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A chi parlano oggi i musei etnografici? Prendendo le mosse dalla rappresentazione identitaria dell’altro, Adama Sanneh riflette sulla possibilità del museo etnografico di far invertire lo sguardo del visitatore, per riscoprire qualcosa di noi e della nostra storia.
Luca Peretti passa in rassegna molti film, da “Petrolio nelle dune” (1967, produzione Eni), che rimuove completamente il colonialismo in Libia, fino a “Tolo Tolo” (Checco Zalone, 2020), che mette a nudo le forme della colonialità che ancora infestano il nostro presente.
Come fare del museo etnografico un laboratorio di decolonizzazione? Wissal Houbabi affronta la necessità di rimettere in discussione l’idea eurocentrica di museo, sottolineando l’importanza di avviare un lavoro a stretto contatto con le comunità di riferimento.
A partire da esempi concreti di progetti e laboratori, Jana Johanna Haeckel parla del concetto di opacità quale principio che aiuta a vivere e condividere la diversità culturale, abbandonando le visioni semplificatrici e ingannevolmente “trasparenti”.
Che differenza c’è tra colonialismo e colonialità? Come ridistribuire risorse e potere in un museo etnografico? Mackda Ghebremariam Tesfaù riflette sulla decolonializzazione dei musei e sull’importanza degli spazi vuoti, al di là delle pratiche di restituzione delle opere.
Sembra un’etichetta innocente, eppure il nome è anche un atto di potere: la pratica coloniale di dare nomi a luoghi, gruppi umani o campioni botanici ha aiutato il colonialismo e la sua narrazione. Beatrice Falcucci riflette sull’atto del (ri)nominare sotto questa luce.
Nel progetto “Harnet Streets: contro-mappe eritree in Roma”, Tezeta utilizza l’odonomastica come stimolo narrativo per tracciare una mappa urbana fatta di contro-narrazioni per leggere, in controluce, la storia del colonialismo italiano in Eritrea.
Nelle collezioni e nei musei etnografici c’è bisogno di ridefinire gli spazi. Clémentine Deliss immagina un terzo spazio in cui far dialogare tra loro gli artefatti, uno spazio di ricerca al di fuori delle pratiche consumistiche e della pubblica esposizione di oggetti.
Maria Thereza Alves legge dal suo libro “Thieves and Murderers in Naples” (2020), in cui rievoca la storia del museo di Villa Pignatelli a Napoli, ripercorrendo le vicende che hanno unito il quinto discendente di Hernán Cortés, invasore del Messico, e la famiglia Pignatelli.
La scrittrice italo-somala Ubah Cristina Ali Farah riflette sugli stretti legami tra la storia contemporanea e l’eredità coloniale a partire dal suo componimento poetico Axum e dal suo racconto “La danza dell’orice”.
Nell’episodio d’apertura, un contributo a più voci, il direttore del Goethe-Institut Italia Joachim Bernauer delinea la cornice del progetto, le curatrici Viviana Gravano e Giulia Grechi espongono le idee ispiratrici della mostra e dei podcast e le rappresentanti del MuCiv Gaia Delpino e Rosa Anna Di Lella ripercorrono la storia dell’ex Museo coloniale, interrogandosi su come trasformare un museo etnografico in un laboratorio di decolonizzazione.
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