Ho da poco, o da molto, iniziato a riflettere sul fatto che la h è una lettera davvero importante. Ma proprio una roba che cambia il senso delle cose, che svolta la comprensione e il giudizio su quello che ascolti o leggi, che poi quando ascolti è muta, fa poca differenza, ma senti nella faccia se qualcuno sta usando o no le “H” al posto giusto e al momento giusto. Non serve che mi metto a spiegare di più, più approfonditamente che parlo di tutte quelle situazioni in cui pensiamo vada usato il verbo avere al presente che richiede la “H” e tutte quelle volte in cui abbreviamo un oppure che invece non la richiede, e tutte le altre situazioni sullo stesso genere. Un po’ come la “e” con o senza accento dai.
Mi sono chiesto più volte se esista un modo per darsi una mossa quando non ne hai voglia, ci ho anche fatto più di qualche episodio sulla voglia di fare, magari criticando gli altri ma ammetto che anche io non sono un fiero rappresentante del fare in anticipo. Insomma, mi sono chiesto più volte come fare a smuoversi prima che sia troppo tardi o per lo meno prima che sentiamo sia troppo tardi.
Ci sono storie che mi mettono il magone. Non il mago grande, il magone inteso come nodo alla gola. Quelle cose che non riesci a digerire, che ti creano delle disfunzioni digestive che vorresti poter eliminare, ma siccome non ce la fai il tuo corpo reagisce in altro modo, magari piangendo o con lo stomaco rivoltato o con delle sensazioni che difficilmente riesci a spiegare.
Fare strada per me è sempre stato un criterio fondante del vivere la giornata. Sarà che vengo da posti dove anche a 50km sei un vicino di casa, mica come nelle grandi città dove 500m possono determinare un cambio di fuso orario dovuto a traffico e posizioni geografiche e identità di quartiere. Dalle mie parti 50km sono la strada che potresti fare per prendere un aperitivo con degli amici o un semplice posto di lavoro che non verrebbe considerato fuori sede. Dalle mie parti ti sposti da una provincia all’altra un po’ come andare in piazza al tuo paese, anzi, è più facile che vai a farti un giro in una provincia vicina piuttosto che andare in piazza.
Ho da poco, si anch’io a volte ci metto un po’, capito, o meglio ricevuto un’illuminazione, un’epifania. Che non è quella che tutte le feste si porta via, che ormai per quest’anno ce la siamo dimenticata e se riparla il prossimo anno. Ho avuto un’epifania rispetto ad una roba che mi porto dietro da una vita, l’ho spiegata in cento modi diversi, ci ho pure scritto sopra come se fosse, è sono convinto che lo sia, un diritto fondamentale dell’essere umano. Ho avuto una rivelazione rispetto al sogno.
Quando ero più giovane non avevo grosse difficoltà a distinguere destra e sinistra, non ero uno di quelli che dovevano guardarsi le mani per capire da che parte era l’una e da che parte fosse l’altra. E di che ero, e sono, uno di quelli che partiva svantaggiato perché damascano me lo ricordo bene il neurone solitario che si incastrava nell’ascoltare chi si riferiva ad una ed una sola mano giusta, che però era per me delle due la mano tonta e incapace di rendersi utile al sistema.
É da un bel po’ ormai che siamo qui a dirci quali problemi si possono avere se ci si dedica a tutto fuorché all’ordine di ciò che riguarda noi stessi. I piatti che vanno lavati più che quotidianamente che generano un ordine di cui siamo naturali portatori o nemici. I panni che sono periodicamente fondamentali che precedono molte fasi diverse d’ordine e di attenzione, che ci permettono di fare riflessione e analisi che scandiscono la nostra vita, le nostre scelte e le nostre evoluzioni. Ma sono i pavimenti quelli che ci lasciano vedere il senso complessivo di energie sparse in casa. L’ordine generale delle cose. L’ordine acquisito dallo stile di vita.
Una volta mi hanno chiamato per propormi di finire dietro ad un mixer a fare il tecnico. Stavo lavando i panni e mi sono particolarmente innervosito perché in realtà io volevo finirci davanti al mixer, sul palco, a cantare e suonare come qualsiasi adolescente che abbia voglia di raccontarsi un po’ e che abbia avuto la fortuna di essere stato spedito da un’insegnante di pianoforte fin da quando aveva 6 anni. Un’insegnante che ad ogni stonatura lo prendeva a ceffoni sulla nuca, che magari sono la causa della mia imbecillità. Ma al di là della storia specifica, proviamo a immaginare un qualsiasi adolescente che per sbaglio si sia trovato in mano una chitarra da €19,90 comprata in offerta, o allarghiamolo a quelli che hanno iniziato i propri studi ritmici con le pentole che Mastrota vendeva in tv. Allarghiamo anche a chi canta sotto la doccia usando lo shampoo come microfono.
Ognuno di noi ha senza alcun dubbio bisogni differenti nel corso della propria vita e anche nel corso di ogni singola giornata. Questo spesso si traduce nel cercare di condividere i propri bisogni e provare a comprendere quelli dell’altro, spesso. Non sempre però A volte il nostro bisogno consiste proprio nel non preoccuparsi del bisogno di altri e qualche altra volta di non dar peso ai propri.
Siamo in dubbio su cosa significa rispetto ormai da troppo in questo tempo. Usare le parole Tempo e Rispetto nella stessa frase non è affatto una scelta casuale, soprattutto detto da uno che non è proprio un master della puntualità eppure credo e riconosco che ci siamo delle dimensioni nel concetto di ritardo che possono essere separate in base all’effetto che produce su chi sta aspettando.
Affrontiamo giorno per giorno cose che non ci permettono di condividere fino in fondo ciò che pensiamo perché altrimenti ci bruciamo la possibilità di realizzare quello che sogniamo perché proprio essere trasparenti ci mette in piazza e ci fa diventare vulnerabili. È la fiducia lo strumento con cui diventiamo trasparenti con qualcuno, che gli permettiamo di vederci sognatori e vulnerabili, di poter far di noi quello che vuole, anche se ci fidiamo possa solo farci del bene. Tutti abbiamo sperimentato situazioni in cui non tutto va come sperato e in cui la sfiducia si fa spazio tra le variabili della serata.
Come si fa a conoscerci? Io non sono colui che io dico di essere e non sono neanche quello che credo di essere e non sono neanche quello che gli altri pensano che io sia. Io non sono la professione che faccio. Prima di farlo non lo ero, lo faccio ma non lo sono. E allora cosa sono? Chi sono?
Il numero 112 mi fa pensare a quanto sia interessante il processo mentale attraverso il quale il nostro cervello immagazzina informazioni e quanto diventi difficile per lui modificare delle informazioni radicate nel tempo.
Avere voglia di muoversi, di sentire il pensiero correre, il fluire degli eventi. Avere voglia di stare fermi nella corsa, nell’ossimoro della staticità sulla terra, la rotazione terrestre. Avere voglia di correre sul posto, senza un luogo, senza una meta, con gli occhi fissi su un orizzonte inavvicinabile. Avere voglia di guardare oltre l’orizzonte per seguirne un altro, un altro, e un altro, senza mai aspettarsi l’ultimo. Avere voglia di stare, dove capita, quando capita, senza routine. Avere voglia di abitudini e routine nel fluire dell’imprevisto, nella normalità dell’imprevedibile. Avere voglia di essere colti alla sprovvista, impreparati ogni giorno con puntualità. Essere organizzati e avere voglia di disorganizzarsi per cercare un altro ordine anomalo qui, logico lì, sconosciuto un po’ dove capita. Essere disordinati per lasciare il segno con le tracce più strane, insolite, uniche, perché il disordine non piò copiare, emulare, ripetere, neanche dal suo creatore. Essere in giro, nella steppa o nella foresta, con lo zaino o con un mezzo, da soli o nella gioia in compagnia e nel progetto, della vita, quello che vuoi, quella che insegni. Che vuoi, che insegni, che desideri, che raggiungi all’orizzonte. Per me essere nomade è così, è studiarsi negli ossimori, nei paradossi, nelle rivelazioni e nei luoghi tutti tuoi allo stesso modo. Essere nomade è non avere una casa ma essere a casa ovunque. Non avere un auto ma poter essere esattamente dove vuoi quando lo vuoi, e quando non puoi, con i tempi giusti trovare un modo lo stesso. Saper risolvere i problemi è un prerequisito per starci, incontrarne nuovi dei quali non si conosce soluzione fa parte degli obiettivi. Essere strani fa parte del gioco, a volte piaci, a volte no. Il punto è che comunque vada ti resta sempre la voglia di stare in un flusso di flussi anche quando ti sembra di non fare nulla o di essere in attesa e in una situazione priva di movimento fisico spaziale. Ma la mente è là, da qualche parte a cercare, a farsi incuriosire, anche nel solito posto.
Stavo lavando i piatti quando mi è arrivato un messaggio, e ci metto sempre un po’ a collegare che il messaggio non era di quelli visibili su uno schermo. Ma comunque stavo lavando i piatti e ho preferito finire quello che stavo facendo, così me lo sono perso.
Ogni condivisione ha il suo prezzo, non deducibile e non riducibile. Ogni volta che decidiamo di condividere qualcosa questo porta con sé un effetto su di noi e sugli altri che non possiamo evitare di tenere in considerazione. Quando siamo in un gruppo di amici possiamo condividere informazioni della nostra vita lavorativa personale e qualsiasi altra cosa. Quando condividiamo o riceviamo condivisioni emotivamente rilevanti e tutto dipende dal livello di fiducia che tiene insieme il gruppo o gli elementi al suo interno.
Ci si ritrova in tempo di creazioni senza aver idea di finirci dentro. Abbiamo un problema di energie creative quando stabiliamo una scadenza poi involontariamente quando non è il tempo giusto ci viene fuori tutto quello che dovevamo o volevamo creare. Sbalzi emotivi e condizioni particolari della nostra vita quotidiana impattano in modo ancora più forte di quello che ci aspettiamo però dobbiamo saper ascoltare la situazione.
Ci sono parametri che per ognuno di noi hanno un significato più grande del gesto in sè. Forse connessi al senso che per noi ha quello’azione, anzi quasi sicuramente è lì lo snodo chiave per un’azione che per me ha grande valore e sono pronto a darle il medesimo valore se fatta da un altro. Ci sono molti esempi che si possono fare e ognuno ha sicuramente i suoi, mandatemeli se volete che ci riflettiamo su. Intanto io parto con un esempio che per me è più determinante di altri.
Qualche tempo fa scrissi, come contributo alla ricerca di un’amica, una riflessione sul prendersi cura in teatro. Quella volta consideravo il teatro come parametro del quale prendersi cura sotto vari punti di vista, con il bisogno di non perderne per strada nessuno altrimenti tutti ne avrebbero risentito. Considerare il teatro come sistema sinergico e simbiotico e questo mi aiutò a definire il senso di cura e anche a darmi una efficace spiegazione alla definizione di salute che ci offre l’organizzazione mondiale della sanità.
É un tema fondamentale da ben prima che i Queen ci scrivessero la famosissima canzone. Per chi lavora in campo teatrale è uno degli assiomi fondamentali per poter dire in qualche maniera che te la sei portata a casa.