familiarità e di benevola comunione con le sue creature.L'amicizia - dicevano già gli antichi - o nasce tra uguali o rende uguali coloro che entrano nel suo gioco e nella sua logica: nella figura di un Dio che si fa nostro amico è implicitamente annunciato e fondato il nostro destino di partecipi della divina natura (2 Pt 1,3), per usare le coraggiose parole della seconda Lettera di Pietro.Ma è incantevole anche la scena dell'Unigenito del Padre che per cercarci si è fatto viandante e ha per corso le accaldate e polverose strade di Palestina, nella speranza di essere ospitato, ristorato, consolato da noi. Non solo dunque con l'amicizia si è a noi assimilato, ma addirittura ha voluto farsi bisognoso di noi.GESÙ CHIEDE DI ESSERE OSPITATO NEL NOSTRO CUOREIo sto alla porta e busso (cf. Ap 3,20), egli dice a ciascuno di noi. Ci prega, cioè, di fargli un po' di posto nella nostra esistenza, di dargli un po' del nostro tempo, di prestargli un po' della nostra attenzione. Di fronte a questa condiscendenza di colui che è l'Asso luto e l'Incondizionato, sembra incredibile che ci siano cristiani che non sappiano trovare quotidianamente qualche minuto per lui e non sappiano donar gli neppure un'ora del giorno che è suo (e perciò si chiama "domenica").Sembra incredibile - deve dire ciascuno di noi - che io sia così lento e anzi restio a spalancargli il mio cuore, per godere della fortuna insperata di un'intimità con lui, fortuna che ci è stata formalmente promessa: Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, e a tu per tu noi ceneremo insieme (ibid.).Non solo dunque un ospite vuol essere Gesù, ma addirittura un mendicante sulla soglia della nostra casa: un mendicante che chiede solo un po' d'amore. Non vuole le nostre cose, vuole noi: vuole i nostri pensieri, i nostri sentimenti, la totalità di quello che siamo.È però un insolito mendicante: più che ricevere, dona; più che farsi aiutare, arricchisce; più che essere accettato, ci accetta e ci innesta nella sua stessa realtà. Ci conviene quindi affrettarci ad aprirgli, perché - dice sant'Ambrogio - «Tutto abbiamo in Cristo. Ogni anima gli si avvicini. O che sia malata per i peccati del corpo o come inchiodata dai desideri monda ni oppure ancora imperfetta, ma sulla via della perfezione grazie all'assidua meditazione..., ogni anima è in potere del Signore, e Cristo è tutto per noi. Se vuoi curare una ferita, egli è medico; se sei riarso dalla febbre, è fontana; se sei oppresso dall'iniquità, è giusti zia; se hai bisogno di aiuto, è forza; se temi la morte, è vita; se desideri il cielo, è via; se fuggi le tenebre, è luce; se cerchi cibo, è alimento. Dunque "gustate e vedete quanto è buono il Signore; beato l'uomo che in lui si rifugia"» (De virginitate 99).LE PREOCCUPAZIONI TERRENE NON DEVONO SOFFOCARE LA NOSTRA TENSIONE VERSO LA VERITÀDue immagini di donna ci sono offerte come modello di questo riconoscimento della totalità di Cristo e della perfetta adesione a lui.Maria appare come colei che più intimamente è affascinata dalla bellezza di questo mistero: il mistero di un Dio che si fa pellegrino, ospite, amico; un mistero che verosimilmente lo stesso Gesù le sta a poco a poco rivelando con voce ammaliante, mentre lei è seduta ai suoi piedi, dimentica di ogni altra incombenza.Marta ci insegna che bisogna anche darci da fare perché il Signore sia degnamente ospitato; diventi cioè una presenza efficace non solo nel segreto della nostra coscienza, ma anche nell'umanità in cui viviamo.Non viene rimproverata per il suo lavoro, senza del quale quella sera Gesù non avrebbe neppur cenato; piuttosto viene illuminata perché le molte preoccupazioni terrene non arrivino a far dimenticare il senso ultimo e la ragione vera di ciò che si compie. E viene anche dolcemente corretta perché non sia tentata di disistimare la tensione verso la contemplazione della verità salvifica e della sapienza eterna: Maria si è scelta la parte migliore che non le sarà tolta (Lc 10,42).«Preoccupiamoci anche noi - dice ancora sant'Ambrogio - di possedere ciò che nessuno ci possa togliere, prestando un ascolto non superficiale, ma diligente; infatti perfino i semi della parola celeste sono anch'essi portati via, se vengono gettati lungo la strada.Ti sospinga, come Maria, il desiderio della sapienza: questa infatti è l'opera più grande, questa è l'opera più perfetta; e la sollecitudine per il ministero non ti distolga dal conoscere la parola celeste. Non criticare quindi e non pensare che perdano il tempo coloro che vedi dedicarsi alla sapienza» (In Lucam VII,85). In fondo, l'esortazione più immediata e decisiva che ci viene da questa pagina, è il richiamo a un principio che Gesù ha chiaramente proposto, ma che noi siamo spesso nel nostro comportamento inclini a dimenticare: Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte le altre cose vi saranno date in aggiunta (Mt 6,33).Nel Regno di Dio, cioè nella vita senza fine - nota sant'Agostino - non ci sarà più la fatica dell'essere immersi nella molteplicità logorante delle cose e dei problemi; ci sarà invece per sempre l'unificazione di tutte le cose nella carità: «Transit labor multitudinis et remanet caritas unitatis».Il Signore ci conceda di anticipare già adesso questa felice semplificazione del nostro spirito e della sua attività; di non disperderci nelle molte sollecitudini e nelle molte attrattive che passano e deludono; di indirizzare ogni nostra interiore facoltà al pensiero e alla speranza del Regno di Dio.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8205OMELIA XV DOMENICA T. ORD. - ANNO C (Lc 10,25-37) di Giacomo Biffi Un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù; dunque non per conoscere la verità. La domanda (Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?), che pure è la più importante che possa essere posta da un uomo, non proveniva da un animo retto. Sia però benedetto quell'ignoto malevolo interlocutore di Cristo, che ha provocato in risposta uno degli insegnamenti più alti del Signore, e ci consente di riflettere oggi ancora una volta sulla legge dell'amore, cuore e sostanza di tutto l'Evangelo.LA LEGGE CRISTIANA DELL'AMORE RIASSUME IN SÉ TUTTI I COMANDAMENTI RICEVUTI DA MOSÈ 1. A questo mondo non c'è fascino di bellezza che non venga deturpato dall'uomo, né splendore di verità che non venga travisato. Anche la legge dell'amore corre questo rischio, per esempio quando viene presentata come un superamento o addirittura un'abrogazione dei comandamenti di Dio. La legge dell'amore non è l'abrogazione, ma piuttosto è il cuore e il compendio dei comandamenti, che Mosè ha ricevuto su tavole di pietra, ma che sono indelebilmente iscritti nell'animo umano.Chi infatti ama Dio con tutto il cuore, adora lui solo, rispetta il suo nome e trova un'ora di tempo alla setti mana da dedicargli in esclusiva. Se no, che amore è? E questi sono i primi tre comandamenti. E chi ama sul serio il prossimo, cioè ha a cuore tutti i valori dell'uomo, rispetta e onora i vincoli familiari, considera sacra la vita e non manipolabile al servizio dell'egoismo la capacità di trasmettere la vita, rispetta e onora gli altri nella loro dignità, nella loro proprietà, nel loro diritto a non essere ingannati. E questi sono gli altri comandamenti.Sicché la legge dell'amore non è il modo astuto insegnatoci da Gesù per fare i nostri comodi, ma è l'aiuto e l'ispirazione a osservare integralmente e con piena coscienza la volontà di Colui che ci ha creati.CI AMIAMO TRA NOI PERCHÉ DIO CI AMA TUTTI DELLO STESSO AMORE2. Un secondo modo di non intendere questa pagina di Vangelo è quello di presentare l'amore del prossimo come se a questo comando si potesse ridurre il messaggio di Cristo nella sua vera originalità.Ma le cose non stanno propriamente così. La stessa frase: Amerai il prossimo come te stesso non è stata inventata da Gesù. Era già contenuta nei libri dell'Antico Testamento e ogni ebreo la conosceva bene.L'originalità di Gesù sta piuttosto nella spiegazione di chi si debba considerare prossimo. Gli ebrei non avevano dubbi che per prossimo da amare si dovessero intendere i parenti, gli amici, i connazionali, i correligionari, e solo loro. Gesù ritiene invece che tutte le limitazioni nel concetto di prossimità devono cadere: prossimo è ogni uomo che il Signore mette sulla mia strada e offre alla mia attenzione. Più ancora l'originalità di Gesù sta nella motivazione che regge e giustifica il comando dell'amore. Noi non dobbiamo amarci tra noi perché siamo amabili; anzi, spesso non lo siamo affatto. Dobbiamo amarci tra noi perché il Signore ci ha amati tutti dello stesso amore, si è chinato sulle nostre ferite, ci ha resi una cosa sola coll'impeto unificante della sua sorprendente misericordia. Se dimenticano questa motivazione, che solo la fede può dare, invano gli uomini tentano di amarsi tra loro. Come la storia spesso ci insegna, ogni slancio di solidarietà e di fratellanza finisce nell'oppressione e nella strage.IL NOSTRO PROSSIMO È OGNI UOMO A CUI VOGLIAMO FARCI VICINI3. E a imprimerci nell'animo questo insegnamento quasi con un quadro, Gesù racconta la celebre parabola del samaritano compassionevole, che è una delle parabole evangeliche meglio rifinite e più verosimili.La strada che dalle alture di Gerusalemme discende alla pianura fiorita di Gerico, attraversa il deserto di Giuda, cioè una zona del tutto disabitata, dove le rapine e gli attentati erano di facile esecuzione, nonostante i pattugliamenti della polizia romana.Il significato più decisivo del racconto sta nel fatto che il ferito è soccorso da uno che è straniero e nemico. Così si allarga il concetto di prossimo: "prossimo" è colui che io col mio amore, col mio interessamento, con la mia disponibilità voglio rendermi vicino. Vale a dire, la "prossimità" non ha altri confini se non la finitezza del cuore. Quanto più il nostro cuore sarà grande, tanto meno escluderemo qualcuno dalla cerchia di chi dobbiamo amare.IL BUON SAMARITANO È, PRIMA DI TUTTO, GESÙ 4. Ma in questa parabola Gesù sembra anche voler raffigurare la storia della nostra salvezza, nella quale appunto la legge dell'amore del prossimo si motiva. L'uomo percosso, piagato, spogliato, che giace sul ciglio della strada, siamo noi, è la stessa umanità, che il peccato ha privato di ogni bellezza e di ogni vigore, e pare non avere più speranza né scopo di vita.Lo straniero pietoso è il Figlio di Dio, venuto fino a noi da un mondo lontano e diverso, che si è chinato sulle nostre piaghe e ci ha dato il sollievo della fede e dei sacramenti.L'albergatore, cui ci ha affidati per la guarigione completa, è la Chiesa che, mentre egli è visibilmente assente, continua la sua opera di risanamento, sapendo che un giorno il divino straniero tornerà a ricompensare tutti di ogni spesa e di ogni fatica.Questa, nella sua semplicità e nella sua verità, è la nostra storia; questo è il riassunto di tutto l'Evangelo. Chiediamo la grazia di capire questo disegno misterioso e mirabile e di saper conformare alle sue linee la nostra vita, con umiltà di cuore, con fede viva, con gratitudine senza confini.
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8204OMELIA XIV DOMENICA T.O. - ANNO C (Lc 10,1-12.17-20) di Giacomo Biffi Dopo aver ricordato, nel capitolo 9, la missione degli Apostoli, l'evangelista Luca, in questo capitolo decimo, ci racconta la missione del gruppo più numeroso dei discepoli. La prima, nel numero dodici degli inviati, richiamava le tribù di Israele; la seconda, col numero settantadue, richiama tutta l'umanità: settantadue era infatti il numero dei popoli della terra secondo l'elenco dell'antico Libro della Genesi. Le due missioni sembrano dirci che, se la salvezza deve essere proposta prima di tutto al popolo ebreo, deve però arrivare fino ai confini del mondo. Designò... li inviò... Anche per questa missione, come per quella degli Apostoli, Gesù non lascia ad altri la decisione. È lui che sceglie, che incarica, che manda. Tutto ciò perché risulti chiaro e incontestabile che nel piano di salvezza ogni autentica missione è un dono dall'alto e che nel disegno di Dio gli uomini non sono salvati dall'iniziativa di altri uomini ma dall'amore del Padre. Tanto è vero che, se gli operai scarseggiano in questa divina impresa, non ad altri ci si deve rivolgere ma al Signore di tutto: Pregate il Padrone della messe, per ché mandi operai per la sua messe. È interessante poi esaminare quali siano le istruzioni che ricevono gli inviati di Gesù. 1. Non devono essere impacciati dalle ricchezze, non devono cercare gli appoggi delle potenze mondane (siano esse politiche, economiche, sindacali o dell'informazione) perché la loro forza sta tutta nella parola di Dio che annunciano e nella grazia di Dio di cui sono ministri. Badate che Gesù non dice che devono parlare troppo della loro povertà o presentarla come un manifesto pubblicitario. Dice che devono essere poveri, e se lo sono silenziosamente, nascostamente, dignitosamente, tanto meglio. 2. Non salutate nessuno lungo la strada. In Oriente il saluto tra due che si incontrano nel loro cammino può consistere in ore di conversazione. Gesù dunque non dice che i suoi inviati devono essere scortesi, ma che non devono lasciarsi distrarre dall'adempimento della loro missione né devono prestare eccessiva attenzione alle opinioni, alle chiacchiere, alle critiche, alle lodi ambigue di chi non è per niente interessato all'annuncio del Regno di Dio. La loro prima e più grande attenzione è verso il Padre che li ha incaricati e verso il compito che hanno ricevuto. 3. Ma non devono farsi illusioni: saranno sempre agnelli in mezzo ai lupi. Se restano discepoli fedeli del Signore, devono aspettarsi incomprensioni e calunnie. 4. Essi portano una cosa preziosa, cioè l'annunzio di salvezza. Lo devono offrire, ma non devono sprecarlo. Se qualcuno non lo vuole, peggio per lui. Non devono mendicare il favore e l'accoglimento degli uomini. Non è il Vangelo ad aver bisogno degli uomini, ma sono gli uomini ad aver bisogno del Vangelo, un bisogno profondo, ardente, disperato, anche se non ne sono sempre consapevoli. Non bisogna scendere di prezzo o portare per forza nel Regno di Dio coloro che si rifiutano di entrarvi. 5. L'operaio è degno della sua mercede. Gesù vuole che gli inviati da lui siano normalmente a tempo pieno. Non prende neppure in considerazione il caso di un apostolo che continui a fare il suo lavoro o a vivere con la sua famiglia: il lavoro unico dell'apostolo è l'annuncio del Regno, la sua famiglia è la comunità che è edificata dalla sua parola di salvezza. A questa comunità Gesù affida il sostentamento materiale dei suoi incaricati. Quelli che capiscono il valore del dono che ricevono, saranno lieti di obbedire a questa direttiva del Signore. A quelli che non capiscono nessuno domanda niente. 6. Dite loro: "È vicino a voi il Regno di Dio". Che cosa devono dire i discepoli? Essi devono soprattutto e in primo luogo annunciare il Regno di Dio, che è vicino, che è imminente, a cui tutti dobbiamo prepararci con la conversione, verso il quale dobbiamo tendere con desiderio fiducioso.LA NOSTRA PREGHIERA PER GLI APOSTOLI DEL SIGNORE Queste sono le istruzioni di Cristo a coloro che egli manda come suoi portavoce tra gli uomini. La nostra meditazione si deve ora mutare in preghiera. Preghiamo perché gli operai della vigna del Signore non manchino. Preghiamo perché siano sempre fedeli ai comandi che hanno ricevuto. Noi non abbiamo bisogno di annunciatori della parola che cambino il Vangelo con la scusa di adattarlo al nostro tempo, ma di annunciatori che tentino ogni giorno, magari riuscendoci poco, di cambiare se stessi per essere ogni giorno più conformi al Vangelo che non cambia.
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