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Author: Rame
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Rame è la serie podcast di una community che vuole sfatare il tabù dei soldi. Nasce all'interno di una piattaforma (www.rameplatform.com) che attraverso i suoi contenuti si pone l’obiettivo di avviare una rivoluzione culturale nella società, che trasformi la finanza personale in un argomento di conversazioni audaci e liberatorie. Annalisa Monfreda, ogni settimana, dialoga con un ospite diverso seguendo il filo della sua storia economica. Parlare di soldi può essere intimo e coinvolgente, rivelatorio ed eccitante. E si finisce sempre per svelare chi siamo e ciò in cui crediamo.
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Michele Bravi, classe 1994, vince X Factor all’età di 19 anni e da allora inizia una carriera luminosa nel mondo della musica. In questa puntata, per la prima volta parla di soldi. Racconta della sua infanzia con i nonni, per i quali «il lavoro è una necessità per sopravvivere e non una vocazione». Ma al tempo stesso «è più importante avere i soldi per il cinema che quelli per la merenda».
Nonostante il successo, Michele solo da pochi anni ha capito che col suo lavoro può vivere e se non avesse avuto il sostegno della sua famiglia non sarebbe arrivato fin qui. Perché se una volta con una canzone ti compravi tre palazzi, oggi se metti a segno la hit dell’estate al massimo stai comodo quell’anno lì.
C’è una narrazione falsata del mondo della musica. Nasce dal fatto che lo spettacolo racconta un sogno e le persone faticano a capire che, se fai un red carpet ricoperto di diamanti, non vuol dire che quei diamanti tu possa permetterteli. Il fraintendimento della ricchezza collegata al successo ha conseguenze anche sulle relazioni. «Ci sono tante persone che si avvicinano a te perché si immaginano un certo status. Io ho mantenuto molti miei ex, pensa che scemo…». Fare l’artista, in realtà, è come diventare un imprenditore. «Il guadagno per me è sempre stato un metro di misura per valutare l'efficacia del tuo lavoro». Il gioco è guadagnare per poter reinvestire nella qualità del tuo prodotto. E per non dover più pensare ai soldi.
Francesca Michielin cresce in una casa in cui lo studio è sacro. Il padre falegname e la madre ragioniera, avendo dovuto smettere di studiare presto per iniziare a lavorare, lasciano i figli liberi di approfondire le loro passioni, che siano gli studi universitari o quelli musicali. Di tutto il resto - shopping, vacanze - si può fare a meno. Tanto che la prima volta che vanno a cena fuori è quando Francesca supera gli esami di terza media e il fratello si laurea con una media molto alta. «È stata una cosa speciale: ho percepito la soddisfazione per il fatto che i sacrifici avevano portato a risultati importanti». Quando a soli 16 anni Francesca vince X Factor, con i soldi della vittoria si paga una scuola privata che le permette di arrivare alla maturità portando avanti l’attività lavorativa appena iniziata. «Non avrei potuto continuare nella scuola pubblica stando sempre in giro a lavorare e là mi sono accorta che con dei soldi riuscivo a pagarmi il diritto allo studio».In quegli anni, lei e i suoi genitori dicono No a tantissime proposte, rinunciando a molti soldi pur di tenere alta la qualità delle attività di Francesca. «Se avessi detto sì a tutte le proposte che mi sono arrivate all'epoca, non dico che sarei milionaria, però starei molto bene». Quello di poter scegliere è un lusso che Francesca riconosce di avere ancora adesso. Benché sia consapevole di dipendere sempre dalla sua prossima mossa e di non potersi permettere un disco che venda zero, Francesca non rinuncerebbe mai a quello che vuole comunicare. Il primo lusso che si concede quando le cose iniziano a girare bene è la psicologa («Perché purtroppo la salute mentale è ancora un privilegio», dice), ma anche un’assicurazione sulla casa e un buon materasso. «Mi sono resa conto che alla fine non avevo bisogno di chissà che cosa per stare bene».La musica è sempre stato un mondo maschile. Il gender gap salariale esiste anche qui. «Quando sono uscita da X Factor mi ricordo di alcuni eventi in cui i colleghi maschi prendevano quasi il doppio di me. Si pensava che gli artisti uomini portassero più pubblico, ma non è vero. Questo trend sta un pochino cambiando anche perché le donne si stanno affermando in maniera molto più poliedrica. Da un anno, forse un anno e mezzo, si iniziano a vedere line up al femminili o miste. Le donne si stanno riappropriando sempre di più di un potere economico che a loro spetta».
Teresa Ciabatti è una delle scrittrici italiane più lette. Una che ha il coraggio di essere scomoda, addirittura scorretta. Figlia di un medico chirurgo, Teresa cresce a Orbetello in una villa con piscina per poi trasferirsi a Roma, ai Parioli, in adolescenza. La perdita della piscina, verso i 14 anni, rappresenta una perdita di identità. «I miei amici romani venivano da me solo perché c'era la piscina. Nel momento in cui nella vita reale ho perso la piscina nessuno più mi ha cercata. E per me è stata una fortuna perché a quel punto io dovevo cercarmi un’identità vera. Tante volte penso che se non avessi perso niente, probabilmente non sarei diventata una scrittrice e non avrei avuto tutta la possibilità dell'Immaginazione. Perché se tu hai tutto, pensa quanto è ridotto il campo della possibilità».
Teresa capisce allora che il vero potere non sono i soldi, ma le relazioni. «Io con la piscina ero circondata da persone che poi subito sono sparite. Senza piscina, ci ho messo vent'anni, però ho trovato delle persone che sono ancora della mia vita». Per quanto è trasgressiva nella scrittura, Teresa è molto posata nella vita reale: odia fare shopping, non viaggia. Però il suo conto in banca parla di passioni bizzarre, come quella per le costose imitazioni delle bambole reborn, che possiede in ben sette esemplari
Con infinita tenacia, Teresa riesce a vivere della scrittura, sperimentando la perdita di libertà che porta con sé il successo, ma riuscendo comunque a tenere fede alla sua voce e ai suoi protagonisti sgradevoli, per i quali si rifiuta di disegnare una parabola evolutiva.
Oggi ha una figlia adolescente alle prese con la ricerca di identità. Una ricerca che, com’è stato per Teresa a 14 anni, passa attraverso il possesso e la condivisione di cose. Ma quello che Teresa vorrebbe insegnarle è che i soldi, specie alla sua età, sono una trappola. Per cui nascere ricchi è solo in apparenza un privilegio.
Stefania Auci è una delle poche scrittrici, in Italia, che potrebbe vivere del suo mestiere. I suoi romanzi, che attraverso le vicende della famiglia Florio raccontano due secoli di storia d'Italia, hanno venduto quasi due milioni di copie. Eppure Auci si tiene stretta il suo lavoro di insegnante. Perché «lo stipendio è sempre lo stipendio», dice. Ma anche perché «in Italia è difficilissimo vivere di cultura». Tanto più se sei una donna e tutti pensano che tu debba scrivere di sole, cuore e amore, piuttosto che di soldi. «Eppure la nostra vita, esattamente come quella di un uomo, è regolata dal peso e dal valore dei soldi». E così, l'aver cambiato "le regole" della scrittura femminile le ha fatto perdere la fiducia di affidarsi ad essa completamente.
Stefania Auci è la protagonista del terzo evento del tour Rituali di benessere finanziario, a Palermo. Ai nostri microfoni ha raccontato del costo che ha pagato per il fatto di essere donna, ma anche di come ha speso i primi soldi guadagnati con i suoi libri.
Rituali di benessere finanziario è un tour organizzato in collaborazione con Alleanza Assicurazioni e con il sostegno di Sardegna Ricerche.
Fin da quand'era studentessa all'Accademia di arte drammatica, Francesca Cavallo capisce che, a parità di talento, sul suo si sarebbe investito meno che su quello di un uomo. Così, oltre che artista, diviene imprenditrice, per occuparsi in prima persona della sostenibilità delle sue idee. Quando arriva in Silicon Valley, si scontra con ciò che tiene le donne lontane dal mondo delle startup: la mentalità predatoria, il mito del far succedere le cose a qualunque costo. Lo straordinario successo che ottiene con Favole della buonanotte per bambine ribelli, un bestseller che ha venduto 6 milioni di copie in oltre 50 Paesi del mondo, le offre l'opportunità di provare a cambiare il modo in cui si è sempre fatto impresa e di sperimentare un nuovo tipo di azienda. «Il successo economico mi ha permesso di non concentrarmi sullo sfondare un soffitto di cristallo. Ho cercato invece di costruire una casa nella quale non ci fossero soffitti da sfondare per nessuno», racconta. L'esperienza della ricchezza ha ripercussioni anche sul piano personale. «All'inizio mi sembrava di dover rappresentare il mio status». Così compra una villa a Los Angeles, diventando dirimpettaia di Bradley Cooper. Ma proprio in quel momento perde il lavoro. Potrebbe cercare un posto da Disney o Warner Bros per poter mantenere la casa, ma sceglie di non far decidere la sua vita a un oggetto immobile. Svende dunque la casa, perdendo molti soldi. «Tutti i soldi che ho perso, nella mia vita, sono stati il prezzo della mia libertà».Questa conversazione è avvenuta durante l'evento Rituali di benessere finanziario, il 6 marzo 2024 a Milano. Un evento organizzato in collaborazione con Alleanza Assicurazioni.
Cecilia arriva nello studio di Elena Carbone perché soffre di attacchi di panico da quando il padre è morto, 6 mesi fa. Attraverso la psicoterapia, riavvolge il nastro della sua vita e svela una dinamica di violenza economica in cui è incastrata da quando è nata la terza figlia e lei ha lasciato il lavoro. Psicosoldi è un podcast di Rame in cui entriamo nello studio di Elena Carbone per raccontarvi le storie di chi ha sperimentato, nella sua vita, un cortocircuito tra soldi e psiche. Questo podcast è realizzato in collaborazione con Bright Sky, l'app di Fondazione Vodafone contro la violenza di genere. Ecco il link per installarla: https://play.google.com/store/apps/details?id=com.vodafone.brightsky.it&hl=it&pli=1
Un puzzle di storie che ci raccontano come si arriva alla violenza economica. Dal rifiuto di parlare di soldi alla perdita di autonomia nello spendere, passando per salari più bassi e esclusione dal lavoro una volta divenute madri. A commentare le storie, la nostra psicoterapeuta Elena Carbone, che ci aiuta a capire come tenersi alla larga da questa subdola forma di violenza.Cecilia arriva nello studio di Elena Carbone perché soffre di attacchi di panico da quando il padre è morto, 6 mesi fa. Attraverso la psicoterapia, riavvolge il nastro della sua vita e svela una dinamica di violenza economica in cui è incastrata da quando è nata la terza figlia e lei ha lasciato il lavoro. Questo podcast è realizzato in collaborazione con Bright Sky, l'app di Fondazione Vodafone contro la violenza di genere. Ecco il link per installarla: https://play.google.com/store/apps/details?id=com.vodafone.brightsky.it&hl=it&pli=1
Giacomo ha 42 anni e lavora in banca. Quando ha 7 anni la perdita di suo fratello in un incidente distrugge la sua famiglia. Viene lasciato solo e costretto a vivere in una famiglia in cui non c’è più vita. Crescendo impara a sopravvivere trovando nel risparmio l’unica via di uscita: non spende il denaro che guadagna e il controllo che riesce ad avere sui soldi lo portano a diventare sempre più oculato nelle spese tanto da esercitare una forte pressione finanziaria sulla sua famiglia. A partire dalla profonda ferita della trascuratezza provata da bambino, insieme a Elena Carbone, Giacomo impara a lasciarsi andare e a concedersi di desiderare qualcosa e di spendere per averlo.
Davide ha 38 anni, una compagna, Sofia, con cui sta per avere un figlio, una soddisfacente carriera nel food e una vita attiva. Potrebbe sembrare tutto perfetto senonché arriva da me tramite il suo nutrizionista per una collaborazione: Davide è in sovrappeso, vorrebbe dimagrire, ma fa fatica a seguire la dieta. Non solo. Continua a fare acquisti online che si accumulano in una stanza, senza che lui neppure disfi i pacchi…
Giulia è in terapia da circa un anno per alcune difficoltà nel mantenere una relazione stabile. Ha 35 anni, è un'architetta che esercita la libera professione e da qualche tempo frequenta Andrea. All'improvviso, durante una seduta, emerge un dettaglio della sua vita che non aveva rivelato prima: ogni qualvolta arriva una lettera delle Agenzie delle Entrate che esige il pagamento delle tasse, lei finge di non averla ricevuta e va avanti con la sua vita. Scavando nel suo vissuto, questi due aspetti del suo carattere, l'incapacità di gestire le finanze e l'incostanza relazionale, si intrecciano indissolubilmente.Psicosoldi è un podcast di Rame in cui entriamo nello studio di Elena Carbone per raccontarvi le storie di chi ha sperimentato, nella sua vita, un cortocircuito tra soldi e psiche.Questo podcast è realizzato in collaborazione con Bright Sky, l'app di Fondazione Vodafone contro la violenza di genere.
Gianna viene mandata nello studio di Elena Carbone dal suo medico curante: da un po’ di mesi mangia pochissimo e le viene la nausea non appena si mette a tavola. Seduta dopo seduta emergono ulteriori dettagli. Gianna si è sposata e ha avuto due figli senza chiedersi se lo volesse: si faceva così. Gianna si cuce i vestiti in casa, non si concede neanche un caffè fuori, nonostante gudagni bene. Il suo non è un risparmio avido, focalizzato all’accumulo, ma è un risparmio di prevenzione. In questa puntata riviviamo la storia di Gianna e della sua famiglia, del percorso terapeutico che ha intrapreso e del salto nel passato che l’ha accompagnata a fare. Vedremo soprattutto come riuscirà a cambiare la sua concezione dei soldi, arrivando a pensarli come uno strumento per autorizzarsi, finalmente, a essere felice…Psicosoldi è un podcast di Rame in cui entriamo nello studio di Elena Carbone per raccontarvi le storie di chi ha sperimentato, nella sua vita, un cortocircuito tra soldi e psiche.Questo podcast è realizzato in collaborazione con Bright Sky, l'app di Fondazione Vodafone contro la violenza di genere.
Daniela Farnese scrive libri, sceneggiature, pubblicità. Ha il privilegio di fare il lavoro che ama. Ma cos’è esattamente “privilegio”? Quando era bambina, a Napoli, in un quartiere popolare, dentro un palazzo fatiscente, con una madre separata che cresceva tre figli da sola, il privilegio era il posto fisso di sua madre. Crescendo, i soldi erano sempre pochi ma il capitale sociale di sua madre proietta lei e i suoi fratelli fuori dall’ambiente in cui sono cresciuti. Laureata in Lingue Orientali e vincitrice di un concorso pubblico, si dimette e si cuce addosso la libera professione: lavora quando ha bisogno di soldi, il resto del tempo viaggia, scrive, conosce gente. Divenuta madre, decide di mettere radici e di comprare casa. Alla decima richiesta di mutuo, lo ottiene: in una società che si basa sempre più sul debito, anche l’accesso al credito è un privilegio. Se le chiedi oggi qual è il suo privilegio, Daniela ti risponde “il tempo”. Non guadagna molto, però ha tantissimo tempo libero, e questo è una parte fondamentale nell’equazione della felicità.
Lidia Vitale cresce ascoltando suo padre e suo zio litigarsi un’eredità che sarebbe arrivata 30 anni dopo. Da ragazzina vuole fare l’attrice e prende lezioni grazie ai soldi passati sottobanco dai nonni. Nessuno, in casa sua, avrebbe mai investito in una passione. «Guadagnare facendo ciò che ti piace era il demonio. E invece è molto più facile, perché sei più disposto a fare sforzi, a impegnarti, a investire». Lidia arriva al successo. Recita ne La meglio gioventù e in Suburra. Viene diretta da Sergio Castellitto, Marco Bellocchio, Paolo Genovesi… Eppure, crescendo, rifugge completamente l’argomento soldi, finendo per sentirsi a casa nella tragedia economica, che sembra non abbandonarla mai.
Un giorno frequenta un corso online di educazione finanziaria e qualcosa inizia a cambiare. Lidia scopre che i desideri hanno un potere molto più grande dei soldi in sé. «Io li esprimo, li visualizzo e lascio all'universo la possibilità di manifestare la modalità in cui si realizzeranno». Impara anche a discernere i bisogni indotti dal sistema capitalistico e quelli invece autentici. Soprattutto, impara a mettere in movimento il denaro: «I soldi ci servono per attivare la nostra creatività per un mondo migliore. Sono energia che va messa in circolo». Così, anche nei momenti più difficili come la pandemia, Lidia continua a donare il 5% di tutto ciò che guadagna. Oggi ha ben chiaro in testa il suo obiettivo. Vuole diventare la prima attrice produttrice italiana. E si appresta a produrre il suo primo cortometraggio. «Io ho il potere della visione. Questo non me lo può rubare nessuno. Ci sono stati momenti in cui ero poverissima, ma la mia visione ha creato l'abbondanza».
Camilla Ragazzi ha 36 anni e lavora come consulente legale. È cresciuta a Bologna in una famiglia che lavorava senza sosta, ma senza mai avere una riserva di sicurezza: «Ogni imprevisto, ogni incidente, era in grado di mettere in crisi l’intera famiglia. Così, crescendo, mi sono detta che la priorità nella vita è avere un backup».Dopo gli studi in giurisprudenza e l’ingresso nel pubblico impiego, un risarcimento per un incidente del padre le fa capire concretamente l’importanza di gestire e proteggere un cuscinetto d’emergenza: «All’inizio, quando ti arriva una somma di denaro, la prima domanda è: “E adesso cosa ci faccio?”. E l’incertezza spesso porta a spenderlo. Poi realizzi quanto sia importante avere una riserva che ti permetta di affrontare le difficoltà con serenità». Con Paolo, il compagno di vita, Camilla coltiva la passione per i viaggi. Dopo una vacanza in van decidono di trasformare quel sogno in un progetto duraturo: acquistano e ristrutturano un camper, mettono la casa in affitto, adottano uno stile minimalista e iniziano a investire i risparmi. Una scelta che non nasce dall’improvvisazione, ma da un’attenta pianificazione: «Abbiamo fatto un inventario dei nostri asset e pianificato come proteggere il progetto. Sapere di avere un cuscinetto ti dà la sicurezza necessaria per portare avanti davvero un sogno».Oggi Camilla e Paolo vivono viaggiando e raccontano la loro esperienza online. Per lei, il fondo d’emergenza non è più solo una rete di salvataggio, ma la garanzia che rende possibile vivere secondo i propri desideri.
Simona Cammarata ha 46 anni e vive a Ragusa, città dove è nata e cresciuta in una famiglia monoreddito, in cui solo il padre percepiva un introito fisso. Quando Simona ha 11 anni, però, il padre decide di mettersi in proprio, aprendo un’impresa. Quello che sembrava un passo verso il miglioramento delle loro condizioni si rivela una sfida piena di ostacoli. «Siamo passati da una situazione di stipendio fisso e sicurezza a dover seguire le ambizioni di mio padre».Nonostante le incertezze, le figlie riescono a iscriversi all’università: Simona sceglie Economia, mentre la sorella intraprende Veterinaria. Entrambe fuorisede a Catania. Durante gli anni universitari, Simona inizia a immaginare un futuro che va oltre i confini della Sicilia. Le sue passioni prendono forma tra le lezioni di economia dello sviluppo e le ricerche sui Paesi emergenti. Ma mentre i suoi orizzonti si aprono, l’azienda di famiglia va in crisi. Il padre vende le quote e accetta un impiego al Nord. E Simona è chiamata a gestire la situazione che lui si è lasciato alle spalle, rinunciando così ai suoi sogni. «Ricordo ancora quando, a 25 anni, neolaureata e con una preparazione solo teorica, entrai in banca a chiedere una dilazione di pagamento». Una volta laureata, sceglie la strada che le sembra più sicura: diventare commercialista. «Probabilmente, con la sicurezza di una famiglia capace di supportarmi, mi sarei sentita più libera di sperimentare, magari andando all’estero o provando altri tipi di consulenza». Simona, se non altro, prova a essere il paracadute di sua sorella, affinché almeno lei non avesse paura di realizzarsi fuori dai confini della Sicilia. «Mia sorella colse al volo l’opportunità di lavorare in Belgio e da allora non è più tornata». Dopo l’abilitazione Simona apre la partita Iva, ma continua a collaborare con altri studi. Le scelte economiche dei suoi genitori non avevano solo condizionato il suo percorso, ma anche la sua personalità, rendendola meno propensa a rischiare. «Benché avessi clienti miei, non riuscivo a sganciarmi da altri studi. Cercavo sempre di mantenere quella base che un po’ mi dava sicurezza. Non solo: accettavo lavori in maniera bulimica, anche se mi capitavano clienti problematici, prendevo tutto».Il punto di svolta arriva quando Simona affronta la gravidanza. «Mi ero accorta che non avevo più tempo né per la mia famiglia né per me, così ho deciso di rischiare: lasciare lo studio e di mettermi totalmente in proprio». A dispetto delle paure iniziali, le entrate di Simona iniziano a stabilizzarsi, permettendole per la prima volta di guardare oltre la semplice sopravvivenza economica. E di imparare a lasciare andare ciò che, pur garantendo un buon guadagno, spesso non rappresenta il giusto compromesso con il proprio benessere. «Il focus era cambiato: si trattava di scegliere incarichi che mi permettessero di gestire meglio il mio tempo, di avere tempo di qualità».
Luca Stocco ha 26 anni e vive a Torino, anche se è originario di Monfalcone, una cittadina di circa 30.000 abitanti nel Friuli Venezia Giulia. Nato e cresciuto in una famiglia umile, fin da adolescente ha un sogno chiaro: diventare batterista. Così, per sostenere la sua passione, si iscrive alla triennale in Scienze e Tecnologie Multimediali a Pordenone.Intorno ai 18-19 anni, Luca legge un libro destinato a cambiargli la vita: The Life You Can Save, del filosofo Peter Singer. Il testo affronta il tema delle disuguaglianze economiche a livello globale e pianta in Luca un seme importante. Sebbene inizialmente il libro venga messo da parte, quel pensiero rimane con lui e quando arriva il momento di scegliere la magistrale, Luca decide di abbandonare il sogno musicale e si trasferisce a Milano per iscriversi a un corso che unisce filosofia e scienze politiche, con un forte focus su filosofia politica e morale: «Leggendo e informandomi sempre di più, mi è rimasto il pensiero fisso del "forse posso fare qualcosa di più significativo" con la mia carriera. E col tempo, quella è diventata una domanda centrale per me».Durante gli studi a Milano, Luca inizia a collaborare con alcune organizzazioni benefiche e a guadagnare i suoi primi soldi. Decide così di iniziare a donare, ma non in modo casuale: scopre l’esistenza di una comunità globale di oltre 10.000 persone impegnate a donare il 10% del proprio reddito, basandosi su rigorosi criteri di costo-efficacia per scegliere a chi destinare le proprie risorse. Alcune organizzazioni, infatti, con la stessa somma riescono ad aiutare molte più persone rispetto ad altre.Proprio da questa lista, Luca seleziona le charity a cui destinare il suo 10%. «In particolare, c’è New Incentives, che incentiva i genitori a vaccinare i bambini nel nord della Nigeria, dove i tassi di vaccinazione sono molto bassi. C’è poi Helen Keller International, che distribuisce micronutrienti e integratori di vitamina A, la cui carenza è la principale causa di cecità prevenibile nei bambini. Poi, un altro tema a cui tengo molto è il benessere degli animali non umani, soprattutto negli allevamenti intensivi».Appena finita l’università, Luca decide di partecipare a un programma di incubazione per progetti ad alto impatto sociale. E dopo quest’esperienza, insieme a un socio, fonda Benefficienza, un'organizzazione non profit che ha la missione di aiutare i donatori in Italia a fare scelte più informate quando donano al fine di massimizzare l'impatto.«Quindi, di fatto, la passione che ho sviluppato negli ultimi anni, da quando ho firmato l’impegno del 10%, è stata quella di capire come fare del bene con le mie donazioni. Ora cerco di aiutare altre persone a fare la stessa cosa. Benefficenza vuole essere proprio un anello di congiunzione tra i donatori in Italia e tutte queste ricerche a livello globale, che permettono di fare scelte molto più informate e, di conseguenza, potenzialmente centuplicare l’impatto generato senza spendere un euro in più».
Ingrid Leka ha 45 anni e vive a Milano. La sua storia, però, comincia dall’altra parte dell’Adriatico, in Albania, dove ha trascorso i primi tredici anni di vita. Nel 1993, insieme alla madre e al fratello, raggiunge il padre in Italia, sbarcato a Bari due anni prima.Cresciuta in un paese comunista, dove ogni aspetto della vita era controllato dallo Stato, Ingrid ricorda una gestione familiare del denaro estremamente attenta: «Durante la mia infanzia non ho mai percepito ansia legata al denaro. Quello che ho sentito, invece, è stata la mancanza di beni materiali. Ma era una mancanza che prescindeva dai soldi: anche se li avevi, non era detto che potessi comprare ciò che volevi». Anche dopo l’arrivo in un Paese dove il consumo è non solo libero ma incentivato, in casa Leka rimane un approccio sobrio e misurato: «Siamo sempre stati abituati a guardare prima il prezzo, e questa abitudine mi è rimasta. Ancora oggi non provo un vestito se prima non so quanto costa».Le sue scelte scolastiche rispondono allo stesso principio: assicurarsi un futuro indipendente, con una stabilità economica. Per questo sceglie Economia, e dopo la laurea in Bocconi entra subito nel mondo del lavoro. Dopo alcune esperienze in Italia, JP Morgan la chiama a Londra per un ruolo ad alta specializzazione. È l’ingresso in un mondo di opportunità, responsabilità e — per la prima volta — benessere economico tangibile.Dopo cinque anni in Inghilterra, Ingrid sceglie di tornare in Italia, dove vive il suo compagno, per costruire una famiglia. È il primo cambio di rotta per la sua carriera: si mette in proprio e l’attività di consulenza finanziaria le permette di diventare madre di tre figli. Ma il lavoro da libera professionista non si rivela soddisfacente — né dal punto di vista economico, né da quello personale. Ed è proprio in quell’inquietudine che germoglia una nuova possibilità: dare spazio alla creatività ed esplorare il mondo dell’arte. Con i soldi messi da parte negli anni a JP Morgan, prende in affitto uno spazio e apre il suo laboratorio. Intanto cerca di farsi conoscere, tra social e piccole esposizioni.Questo passaggio è reso possibile sia dalla sicurezza economica costruita in vent’anni di carriera, sia dalla sensazione di aver in qualche modo adempiuto al proprio “dovere” sociale. «Oggi mi sento libera: mi sono sposata, ho avuto i figli, ho messo da parte un po’ di soldi. E adesso posso permettermi di fare ciò che desidero. Voglio fare l’artista, e così faccio».Una scelta che Ingrid considera educativa anche per i suoi figli. «Sono felice che crescano esposti alle mie difficoltà economiche — perché, al momento, vendo pochi pezzi - ma anche alla mia realizzazione. Paradossalmente, oggi mi riconosco più valore come artista di quanto me ne riconoscessi come consulente finanziaria».
Arianna Porcelli Safonov, oggi scrittrice, autrice comica e storyteller, ha iniziato come project manager di grandi eventi. Titoli roboanti e paga minima: venti ore di lavoro al giorno per 950 euro nella Roma del 2010. Dopo l’ennesima notte in cui apre gli occhi sul sedile di un taxi senza ricordare la destinazione, strozzata dall’“apnea professionale”, decide che l’unico aumento possibile è mollare. Si trasferisce così a Madrid che le restituisce un salario decente e la piena possibilità di goderlo grazie al basso costo della vita. A un certo punto decide di riprovare a vivere in Italia. Non torna a Roma, bensì affitta un fienile in Appennino, in un borgo di sei anime ai confini tra Piemonte, Liguria e Lombardia. È lì, in quello spazio essenziale e silenzioso, che nasce Fottuta Campagna, il libro con cui racconta con disincanto la vita fuori dalle città.In campagna, il suo rapporto con il denaro cambia radicalmente: «Lì ho scoperto che il mio reale guadagno è la mancata spesa. E che c'è una sezione primitiva del nostro organismo che ci consente di sopravvivere anche senza le ciabattine antiscivolo o la piastra per i capelli». Oggi la comicità di Arianna è uno strumento affilato per riflettere su mode, costumi, contraddizioni e assurdità quotidiane. Ma è anche un modo per interrogarsi sul ruolo dell’arte nel presente, in un contesto in cui la libertà espressiva è spesso subordinata alla logica del consenso. «Il problema dell’arte, in Italia almeno, non è la precarietà, ma il fatto di non essere più libera», sottolinea. «Non c’è denaro che possa restituire la libertà di espressione a determinati contesti dove l’arte cerca ancora di fare il proprio. Più che il conformismo trovopericoloso il presunto anticonformismo. Cioè la presentazione che adesso si sta facendo di un contesto accogliente e inclusivo, dove in realtà c'è una censura bianca che è estremamente più pericolosa. Spesso ho avuto anche io la tentazione di autocensurarmi, non per ottenere più lavori, ma sul palco, perché ho sentito la pesantezza di una minaccia non verbale, che accade ovviamente nei contesti istituzionali».
Federica Falzea ha 43 anni, vive a Milano ma è nata e cresciuta a Lecce in una famiglia dove l’istruzione è sempre stata il vero motore di riscatto sociale. Figlia di due medici, Federica sceglie un approccio più olistico alla cura: va a studiare osteopatia a Milano, trovando alloggio presso una congregazione di suore, dove per la prima volta entra in contatto con la vita religiosa. Dopo quattro anni di studio, la svolta. Decide di lasciare la scuola per entrare in convento, dove trascorre nove anni studiando Psicologia Giovanile e Teologia. Col tempo, però, la spinta iniziale inizia ad affievolirsi e Federica decide di lasciare la vita religiosa per riprendere gli studi di osteopatia. In tre anni conclude la scuola, apre uno studio, si sposa e ha due figli.Tutto procede bene fino al 2022, quando le viene diagnosticato un tumore al peritoneo. Durante l’intervento le vengono asportati anche utero e ovaie e, dopo l’operazione, cominciano sintomi molto potenti: confusione, sbalzi d’umore, sudorazione e insonnia, inizialmente attribuiti all’intervento.Nella casa di cura dove è stata operata, nessuno la informa che la rimozione degli organi riproduttivi avrebbe causato una menopausa chirurgica precoce. Solo in seguito, grazie alla sua ginecologa, arriva la diagnosi corretta e l’inizio della terapia ormonale sostitutiva, la TOS. Federica sta meglio, ma si ritrova ad affrontare un nuovo ostacolo: i costi.La terapia, infatti, è tutta a carico suo. Tra farmaci, pomate specifiche e fisioterapia riabilitativa legata ai sintomi della menopausa, la spesa arriva facilmente a superare i 3.000 euro all’anno. Una cifra significativa, soprattutto se si considera che molte di queste cure non sono un “di più”, ma un’esigenza per continuare a vivere bene. I costi della menopausa non si fermano però alle terapie: si riflettono anche sul lavoro. Le donne affrontano questo passaggio fisiologico nel momento di massima responsabilità e rendimento professionale. Secondo uno studio anglosassone, ogni anno le donne in menopausa si assentano dal lavoro per una media di 24 ore, causando una perdita economica stimata in 15 milioni di euro. E se lavori in proprio, come Federica, il prezzo si misura in termini di mancato guadagno: «Io, da agosto del 2022, dopo circa cinque mesi, ho ripreso a lavorare. Cinque mesi senza alcuna entrata, senza alcun guadagno».Così, per contrastare anni di invisibilità e disinformazione, Federica e un’amica, Silvia, decidono di dare vita a MenoP: un progetto che vuole rompere il tabù attorno alla menopausa e dare finalmente voce a un’esperienza femminile ancora troppo spesso ignorata. Insieme organizzano focus group e incontri nelle aziende, portando formazione e consapevolezza dove ancora mancano strumenti e parole: «Cerchiamo di offrire una narrazione della menopausa diversa da quella che ci viene solitamente proposta, una narrazione in cui possiamo davvero riconoscerci e sentirci coinvolte».
Giulia Spina ha 42 anni, ed è metà imprenditrice, metà dipendente. È cresciuta a Torino, in una famiglia benestante ma segnata dalla memoria di chiusure d’azienda e prudenza finanziaria. Dopo aver conseguito un dottorato in Fisica e aver trascorso alcuni anni felici in un’azienda aeronautica, Giulia e suo marito decidono di trasferirsi in Francia, a Clermont-Ferrand, città natale di lui, nel cuore della “Diagonale du Vide” francese. Qui, benché fatichi a creare una rete di amicizie, Giulia trova le condizioni ideali per tirare fuori l’idea green chiusa in un cassetto da anni: un depuratore d’aria che sfrutta le piante per pulire l’acqua e restituire agli ambienti interni un “microbiota da bosco”.«Mi sono trovata in un momento in cui Macron ha deciso che la Francia dovesse diventare la start-up nation… e ho detto: “O la faccio adesso, o non la farò mai più”». Si licenzia e si dedica alla sua idea. Una scelta resa possibile dalla misura che garantisce due anni di disoccupazione a chi avvia un’attività in proprio. «In Francia, ancora prima di aver creato l’azienda, sei considerato “portatore di progetto” e puoi già fare domanda per ottenere delle sovvenzioni». Giulia presenta il progetto, ottiene 20mila euro dei 30mila necessari a realizzare il prototipo. Gli altri 10mila li ottiene con un borsa regionale. E così si dedica allo sviluppo di tre prototipi. Le difficoltà non mancano: «Realizzare e testare i prototipi è costoso. Inoltre, bisogna capire se il mercato è pronto: a volte un prodotto può funzionare perfettamente, ma non incontrare interesse, o viceversa risultare troppo costoso per il mercato».Oggi Giulia finanzia il suo progetto con un prestito d’onore da 120.000 euro dalla Banque Publique d’Investissement (BPI), una banca pubblica francese che sostiene le start-up accettando l’alto rischio di fallimento. «Il mio sogno sarebbe portare questo sistema anche in Italia, perché finanziare l’innovazione è sempre una scommessa: nove volte su dieci non va a buon fine, ma è un rischio che bisogna accettare».Finiti i due anni di disoccupazione, Giulia ha trovato un lavoro stabile in un’azienda idroelettrica, che le ha permesso di riequilibrare anche la vita familiare. «Mi stavo ritrovando a fare quasi solo la casalinga, ero io a dover andare a prendere i bambini a scuola perché "avevo più tempo libero". Ora la situazione è più equilibrata e per i nostri figli è importante passare tempo con entrambi i genitori».Con un misto di ansia e determinazione, Giulia continua a investire parte del suo stipendio nel suo progetto: «Per me è un investimento sul futuro, un’attività in cui credo. Ho imparato ad accettare che, anche se non dovesse andare a buon fine, va bene così: l’importante è provarci».
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