DiscoverThe Yacht Lounge Podcast
The Yacht Lounge Podcast
Claim Ownership

The Yacht Lounge Podcast

Author: Yacht Lounge Tales

Subscribed: 0Played: 0
Share

Description

Yacht Lounge explores stories behind yachts, luxury objects, and style choices through immersive audio interpretations. An independent podcast by Roberto Franzoni & Andrea Baracco, offering authentic insights beyond commercial logic.
Learn more and subscribe for free at yachtlounge.substack.com

yachtlounge.substack.com
10 Episodes
Reverse
Prologo: La dimensione dell’impossibileNovantanove metri di acciaio, teak e ambizione nel 1954 non erano semplicemente “grandi”. Erano un’anomalia. Erano una provocazione fisica alla scala umana del lusso.Quando il Christina solcava il Mediterraneo, gli altri yacht sembravano tender da diporto. Era come portare un teatro dell’opera in mezzo al mare — e infatti, era esattamente quello che era.Ma il vero genio non stava nelle dimensioni. Stava in ciò che quelle dimensioni permettevano.I. Il laboratorio sociale: dove le gerarchie si dissolvevanoA terra, esistono protocolli. Sale separate per capi di Stato, tavoli riservati per industriali, zone blindate per teste coronate.Sul Christina, tutto questo collassava.Winston Churchill beveva ouzo con marinai greci.Maria Callas cantava mentre Greta Garbo fumava in silenzio nell’angolo.John Kennedy ascoltava aneddoti di guerra mentre Jackie prendeva il sole con gli altri ospiti.Frank Sinatra e Marilyn Monroe si mescolavano a magnati del petrolio.Non era democrazia. Era un esperimento controllato di prossimità forzata.Novantanove metri sono abbastanza grandi da ospitare il potere, ma abbastanza piccoli da impedire la fuga. A bordo, non esistevano uscite di sicurezza sociali. Dovevi restare, interagire, negoziare la tua presenza.Il paradosso della distanzaLo yacht era lontano dalla terraferma, quindi lontano da giornalisti, da cronache ufficiali, da verbali.Ma proprio per questo diventava il luogo dove accadevano le cose vere:* Gli accordi che non potevano essere firmati in un ufficio* Le alleanze che non potevano essere fotografate* Le conversazioni che non sarebbero mai finite in un memorandumEra il backstage del XX secolo. E Onassis ne era il custode.II. La corte galleggiante: Onassis come regista invisibileAristotele Onassis non era un armatore. Era un direttore di casting della storia.Sapeva chi far salire a bordo, quando, e con chi. Ogni invito era una mossa. Ogni cena, una scacchiera.La drammaturgia del bar della balenaIl leggendario Ari’s Bar — con i tavolini illuminati che mostravano la storia della navigazione, i famosi sgabelli ricoperti in pelle di balena, l’atmosfera da confessionale del potere — non era kitsch. Era teatro puro.Quel bar diceva: “Qui le regole normali non valgono”.E infatti:* Churchill vi passava ore, bicchiere in mano, a raccontare la guerra con una franchezza che non avrebbe mai avuto a Downing Street. Tra il 1958 e il 1965 tornò otto volte — era l’unico ospite per cui Onassis cedeva la sua suite.* JFK e Churchill si incontrarono per la prima volta proprio lì, nel 1958. Jackie scherzò che Churchill aveva scambiato Kennedy per un cameriere per via della sua giacca bianca da sera.* Richard Burton ed Elizabeth Taylor vi trascorrevano serate davanti al camino del salone Lapis, trasformando ogni weekend in un dramma privato.Non era ospitalità. Era regia.Il potere di chi controlla lo spazioOnassis aveva capito una cosa fondamentale: chi controlla l’ambiente, controlla la conversazione.A terra, un capo di Stato può sempre andarsene, un magnate può sempre chiamare il suo ufficio, un’attrice può sempre ritirarsi in camerino.Sul Christina, l’unica via d’uscita era il mare. E Onassis era il capitano.III. Il ribaltamento dei rapporti di forzaEsiste un momento, a bordo di uno yacht, in cui il passeggero più potente del mondo si rende conto di una cosa:Non è più lui a comandare.Churchill, l’ospite ricorrenteWinston Churchill — l’uomo che aveva guidato un impero in guerra — saliva sul Christina e diventava... un ospite.Non nel senso formale, ma in quello psicologico.Dipendeva da Onassis per il tragitto, per la rotta, per il menu, per la compagnia. E in quella dipendenza simbolica si creava una relazione inedita: il magnate greco che offriva protezione (narrativa, scenica, sociale) al leone britannico.Churchill non aveva bisogno dello yacht. Ma voleva quel mondo. Voleva quel senso di sospensione. Voleva quella libertà di essere semplicemente Winston, senza dover essere Churchill.La biblioteca dello yacht porta ancora oggi il suo nome, in onore di quelle ore passate a leggere e dormire tra i libri, lontano dai riflettori.Kennedy: il futuro presidente in provaQuando John F. Kennedy salì sul Christina — ancora senatore, ancora in ascesa — non stava solo facendo una crociera.Stava entrando in un’altra orbita sociale. Stava venendo osservato, valutato, presentato.Nel 1959, durante il secondo incontro con Churchill (questa volta su richiesta dell’anziano statista), Kennedy parlò delle sue ambizioni presidenziali e del problema della sua fede cattolica. Churchill rispose: “Se questo è l’unico problema, puoi sempre cambiare religione e restare comunque un buon cristiano” — provocando una risata di Kennedy.Onassis sapeva che quel giovane democratico americano poteva diventare qualcosa. E lo mise in scena. Lo fece interagire con industriali europei, con intellettuali, con vecchi lupi di mare della politica.Il Christina non era neutrale. Era un filtro, un setaccio dove il potere futuro veniva testato sotto gli occhi del potere presente.IV. La grande mondanità del mare: l’invenzione di un generePrima del Christina, il lusso nautico era una questione di eleganza britannica, di regate royal, di panfili sobri e silenziosi.Dopo il Christina, il lusso nautico diventò teatro sociale.L’estetica dell’eccesso intelligenteOnassis non costruì uno yacht discreto. Costruì uno yacht narrativo.Ogni dettaglio era progettato per essere raccontato:* I rubinetti placcati in oro (sì, erano veri)* Le mosaici di Creta nei bagni — la vasca di Onassis ispirata a quella del mitico Minosse* Il camino di Lapis Lazuli nel salone* La piscina con mosaici minoici sul fondo che si trasformava in pista da ballo con un pannello mobile (meccanismo originale del 1956, funzionante ancora oggi)Non era cattivo gusto. Era narrazione materiale. Ogni oggetto diceva: “Qui succede qualcosa di epico”.E la stampa internazionale lo confermava. Ogni volta che il Christina attraccava, i fotografi erano già lì.L’invenzione della “jet set aquatica”Il Christina ha creato un’estetica che ancora oggi domina:* Lo yacht come status symbol supremo* Il Mediterraneo come palcoscenico estivo del potere* La barca come luogo dove le cose accadonoPrima c’erano navi da crociera e panfili privati.Dopo, c’erano yacht come luoghi mitologici.Sul Christina si celebrarono due dei ricevimenti di nozze più famosi del secolo: quello del Principe Ranieri e Grace Kelly, e quello di Onassis stesso con Jackie Kennedy nel 1968.V. Gli attori inconsapevoliLa cosa più affascinante del Christina è che i suoi ospiti non sapevano di recitare.Greta Garbo pensava di essere in vacanza. In realtà era parte di una coreografia più grande. Occupava la cabina Ithaca — quella di Christina Onassis — ogni volta che saliva a bordo.Maria Callas credeva di essere lì per amore. In realtà era l’icona perfetta per completare il cast. Amava rilassarsi sul ponte poppiero, vicino alla piscina con i mosaici cretesi.Jackie Kennedy pensava di fuggire dal lutto. In realtà stava entrando nel capitolo più fotografato della sua vita.Onassis aveva capito che il vero potere non è far fare alle persone ciò che vuoi tu.È creare un ambiente dove le persone fanno esattamente ciò che vuoi, credendo che sia stata una loro scelta.Epilogo: Il teatro che continuaAlcuni yacht sono finiti nei musei. Altri sono stati smantellati.Il Christina ha attraversato morti e rinascite.Alla morte di Onassis nel 1975, lo yacht passò a sua figlia Christina e a Jackie Kennedy. Entrambe rifiutarono l’eredità. Il governo greco lo ribattezzò Argo e lo lasciò decadere fino agli anni ‘90.Nel 1998 lo salvò John Paul Papanicolaou, amico della famiglia Onassis, che lo restaurò completamente tra il 1999 e il 2001 nei cantieri Viktor Lenac in Croazia. Gli restituì il nome Christina O — la “O” in tributo ad Onassis.Oggi il Christina O naviga ancora. È disponibile per charter di lusso a circa 700.000-740.000 euro a settimana, può ospitare 34 ospiti in 18 cabine, e continua ad attirare chi vuole camminare sui ponti dove hanno camminato giganti.L’Ari’s Bar è intatto. I mosaici minoici della piscina sono stati restaurati. Il salone Lapis Lazuli dove Jackie e Ari celebrarono il loro ricevimento è ancora lì. La biblioteca di Churchill conserva il suo nome.Nel 2022 lo yacht è apparso in Triangle of Sadness, film vincitore della Palma d’Oro. Nel 2023 Rupert Murdoch lo ha noleggiato per una riunione di famiglia a Positano.Il Christina O non è un relitto del passato.È un teatro ancora in funzione, dove chi sale a bordo continua a recitare — spesso senza saperlo — la stessa scena che recitarono Churchill, Kennedy, Callas e tutti gli altri.Perché la sua eredità non è negli oggetti. È nel modello.Ha dimostrato che:* Il lusso può essere un linguaggio politico* Lo spazio può ribaltare i rapporti di forza* Il mare può essere il set perfetto per riscrivere le gerarchie terrestriOnassis non ha solo comprato uno yacht.Ha inventato un genere: la mondanità galleggiante come forma di potere.E per qualche decennio, su quei novantanove metri di teatro ambulante, il mondo ha recitato la sua parte migliore — senza sapere che qualcuno, dal ponte di comando, stava dirigendo ogni scena.by Andrea Baracco(English Follows)Hai apprezzato questo articolo? Condividilo con chi potrebbe amarlo quanto te!Iscriviti a Yacht Lounge, è gratuito. Un click ti apre un mondo di racconti autentici, lontani dai soliti schemi.Christina. The Theater Of Power.Prologue: The Dimension of the ImpossibleNinety-nine meters of steel, teak, and ambition in 1954 weren’t simply “large.” They were an anomaly. A physical provocation to the human scale of luxury.When the Christina sailed through the Mediterranean, other yachts looked like recreational tenders. It was like bringing an opera house to sea—and in fact, that’s exactly what it was.But the true genius wasn’t in the dimensions. It was in what those dimensions allowed.I. The Social Laboratory: Where Hierarchies Dissolved
L'avvocato e il vento.

L'avvocato e il vento.

2025-11-2812:45

🇮🇹 🇺🇸Bilingual content: Italian first, English followsGianni Agnelli e il mare: ritratto di una libertàUn taglio spiccatamente “marino” valorizza perfettamente l’unicità teatrale e naturale di Gianni Agnelli: l’uomo libero, agile e insieme carismatico, che lasciava il segno a bordo quanto a terra. La barca diventa la sua vera passerella, lo spazio dove la sua leggendaria disinvoltura — anche con un semplice asciugamano — si componeva con la natura, l’adrenalina, la leggerezza e l’effimera bellezza del vento.Agnelli e la barca, sintesi di disinvolturaA bordo, Agnelli incarnava la libertà assoluta: era famoso per i suoi bagni improvvisati in mare anche vestito solo di jeans e per l’insofferenza alle formalità persino in presenza di ospiti illustri. Un asciugamano, a volte nemmeno quello e l’aria scandita da battute fulminanti. Bastava la sua presenza per conferire “icona” a una scena marinara semplice, in cui ogni gesto — lo spruzzo del mare, la postura sul timone, la scelta di mollare la barca all’istante se annoiato — diveniva leggenda.“Sto arrivando”, annunciava, e quella macchina perfetta che erano i suoi marinai si metteva in moto, con qualsiasi tempo, a qualsiasi ora. Così lo ricorda Alfredo Alocci, che fu il suo capomarinaio per trentacinque anni e che raccolse in un libro la testimonianza di un “grande amore per il mare” fatto di partenze improvvise, bonacce fuggite, vento cercato con l’istinto di chi sa che quella sarà la giornata giusta.Un giorno, al largo di Corfù, Agnelli si avvicinò a uno Swan in difficoltà. Il comandante urlò di non avvicinarsi troppo. L’Avvocato rispose tranquillo, poi chiese se avessero bisogno di aiuto. La risposta fu un gesto eloquente. Agnelli sorrise: “Bene. Con questo vento oggi c’è da divertirsi”. E riprese il largo.Il mare come destino estetico e culturaleAgnelli non amava la barca per la contemplazione; cercava vento e adrenalina, manovrando spesso in condizioni difficili e scegliendo sempre la velocità come cifra stilistica. Le sue barche — Agneta, Capricia, Extra Beat, Stealth — sono oggetti di stile e di tecnica, fatte costruire secondo richieste ardite e dettagli anticonvenzionali.Agneta, lo yawl di venticinque metri disegnato dallo svedese Knud Reimers che tenne dal 1959 al 1984, aveva vele rosso cupo — color vinaccia, dicevano alcuni — in anni in cui tutte le barche navigavano rigorosamente con vele bianche. Lo scafo color mogano, gli alberi in spruce, la coperta in teak: Agneta era un manifesto di eleganza anticonformista, tenuta per venticinque anni come si tiene un vestito perfetto che non passa mai di moda.Capricia, progettata dallo studio Sparkman & Stephens e costruita in Svezia nel 1963 interamente in legno — quercia bianca per la struttura, mogano per il fasciame, teak per la coperta — vinse il Fastnet in tempo reale nello stesso anno. Agnelli la tenne fino al 1993, quando la regalò alla Marina Militare che ne fece una nave scuola. Ma quando vendette la barca che l’aveva preceduta, Extra Beat, impose al nuovo armatore una sola condizione: non venire mai a navigare in Mediterraneo. Il Mare Nostrum era il suo, e non tollerava sovrapposizioni.Extra Beat era stata costruita in Germania nel 1988 dal cantiere Abeking & Rasmussen su progetto di German Frers: trentasei metri di lunghezza, albero di quarantanove metri. Mai prima uno scafo aveva avuto un timone così grande in alluminio e carbonio, né la capacità di pompare sei tonnellate d’acqua nei serbatoi di zavorra da un lato all’altro in meno di sessanta secondi. Era tecnologia pura, velocità allo stato liquido.Ma fu con Stealth che Agnelli tradusse definitivamente in materia la sua ossessione per la velocità. Nel 1996 chiamò ancora German Frers e gli disse: “La barca sarà nera e si chiamerà Stealth. Voglio semplicemente divertirmi e provare piacere nel navigarla. E la voglio finita entro sei mesi!”. Il nome venne dall’aereo da guerra invisibile ai radar, tutto nero: Agnelli voleva il nome e il colore di quell’arma che era tecnologia. Ventisei metri in carbonio, albero di trentasei metri, unico vezzo la coperta in teak. I carichi sullo scafo a quindici nodi erano due volte e mezzo superiori a quelli di uno yacht normale. Nel 1998 Stealth stabilì il record Marsiglia-Cartagine con una media di 15,77 nodi, un primato che resiste ancora oggi. Nel 2001 vinse il Fastnet e la Jubilee Regatta attorno all’isola di Wight con un equipaggio stellare condotto da Ken Read. Agnelli non era a bordo e non partecipò alla premiazione al Royal Yacht Squadron, che se ne offese. Ma l’Avvocato non aveva bisogno di trofei: aveva già vinto quando la barca aveva toccato l’acqua.Storie, aneddoti, icone del MediterraneoSui suoi yacht, vestiva di nulla, serviva acciughe e champagne a signore abituate alle cene di gala, improvvisava ricette con pescato fresco, e animava regate e traversate con una naturale teatralità che metteva tutti a proprio agio, o li costringeva a improvvisare — come l’amico americano costretto a saltare in mare per farsi recuperare dal tender quando l’avvocato decideva di chiudere la giornata. Le sue mete marine preferite erano le baie tra Cap Ferrat, le isole Lerins, l’Eden Roc ad Antibes, Calvi in Corsica, Maiorca e Formentera, e la riservatezza delle acque greche di Skorpios.La “leggenda” marinara: Azzurra e la Coppa AmericaLa vera eredità marinara di Agnelli sta nell’aver reso la barca un set estetico, in cui ogni minuto di posa era autentico, ogni gesto iconico involontariamente. Ma c’era anche altro: la capacità di “incastrare” con carisma i grandi personaggi e sponsor, senza mai perdere l’ironica leggerezza.Il progetto Azzurra nacque così, in una telefonata antelucana tra Agnelli e l’Aga Khan. “È ora di tentare la Coppa America”, disse l’Avvocato, consapevole della difficoltà ma determinato. In realtà ci pensava dal 1960, quando con Beppe Croce era uscito a Newport con JFK. Ma aveva due dubbi: non voleva metterci tutti i soldi da solo e pensava che l’Italia non avesse ancora il know-how. Così quando arrivò il momento giusto, nel 1980, Agnelli chiamò Pasquale Landolfi e Mario Violati e mise in moto la macchina. Lui contribuì solo con un diciottesimo del budget, composto da altri diciassette sponsor. Il progetto fu affidato allo studio Vallicelli, la costruzione ai cantieri Cobau di Pesaro. Azzurra fu varata il 19 luglio 1982.Azzurra arrivò terza alla Louis Vuitton Cup, vincendo ventiquattro regate su quarantanove. Non vinse, ma non fece nemmeno la figura dei dilettanti. Come disse Cino Ricci: “Come mi aveva chiesto l’Avvocato Agnelli, non abbiamo fatto la figura dei cioccolatai”. E Agnelli, che pure aveva infranto il patto che nessuno fuori dall’equipaggio potesse uscire con la barca — Ricci dovette tenere nascosti agli altri sponsor le scappatelle al largo di Porto Cervo — aveva ottenuto quello che cercava: portare l’Italia sulla scena mondiale della vela, con stile e senza imbarazzo.L’eredità del ventoCon l’abitudine di uscire solo se c’era vento, di lasciare immediatamente la barca se la bonaccia lo annoiava, Agnelli traduceva l’imprevedibilità e la rapidità tipica del vento in uno stile di vita e di presenza scenica. La barca era scena, il mare destino estetico e umano. Ogni dettaglio — dalle vele color vinaccia di Agneta allo scafo nero come un caccia stealth, dall’asciugamano annodato sulle spalle alla decisione di regalare Capricia alla Marina — era parte di un racconto più grande: quello di un uomo che aveva fatto della libertà una forma d’arte, e del mare il suo palcoscenico più autentico.Gianni Agnelli non ha semplicemente amato il mare: lo ha abitato con la stessa disinvoltura con cui portava l’orologio sopra il polsino della camicia. Ha rappresentato il fascino irripetibile di un’epoca in cui lo stile non era una posa ma una necessità interiore, in cui la velocità era ricerca estetica prima che sportiva, e in cui bastava un gesto — un tuffo vestito, una battuta fulminante al timone, la scelta di vele rosse quando tutti navigavano in bianco — per diventare leggenda. Il vento, effimero e imprevedibile come lui, ne resta il simbolo perfetto.by Andrea Baracco(English Follows)Hai apprezzato questo articolo? Condividilo con chi potrebbe amarlo quanto te!Iscriviti a Yacht Lounge, è gratuito. Un click ti apre un mondo di racconti autentici, lontani dai soliti schemi.The Sailing Life of Gianni Agnelli.Portrait of a Man Who Made Freedom an Art FormGianni Agnelli—Italian industrialist, Fiat patriarch, and perhaps the most stylish man of the twentieth century—left his mark on land as much as at sea. But it was aboard his yachts that his legendary nonchalance truly came alive, where a simple towel draped over his shoulders, the spray of the Mediterranean, and the ephemeral beauty of wind composed a life of absolute freedom.Agnelli and the Boat: A Synthesis of EaseAboard, Agnelli embodied freedom in its purest form. He was famous for diving into the sea fully dressed in jeans, for his impatience with formality even in the presence of distinguished guests. A towel—sometimes not even that—and the air punctuated by razor-sharp quips. His mere presence turned a simple maritime scene into an icon, where every gesture—the splash of seawater, his posture at the helm, his choice to abandon ship the instant boredom struck—became legend.“I’m on my way,” he would announce, and that perfect machine that was his crew would spring into action, in any weather, at any hour. So remembers Alfredo Alocci, who served as his chief boatswain for thirty-five years and documented in a book this “great love for the sea”—a love made of sudden departures, escaped calms, wind sought with the instinct of one who knows this will be the right day.One day, off Corfu, Agnelli approached a Swan in distress. The skipper yelled at him not to come too close. Agnelli replied calmly, then asked if they needed help. The response was an eloquent gesture. Agnelli smiled: “Good. With this wind, today’s going to be fun.” And he sailed on.The Sea as Aesthetic
🇮🇹🇺🇸 Bilingual content: Italian first, English followsL’uomo del lagoNel 1962, Carlo Riva aveva quarant’anni. Quarant’anni è l’età in cui un uomo sa chi è, cosa vuole, e quanto pesa sulle sue spalle il nome che porta. Per Carlo, quel nome pesava 120 anni di storia: dal 1842, quando il suo bisnonno Pietro aveva fondato un piccolo cantiere sul Lago di Como, riparando barche di pescatori e costruendo a mano le prime imbarcazioni. Quattro generazioni di Riva che avevano fatto del legno e dell’acqua la loro ragione di vita.Ma Carlo non voleva solo continuare una tradizione. Voleva scrivere un nuovo capitolo, uno che il mondo non avrebbe dimenticato. Aveva ereditato dal padre Serafino non solo l’azienda, nel frattempo trasferitasi a Sarnico sul Lago d’Iseo, ma un’ossessione: ogni barca doveva essere perfetta, ogni dettaglio doveva raccontare una storia. Il legno non era solo materiale da costruzione, era pelle. I motori non erano solo meccanica, erano cuore. E una barca non era solo un mezzo di trasporto – era un modo di vivere.Guardando il Tritone, il modello che dal 1950 aveva portato il nome Riva nei porti più esclusivi d’Europa, Carlo sapeva che poteva fare di più. Doveva fare di più. Il mondo stava cambiando, veloce come mai prima. E lui voleva che il suo nome, il nome di famiglia che portava dal 1842, diventasse sinonimo non solo di qualità, ma di desiderio.L’epoca che cambiava tuttoIl 1962 non era un anno qualunque. Era l’anno in cui l’Italia smetteva definitivamente di essere il Paese della ricostruzione e diventava il Paese del sogno. Le autostrade collegavano Nord e Sud, la televisione entrava in ogni casa, la Vespa dava mobilità ai giovani, il cinema di Fellini mostrava al mondo che la Dolce Vita non era solo un titolo di film, ma un modo di essere.E poi c’era il Mediterraneo. Le coste della Liguria, la Costa Azzurra, stavano diventando i palcoscenici di una nuova aristocrazia – non quella dei titoli nobiliari, ma quella dello stile. A Saint-Tropez, Brigitte Bardot camminava scalza sul pontile, incarnando una libertà che un’intera generazione stava scoprendo. A Portofino, yacht eleganti ormeggiavanо sotto all’Hotel Splendido, mentre Gianni Agnelli definiva con il suo stile inconfondibile cosa significasse vera eleganza. Ad Antibes, Sean Connery, fresco del successo di James Bond, scopriva che il vero lusso non urlava, sussurrava.In quegli anni, possedere un Riva non significava solo avere una barca bella. Significava appartenere a un circolo invisibile ma riconoscibilissimo: quello di chi aveva capito che la vita andava vissuta con eleganza, non con ostentazione. Con discrezione, non con rumore. Con sostanza, non con apparenza.Carlo Riva lo capiva. Lo sentiva. Quelle persone – le star del cinema, gli industriali, gli artisti – non cercavano solo un oggetto. Cercavano un riflesso di sé stessi, un’estensione del proprio stile di vita. Volevano qualcosa che dicesse al mondo: “Io so cosa conta davvero.”Lipicar: il quaderno di appunti galleggianteCarlo prese il Tritone numero 214 e lo ribattezzò Lipicar. Il nome veniva dalle iniziali delle sue due figlie, Lia e Pia, e dalla sua stessa iniziale. Non era solo un omaggio familiare, era un manifesto: questa barca era personale, intimamente legata alla sua vita, al suo cuore. Non era un esperimento industriale, era il suo sogno che prendeva forma.Lipicar divenne il suo laboratorio vivente. Lo usava per tutto: collaudi tecnici sul lago, prove con clienti selezionati che voleva conquistare personalmente, sessioni fotografiche per cataloghi che dovevano essere opere d’arte, non semplice pubblicità. E lo usava per le vacanze in famiglia, navigando sulle acque del Lago d’Iseo con le figlie a bordo, provando ogni dettaglio, ogni soluzione, ogni comfort.Perché Carlo aveva capito una cosa fondamentale: per costruire un oggetto che le persone avrebbero amato, doveva prima amarlo lui stesso. Doveva sentire sulla propria pelle ogni difetto, ogni possibile miglioramento. Il prendisole del Tritone era solo un cuscino, utilizzabile quando la barca era all’ancora. Carlo volle di più: creò uno spazio scavato sopra il vano motore, protetto, dove le figlie potevano crogiolarsi al sole anche durante la navigazione. Non era un accessorio tecnico, era un gesto d’amore.I sedili anteriori furono separati per dare libertà di movimento. La poppa venne ripensata con un passaggio antiscivolo per facilitare la risalita dopo il bagno – perché ogni momento a bordo doveva essere piacere, non fatica. Il musone di prua divenne più affusolato, più aggressivo, quasi una dichiarazione d’intenti: questa barca voleva andare avanti, sempre più avanti.E poi c’era il mogano. Carlo selezionava personalmente ogni tavola, studiava ogni venatura, ordinava di lucidare ogni centimetro fino a quando il legno non diventava liquido sotto la luce. Non era falegnameria, era scultura. Non era produzione, era devozione.Iscriviti a Yacht Lounge, è gratuito. Un click ti apre un mondo di racconti autentici, lontani dai soliti schemi.Novembre 1962: nasce l’AquaramaQuando nell’autunno del 1962 Carlo Riva presentò l’Aquarama al Terzo Salone Internazionale della Nautica di Milano, sapeva di avere tra le mani qualcosa di speciale. Il nome stesso era una provocazione elegante: “Aquarama” evocava il Cinerama, quegli schermi panoramici americani che stavano rivoluzionando il cinema. Il parabrezza avvolgente abbracciava chi era al timone esattamente come quegli schermi giganti avvolgevano gli spettatori. Solo che qui il film era la vita stessa.Otto metri e due centimetri di seduzione pura. Ogni dettaglio sussurrava lusso senza mai urlarlo: il cruscotto in mogano con il volante Chrysler personalizzato, la capotte a mantice, la scaletta da bagno, gli interni in pelle. E sotto il ponte, due motori Crusader V8 da 185 cavalli che spingevano questo capolavoro fino a 40 nodi. Il sound era inconfondibile – un brontolio profondo che annunciava l’arrivo prima ancora che la barca fosse visibile.Il mercato rispose immediatamente. Ventuno esemplari venduti già nel 1963. Ma i numeri raccontavano solo una parte della storia. L’altra parte la raccontavano le fotografie che cominciarono ad apparire sulle riviste: Brigitte Bardot con gli occhiali da sole a bordo di un Aquarama a Saint-Tropez, il sorriso complice di chi sa di essere nel posto giusto. Sophia Loren a Portofino, Sean Connery ad Antibes, tra un film di Bond e l’altro. E Anita Ekberg con i sedili zebrati, fatti apposta per lei, e Peter Sellers con Britt Ekland. L’Aquarama era diventato il protagonista silenzioso della Dolce Vita.Il piacere di vivereL’Aquarama non era trasporto, era teatro. Ogni arrivo in un porto era una scena, ogni partenza una promessa. Carlo aveva capito qualcosa che andava oltre l’ingegneria: aveva capito che le persone non comprano oggetti, comprano emozioni. Comprano l’idea di chi potrebbero essere, di come potrebbero vivere.Possedere un Aquarama significava entrare in quel mondo dorato che si muoveva tra Saint-Tropez, Portofino, Cannes, Antibes. Significava condividere un codice non scritto: qualità sulla quantità, discrezione sull’apparenza, sostanza sullo show. Significava appartenere a quell’élite invisibile ma riconoscibilissima che aveva scelto di vivere la vita come un’opera d’arte.E Carlo era lì, al centro di tutto questo. Non come un semplice costruttore di barche, ma come un artigiano del desiderio. Ogni Aquarama che usciva dal cantiere di Sarnico portava con sé un pezzo della sua visione, del suo amore per la perfezione, del suo rispetto per una tradizione che dal 1842 aveva fatto del nome Riva sinonimo di eccellenza.Le sue barche non erano produzione di massa, erano artigianato industrializzato – quel paradosso tutto italiano dove ogni componente era intercambiabile, ogni esemplare controllato con ossessione maniacale, eppure ognuno conservava un’anima unica. Non barche da sostituire ogni stagione, ma oggetti da tramandare di generazione in generazione.L’eredità di un sognatoreDal 1962 al 1996, l’Aquarama continuò a evolversi. Arrivarono le versioni Super, Special, Lungo – 769 esemplari in totale attraverso tutte le varianti. Tra questi, uno merita un racconto a parte: l’Aquarama Lamborghini del 1968, commissionato da Ferruccio Lamborghini che volle qualcosa di unico. Due motori V12 da 350 cavalli derivati dalla Lamborghini 350 GT. Il suono era apocalittico, il ruggito baritonale dei V12 riempiva le banchine. Era il Riva più veloce mai costruito – un ibrido perfetto tra la visione di Carlo e il genio automobilistico di Ferruccio.Ma la vera eredità di Carlo Riva non si misura in numeri o in velocità. Si misura in quella sensazione che provi ancora oggi quando un Aquarama entra in un porto e il tempo si ferma. Le conversazioni si interrompono. Gli smartphone si alzano. Perché quello che passa non è una barca d’epoca – è un frammento di un’epoca che non è mai davvero finita.Carlo Riva non costruì solo barche. Costruì il riflesso di un’idea: che la vita può essere vissuta con bellezza, che il lusso vero è precisione non ostentazione, che lo stile è sostanza non decorazione. Costruì oggetti che incarnavano il piacere di vivere – quel piacere che Bardot, Connery e migliaia di altre persone cercavano nelle acque turchesi del Mediterraneo.Sessantatré anni dopo, quella promessa continua a navigare. Lucida come il mogano al tramonto, eterna come l’idea di perfezione che l’ha generata. E ogni volta che senti quel brontolio profondo di un Aquarama che lascia il molo, senti ancora la voce di Carlo Riva che sussurra: “Non per apparire, ma per vivere davvero.”Perché alcune cose non passano mai di moda. Semplicemente, splendono. Come splendeva il Lago d’Iseo quando nel 1842 Pietro Riva fondò il primo cantiere a Sarnico. Come splende ancora oggi, quando un Aquarama attraversa quelle stesse acque, portando con sé la memoria di Carlo – l’uomo che trasformò una tradizione di famiglia in leggenda, credendo che la bellezza fosse l’unica via.In occasione del 63° anniversari
🇮🇹🇺🇸 Bilingual content: Italian first, English followsQuando pensiamo ai modelli più iconici della storia dell’automobile, immaginiamo ingegneri geniali o designer visionari. Raramente ci soffermiamo su chi, in silenzio, ha saputo leggere i desideri del pubblico prima ancora che il pubblico li esprimesse. Uno di questi uomini è stato Max Hoffman, importatore austriaco naturalizzato americano, che negli anni ‘50 e ‘60 riuscì a orientare i grandi marchi europei verso creazioni leggendarie.Le Origini: Da Vienna alle CorseMaximilian Edwin Hoffman nacque a Vienna il 12 novembre 1904, da madre cattolica e padre ebreo. Il padre gestiva inizialmente un negozio di alimentari che trasformò in un’attività manifatturiera, producendo macchine da cucire e biciclette. Ma il giovane Max aveva nel sangue qualcosa di diverso: la passione per la velocità.Fin da giovane, Hoffman iniziò a correre con auto e motociclette. Divenne pilota ufficiale per Amilcar in Francia, acquisendo un’esperienza diretta delle automobili che andava ben oltre la semplice vendita. Nel 1934, a soli trent’anni, decise di ritirarsi dalle competizioni per fondare “Hoffmann & Huppert”, diventando uno dei primi importatori europei per marchi come Volvo, Rolls Royce, Bentley, Delahaye e Talbot.La Fuga dall’Europa e il Nuovo InizioMa la storia di Hoffman prende una svolta drammatica. Le origini ebraiche del padre lo rendevano un bersaglio nell’Austria degli anni ‘30. Con l’ascesa del nazismo, Hoffman fu costretto a fuggire, lasciandosi tutto alle spalle. Arrivò negli Stati Uniti in cerca di salvezza, e lì - come tanti emigranti - dovette ricominciare da zero.Nel 1947, in un’America affamata di novità dopo la guerra, Hoffman aprì “Hoffman Motors” a New York. La sua prima conquista fu Jaguar, di cui divenne importatore esclusivo dal 1948 al 1952. Ma era solo l’inizio.Il Genio dell’AscoltoQuello che rendeva Hoffman diverso da qualsiasi altro importatore era la sua capacità unica: ascoltava. Passava le giornate nei suoi showroom eleganti, conversando con clienti facoltosi, capendo cosa desideravano, cosa mancava nel mercato americano. E quello che scoprì fu rivoluzionario.Gli americani, soprattutto in California, volevano auto sportive europee, ma con caratteristiche specifiche: più accessibili, più semplici, più adatte al clima e allo stile di vita americano. Hoffman non si limitò a vendere ciò che i costruttori europei producevano. Fece qualcosa di più audace: disse loro cosa dovevano costruire.Le Auto LeggendariePorsche 356 SpeedsterFu lui a convincere Porsche a realizzare la 356 Speedster: un’auto più semplice, più sportiva e più economica, pensata per il mercato californiano, affamato di modelli scoperti. Hoffman capì che i giovani americani volevano l’essenza della sportività tedesca, senza fronzoli né comfort superflui. Volevano il vento tra i capelli e prestazioni pure. Senza quella visione, forse non avremmo avuto una delle icone assolute della sportività tedesca, un’auto che oggi vale cifre astronomiche e rappresenta l’età dell’oro delle sportive leggere.Mercedes-Benz 300 SL “Ali di Gabbiano”Nel 1952, Hoffman ottenne i diritti esclusivi di importazione per Mercedes-Benz nella costa orientale degli Stati Uniti. Ma non gli bastava vendere le berline di lusso tedesche. Hoffman suggerì - anzi, convinse - Mercedes-Benz a costruire una coupé speciale basata sulla W194 da corsa, che sarebbe diventata la 300 SL “Ali di gabbiano”, una delle auto più desiderate al mondo.La 300 SL debuttò al New York Auto Show del 1954 e fu una rivelazione. Con le sue iconiche porte ad apertura verso l’alto, il telaio spaceframe innovativo e il motore a iniezione diretta, rappresentava il perfetto connubio tra tecnologia da competizione e fascino stradale. Hoffman ne ordinò mille esemplari prima ancora che Mercedes iniziasse la produzione. Fu un azzardo che pagò enormemente.BMW 507 e la Rinascita di BMWFu anche un interprete decisivo per BMW. Nel 1954, quando BMW stava appena riprendendo la produzione automobilistica dopo la guerra, Hoffman li spinse a sviluppare una roadster sportiva, la BMW 507, come alternativa più accessibile alla 300 SL. Sebbene la 507 non raggiungesse mai il successo commerciale sperato (era comunque costosa), divenne un’icona di design e dimostrò che BMW poteva competere nel segmento delle sportive di lusso.Ma l’influenza di Hoffman su BMW non finì lì. Fu strumentale nello sviluppo della serie BMW 2002 negli anni ‘60, l’auto che praticamente definì il concetto di “berlina sportiva” e che stabilì BMW come marchio premium negli Stati Uniti. Hoffman rimase importatore esclusivo BMW fino al marzo 1975, mantenendo questo rapporto più a lungo di qualsiasi altro.Un Portfolio StraordinarioOltre a questi capolavori, Hoffman importò negli Stati Uniti anche Alfa Romeo, Fiat, Austin-Healey, e molti altri marchi europei. Il suo showroom sulla Park Avenue divenne un luogo leggendario, dove l’élite newyorkese veniva a scoprire il meglio dell’automobilismo europeo.Il Metodo Hoffman: Marketing Ante-LitteramHoffman non disegnava né progettava. Faceva qualcosa di più prezioso: ascoltava e traduceva.Il suo mestiere era capire le persone, intercettare i segnali deboli del mercato e tradurli in richieste concrete per le case automobilistiche. In questo senso fu un pioniere del marketing ante-litteram: non si limitava a vendere auto, ma insegnava ai marchi a creare quelle giuste.Quando parlava con i costruttori europei, Hoffman non parlava solo di numeri o di specifiche tecniche. Parlava di stili di vita, di aspirazioni, di come gli americani volevano sentirsi quando guidavano. Capiva che un californiano non aveva bisogno di un tettuccio rigido quando il sole splendeva 300 giorni all’anno. Capiva che l’americano medio voleva sentirsi parte dell’eleganza europea, ma senza i compromessi.L’EreditàLa storia di Max Hoffman ci ricorda che l’innovazione non nasce solo nei laboratori o negli studi di design, ma anche nella capacità di leggere i comportamenti, intuire i desideri, trasformare le aspirazioni in prodotti concreti.Hoffman morì nel 1981, ma le sue creazioni continuano a dominare le aste e i musei automobilistici. Ogni 300 SL che attraversa un palco d’asta facendo notizia, ogni Speedster restaurata con amore maniacale, ogni BMW 507 che fa girare la testa: tutto questo porta l’impronta invisibile di un uomo che capì l’America meglio degli stessi americani.Nel 1989, è stato giustamente inserito nella Automotive Hall of Fame, un riconoscimento postumo per un uomo che aveva letteralmente cambiato il volto dell’industria automobilistica senza mai disegnare una singola linea o progettare un singolo motore.ConclusioneIn fondo, il lusso stesso è questo: un dialogo tra ciò che si sogna e ciò che qualcuno ha il coraggio di realizzare.Max Hoffman non fu un costruttore, né un ingegnere, né un designer. Fu qualcosa di più raro e prezioso: fu un traduttore di sogni. Capì che tra l’ingegneria tedesca e i desideri americani c’era un ponte da costruire, e lui fu quell’architetto invisibile.La sua lezione è attuale ancora oggi: nel mondo del business, spesso il vero valore non sta nel creare prodotti, ma nel capire profondamente cosa vogliono le persone, anche quando loro stesse non lo sanno ancora.E quando incontrate una 300 SL con le sue ali di gabbiano alzate verso il cielo, o una Speedster che sfreccia lungo la Pacific Coast Highway, ricordate: dietro quella bellezza c’è la visione di un uomo che sapeva ascoltare.by Andrea Baracco(English Follows)Hai apprezzato questo articolo? Condividilo con chi potrebbe amarlo quanto te!Iscriviti a Yacht Lounge, è gratuito. Un click ti apre un mondo di racconti autentici, lontani dai soliti schemi.Max Hoffman: How to Transform Dreams into Legendary Cars.When we think of the most iconic models in automotive history, we imagine brilliant engineers or visionary designers. We rarely dwell on those who, quietly, knew how to read the public’s desires even before the public expressed them. One of these men was Max Hoffman, an Austrian-born American importer who, in the 1950s and ‘60s, managed to steer major European brands toward legendary creations.The Origins: From Vienna to RacingMaximilian Edwin Hoffman was born in Vienna on November 12, 1904, to a Catholic mother and Jewish father. His father initially ran a grocery store that he transformed into a manufacturing business, producing sewing machines and bicycles. But young Max had something different in his blood: a passion for speed.From a young age, Hoffman began racing cars and motorcycles. He became an official driver for Amilcar in France, gaining direct experience with automobiles that went far beyond simple sales. In 1934, at just thirty years old, he decided to retire from competition to found “Hoffmann & Huppert,” becoming one of the first European importers for brands like Volvo, Rolls Royce, Bentley, Delahaye, and Talbot.The Flight from Europe and the New BeginningBut Hoffman’s story takes a dramatic turn. His father’s Jewish origins made him a target in 1930s Austria. With the rise of Nazism, Hoffman was forced to flee, leaving everything behind. He arrived in the United States seeking safety, and there—like so many immigrants—he had to start from scratch.In 1947, in an America hungry for novelty after the war, Hoffman opened “Hoffman Motors” in New York. His first conquest was Jaguar, for which he became the exclusive importer from 1948 to 1952. But it was only the beginning.The Genius of ListeningWhat made Hoffman different from any other importer was his unique ability: he listened. He spent his days in his elegant showrooms, conversing with wealthy clients, understanding what they wanted, what was missing in the American market. And what he discovered was revolutionary.Americans, especially in California, wanted European sports cars, but with specific characteristics: more accessible, simpler, better suited to the American climate and lifestyle. Hoffman didn’t just sell what European manufactu
🇮🇹🇺🇸 Bilingual content: Italian first, English followsC’è qualcosa di ipnotico nel modo in cui la serie The Woman in Cabin 10, prodotta da Netflix, trasforma uno yacht in un labirinto di mistero.La storia parte come un reportage di viaggio e finisce come un incubo riflesso sull’acqua.Keira Knightley interpreta Laura “Lo” Blacklock, giornalista in cerca di riscatto, invitata a bordo di un superyacht per un viaggio esclusivo tra le coste del Nord Europa. Lusso, silenzio, mare aperto. Finché, nella notte, qualcosa accade: una donna scompare — o forse no — dalla cabina accanto alla sua.Da quel momento, la linea tra realtà e paranoia si confonde, come il confine tra mare e cielo.Un set reale: il SavannahA ospitare le riprese è stato Savannah, un superyacht di 83,5 metri costruito nel 2015 da Feadship per l’imprenditore tedesco Lars Windhorst.È stata la prima imbarcazione ibrida della sua categoria, un esperimento visionario di equilibrio tra potenza e silenzio, tra ingegneria e arte del design.Le linee esterne portano la firma di De Voogt Naval Architects e CG Design, che ha curato anche gli interni: spazi continui, superfici in vetro e dettagli metallici che catturano ogni riflesso del mare.Savannah può ospitare 12 persone in sei cabine, assistite da 24 membri d’equipaggio.La sua caratteristica più iconica è la Nemo Lounge, un salone subacqueo con una grande vetrata sotto la linea di galleggiamento — un punto d’osservazione sospeso tra sogno e vertigine.Nel 2016 ha vinto il World Superyacht Award come Motor Yacht of the Year, diventando uno dei progetti più premiati di Feadship.Non sorprende che il regista Simon Stone l’abbia scelto come ambientazione per The Woman in Cabin 10: la sua eleganza quasi irreale racchiude perfettamente l’essenza del film — bellezza, isolamento, inquietudine.Non un set ricreato in studio, ma un vero gioiello di ingegneria e design, con pareti di vetro, interni che riflettono ogni movimento del mare e una lounge sommersa — la Nemo Room — che permette di osservare il mondo subacqueo da sotto la linea dell’acqua.Girare lì dentro non è stato semplice.Il team di produzione doveva muoversi con estrema cautela: non toccare nulla, non graffiare, non lasciare tracce. Ogni superficie era sacra.Il regista Simon Stone ha raccontato di aver scelto lo yacht proprio per la sua “perfezione inquietante”, per quel senso di eleganza che si trasforma facilmente in claustrofobia.Ma il titolo nasconde una curiosità.Nel romanzo di Ruth Ware da cui la serie è tratta, Cabin 10 è la cabina di una nave da crociera di lusso immaginaria, non di uno yacht.È il luogo da cui la protagonista crede di aver visto un delitto, ma che — secondo gli altri — non esiste affatto.Quando Netflix ha deciso di spostare la storia a bordo di un superyacht reale, il titolo è rimasto invariato, come un segno simbolico: Cabin 10 non indica un numero, ma uno stato mentale.È lo spazio del dubbio, dell’illusione e della paura — perfettamente coerente con l’atmosfera sospesa del Savannah.Lusso e silenzio, la combinazione perfetta per un incuboDurante le riprese nel Portland Harbour, in Inghilterra, le condizioni meteorologiche hanno reso tutto più teso: vento, pioggia, il mare che non smette mai di muoversi.Keira Knightley ha rivelato che alcuni membri del cast soffrivano il mal di mare, specialmente nella celebre room of doom, una stanza con pareti di vetro in continuo movimento.Eppure, proprio quella fragilità — il lusso che vacilla, la calma che si incrina — dà al film la sua forza visiva.Lo yacht, come in altre produzioni recenti (Triangle of Sadness, The White Lotus), non è solo uno sfondo: è un personaggio, un organismo vivo.Racconta la solitudine di chi ha tutto, l’illusione del controllo, la linea sottile tra privilegio e prigionia.La superficie e l’abissoForse è questo il vero tema di The Woman in Cabin 10: la distanza tra ciò che brilla e ciò che si nasconde sotto.Savannah è l’incarnazione di un paradosso — un’architettura perfetta che galleggia sul vuoto.Il mare non perdona chi lo guarda solo come una cornice estetica: lo costringe a fare i conti con sé stesso.In questo, la serie parla anche a noi.A chi osserva il mare non solo come un luogo, ma come uno stato mentale.A chi sa che il lusso, quando smette di essere rumore, diventa una forma di introspezione.“Il mare non è un rifugio. È uno specchio.”by Andrea Baracco(English Follows)Hai apprezzato questo articolo? Condividilo con chi potrebbe amarlo quanto te!Iscriviti a Yacht Lounge, è gratuito. Un click ti apre un mondo di racconti autentici, lontani dai soliti schemi.The Woman in Cabin 10: A Superyacht Suspense.There’s a haunting elegance to The Woman in Cabin 10, Netflix’s latest psychological thriller set aboard a superyacht that feels more like a floating dream—or a trap.What begins as a glamorous travel assignment quickly spirals into a waking nightmare. Laura “Lo” Blacklock, played by Keira Knightley, is a journalist chasing redemption. She’s invited on an exclusive voyage through Northern Europe aboard one of the world’s most sophisticated yachts. The setting? Impeccable. The silence? Almost sacred. Until one night, a woman vanishes—or maybe she never existed at all.From that moment, reality fractures. The sea becomes a mirror, paranoia its reflection.Savannah: A Vessel of ParadoxThe yacht isn’t a set—it’s real. The 83.5-meter Savannah, built by Feadship in 2015 for German entrepreneur Lars Windhorst, is a masterpiece of hybrid engineering and design. It’s the first of its kind: a silent powerhouse that balances innovation with artistry.Designed by De Voogt Naval Architects and CG Design, Savannah’s interiors are a study in fluidity—glass walls, metallic accents, and seamless transitions that echo the movement of the ocean. It hosts 12 guests across six cabins, attended by a crew of 24. But its crown jewel is the Nemo Lounge: a submerged salon with panoramic views beneath the waterline. It’s part observatory, part hallucination.In 2016, Savannah won the World Superyacht Award for Motor Yacht of the Year. Director Simon Stone chose it not for convenience, but for its “unsettling perfection”—a place where beauty becomes claustrophobic, and silence breeds suspense.Cabin 10: A State of MindInterestingly, Ruth Ware’s original novel was set on a fictional luxury cruise ship. Cabin 10 was never meant to be a real location—it was a metaphor, a space of doubt and illusion. Netflix’s decision to shift the story to a superyacht adds layers of intimacy and isolation. The title remains, not as a number, but as a psychological threshold.Cabin 10 is where perception falters. Where privilege becomes prison. Where the line between surface and abyss disappears.Filming on the EdgeProduction took place in Portland Harbour, England, under moody skies and restless seas. Knightley revealed that some cast members struggled with seasickness—especially in the infamous “room of doom,” a glass-walled chamber that swayed with every wave.But that fragility is the film’s strength. Like Triangle of Sadness or The White Lotus, the yacht isn’t just a backdrop—it’s a character. It embodies solitude, control, and the illusion of safety.Luxury as IntrospectionSavannah floats, but never settles. It’s a paradox: a sanctuary built to defy nature, yet constantly shaped by it. The sea doesn’t care for design—it demands surrender.The Woman in Cabin 10 invites us to look deeper. To see luxury not as escape, but as confrontation. To understand that silence isn’t peace—it’s exposure.As the film reminds us: “The sea is not a refuge. It’s a mirror.”by Andrea BaraccoEnjoyed this article? Share it with someone who would love it too!Subscribe to Yacht Lounge – it’s free. One click and you’ll discover a world of authentic stories, beyond the ordinary.Podcast 🇺🇸 voice here 👉 This is a public episode. If you would like to discuss this with other subscribers or get access to bonus episodes, visit yachtlounge.substack.com
🇮🇹🇺🇸 Bilingual content: Italian first, English followsEsiste un colore che vale milioni di dollari. Un azzurro così particolare che nessuno al mondo può usarlo senza il permesso di una sola azienda. Non è blu cobalto, non è celeste, non è turchese. È qualcosa di diverso, di unico, di irripetibile. È il Tiffany Blue, e la sua storia è molto più affascinante di quanto possiate immaginare.Il mistero della nascitaSiamo nel 1837. Charles Lewis Tiffany, un giovane imprenditore di 25 anni, apre una piccola boutique a New York con 1.000 dollari prestati dal padre. Ma Charles ha un’ossessione: la perfezione estetica. E quando deve scegliere il colore per le sue confezioni, non si accontenta di blu qualunque.La leggenda racconta che si ispirò al colore delle uova del pettirosso americano, quel particolare azzurro che in natura simboleggia la felicità e la rinascita. Ma non era solo una scelta romantica: era una strategia geniale. In un’epoca dove i packaging erano marroni, grigi, austeri, quel azzurro brillante catturava immediatamente l’attenzione.La rivoluzione silenziosaMa il vero colpo di genio arrivò dopo. Charles capì che quel colore non doveva essere solo bello, doveva essere suo. Iniziò a usarlo su tutto: confezioni, nastri, carta da lettere, persino sui muri dei negozi. Ogni sfumatura era studiata, calibrata, protetta come un segreto di stato.Quando nel 1845 pubblicò il primo “Blue Book” - il catalogo dei gioielli più preziosi - non fu solo una pubblicazione commerciale, fu una dichiarazione di guerra estetica. Quel blu divenne il colore dell’esclusività assoluta.L’alchimia del desiderioPensateci: quante volte avete riconosciuto una confezione Tiffany da lontano, prima ancora di leggere il nome? Quel blu funziona come un richiamo visivo irresistibile. È psicologia pura: associa immediatamente lusso, eleganza, sogno.Ma Charles andò oltre. Stabilì che nessun altro potesse usare esattamente quella tonalità. La formula del colore divenne un segreto aziendale, custodito gelosamente come la ricetta della Coca-Cola. E quando nel 1998 riuscirono finalmente a registrare il colore come marchio - primi al mondo - trasformarono una sfumatura in proprietà intellettuale.Il potere di un’iconaOggi, quel piccolo scrigno azzurro vale più di qualsiasi campagna pubblicitaria. Quando Audrey Hepburn guarda la vetrina in “Colazione da Tiffany”, non sta solo sognando i gioielli: sta sognando quel mondo che il colore rappresenta. Eleganza senza tempo, qualità assoluta, bellezza che non invecchia mai.Il Tiffany Blue è diventato un linguaggio universale. In Giappone lo chiamano “Tiffany iro”, in Francia “bleu Tiffany”. È l’unico colore al mondo che porta il nome di un brand, ed è riconosciuto in ogni angolo del pianeta.L’eredità di un visionarioCharles Lewis Tiffany non immaginava che la sua piccola ossessione estetica sarebbe diventata uno degli asset più preziosi dell’azienda. Oggi, quel colore vale letteralmente miliardi. Ogni volta che vedete quel blu, state guardando il risultato di quasi due secoli di strategia, passione e genio commerciale.Ma la vera magia è un’altra: in un mondo dove tutto cambia velocemente, dove i trend durano stagioni, il Tiffany Blue è rimasto identico per 180 anni. È la prova che alcune scelte, quando sono perfette, diventano eterne.La prossima volta che vedrete quella piccola scatola azzurra, ricordatevi: non state guardando solo un packaging. State guardando la storia di come un colore può diventare un sogno, di come un’idea può attraversare i secoli, di come la bellezza, quando è autentica, non ha bisogno di spiegazioni.Perché alla fine, il vero lusso non è possedere qualcosa di caro. È riconoscere istantaneamente la perfezione quando la vedete. E quel blu, quello è perfezione pura.by Andrea Baracco(English follows)Hai apprezzato questo articolo? Condividilo con chi potrebbe amarlo quanto te!Iscriviti a Yacht Lounge, è gratuito. Un click ti apre un mondo di racconti autentici, lontani dai soliti schemi.The Secret Story of Tiffany Blue.There exists a color worth millions of dollars. A blue so particular that no one in the world can use it without permission from just one company. It’s not cobalt blue, it’s not sky blue, it’s not turquoise. It’s something different, unique, unrepeatable. It’s Tiffany Blue, and its story is far more fascinating than you could ever imagine.The mystery of its birthWe’re in 1837. Charles Lewis Tiffany, a 25-year-old entrepreneur, opens a small boutique in New York with $1,000 borrowed from his father. But Charles has an obsession: aesthetic perfection. And when he has to choose the color for his packaging, he doesn’t settle for just any blue.Legend tells that he was inspired by the color of American robin eggs, that particular blue that in nature symbolizes happiness and rebirth. But it wasn’t just a romantic choice: it was genius strategy. In an era where packaging was brown, gray, austere, that brilliant blue immediately caught the eye.The silent revolutionBut the real stroke of genius came later. Charles understood that this color shouldn’t just be beautiful, it had to be his. He began using it on everything: boxes, ribbons, letterhead, even on the walls of his stores. Every shade was studied, calibrated, protected like a state secret.When in 1845 he published the first “Blue Book” - the catalog of the most precious jewels - it wasn’t just a commercial publication, it was an aesthetic declaration of war. That blue became the color of absolute exclusivity.The alchemy of desireThink about it: how many times have you recognized a Tiffany box from afar, even before reading the name? That blue works like an irresistible visual call. It’s pure psychology: it immediately associates luxury, elegance, dreams.But Charles went further. He established that no one else could use exactly that shade. The color formula became a company secret, jealously guarded like the Coca-Cola recipe. And when in 1998 they finally managed to register the color as a trademark - first in the world - they transformed a shade into intellectual property.The power of an iconToday, that little blue box is worth more than any advertising campaign. When Audrey Hepburn gazes at the window in “Breakfast at Tiffany’s,” she’s not just dreaming of the jewels: she’s dreaming of that world the color represents. Timeless elegance, absolute quality, beauty that never ages.Tiffany Blue has become a universal language. In Japan they call it “Tiffany iro,” in France “bleu Tiffany.” It’s the only color in the world that bears a brand’s name, and it’s recognized in every corner of the planet.The legacy of a visionaryCharles Lewis Tiffany never imagined that his small aesthetic obsession would become one of the company’s most precious assets. Today, that color is literally worth billions. Every time you see that blue, you’re looking at the result of nearly two centuries of strategy, passion, and commercial genius.But the real magic is something else: in a world where everything changes quickly, where trends last seasons, Tiffany Blue has remained identical for 180 years. It’s proof that some choices, when they’re perfect, become eternal.The next time you see that little blue box, remember: you’re not just looking at packaging. You’re looking at the story of how a color can become a dream, of how an idea can cross centuries, of how beauty, when it’s authentic, needs no explanation.Because in the end, true luxury isn’t owning something expensive. It’s instantly recognizing perfection when you see it. And that blue, that is pure perfection.by Andrea BaraccoEnjoyed this article? Share it with someone who would love it too!Subscribe to Yacht Lounge – it’s free. One click and you’ll discover a world of authentic stories, beyond the ordinary.Podcast 🇺🇸 voice here 👉 This is a public episode. If you would like to discuss this with other subscribers or get access to bonus episodes, visit yachtlounge.substack.com
🇮🇹 Podcast Italian Voice🇮🇹🇺🇸 Bilingual content: Italian first, English follows5 gennaio 1975. Banchina di Santa Margherita Ligure. Una goletta di 19 metri si prepara a salpare per un viaggio che durerà un anno e mezzo, attraversando oceani, tempeste e trasformazioni. A bordo: uno skipper visionario, una famiglia con due bambini, giovani architetti in cerca di avventura, e persino due scimmiette dell'Amazzonia.Questa è "Oceano Segreto", quello che Roberto definisce "il racconto di una vita" diviso in dieci tappe esplosive, in esclusiva su Yacht Lounge. Un'odissea moderna dove avventura e passioni si intrecciano in modi inaspettati.Ma la storia di Roberto non è solo il racconto di un viaggio. È la fotografia di un'epoca in cui l'Italia aveva il coraggio di sperimentare, di rompere gli schemi, di cercare nuove forme di vita. Ma come eravamo diventati così? E perché abbiamo smesso?Un equipaggio, mille storieAl comando, Doi Malingri, skipper reduce dalla prima Whitbread Round the World Race del 1973. Un uomo che "non aveva voglia di immaginarsi una vita lontana dalla barca" e che decise di caricare sulla sua "arca" di venti metri tutto il suo mondo: moglie, figli, amici, contraddizioni e sogni.Con lui, Carla, la moglie trasformata in "maestra di bordo" per educare in mare i figli Micaela di 12 anni e Aimaro di 9. Due bambini che scelsero l'oceano al posto dei banchi di scuola, imparando geografia dalle correnti marine e matematica dalle stelle.Roberto "Beppe" Franzoni e Daniela Puppa, giovani architetti appena laureati, in quello che allora si chiamava "anno sabbatico" - un concetto rivoluzionario per l'epoca. Francesco "Ciri" della Porta, Paolo Mascheroni, e le mascotte viventi: Pascoli e Carozzo, due scimmiette uistitì originarie del Rio delle Amazzoni.E poi Elenora "Chin", la modella internazionale dalle copertine di Vogue e Cosmopolitan, con gli occhi del padre cinese e la pelle ambrata della madre indio-amazzonica. La donna che stravolge tutto. Perché Doi non si limita a innamorarsi di lei: la porta a bordo. Con la moglie. E i figli.Immaginate: venti metri di barca, mesi di navigazione oceanica, e lo skipper che dorme nella cabina di poppa con l'amante mentre la moglie Carla è relegata nella cabina centrale con l'amico Ciri. Una bomba a orologeria emotiva che naviga verso l'America.Passioni in alto mare: il triangolo impossibileMa "Oceano Segreto" non è solo un racconto di navigazione. È un thriller psicologico in mezzo all'oceano. Come si vive per mesi su una barca di venti metri quando lo skipper ha deciso di portare con sé moglie, figli... e amante?Le cabine diventano un labirinto di tensioni. Doi e Chin nella cabina di poppa, quella di comando, a fianco del carteggio e della radio. Una scelta che non è solo logistica: è una dichiarazione di guerra. Carla, la moglie "ufficiale", spostata nella cabina centrale con Ciri, tra i bambini che non capiscono e un'atmosfera che si fa sempre più elettrica.Roberto e Daniela, dalla loro cabina di prua, assistono a questo dramma che si consuma tra colazioni silenziose e turni di guardia notturni. I "giovani architetti" si trovano a fare non solo i pacieri, ma i testimoni di una situazione esplosiva che potrebbe far saltare in aria tutto il progetto.1. Il progetto e la partenza - Santa Margherita Ligure, gennaio 1975. L'addio all'Italia e l'inizio di tutto.2. Il Mediterraneo e il Marocco - Le prime prove, i primi adattamenti di un equipaggio che deve imparare a vivere insieme.3. Le Canarie e la traversata atlantica - Il grande salto verso l'ignoto. L'oceano Atlantico come prova del fuoco.4. I Caraibi - Il paradiso tropicale dove le tensioni tra moglie e amante esplodono sotto il sole dei tropici.5. Cuba - L'isola rivoluzionaria dove anche i sentimenti fanno la rivoluzione.6. Miami e gli USA - L'America degli anni '70, terra di opportunità e contrasti.7. L'Intracoastal Waterway, Capo Hatteras e i pescatori - La risalita della costa americana attraverso canali interni e incontri indimenticabili.8. New York e Newport - La Grande Mela e la patria della Coppa America. Preparativi per la grande sfida.9. La Transatlantic Race e l'uragano Ami - La tempesta perfetta: quando la natura si scatena e anche i rapporti umani raggiungono il punto di rottura. Il terzo posto conquistato mentre a bordo si consuma un dramma.10. L'arrivo a Cowes - Inghilterra. Roberto scende dalla barca. La fine di un'avventura che ha cambiato tutti, nel bene e nel male.Quando l'avventura diventa leggendaDieci tappe, mille segretiOgni tappa del racconto di Roberto svela un pezzo del puzzle: Le dinamiche di gruppo che si creano e si spezzano. I bambini che crescono tra le onde. Le storie d'amore che nascono e si complicano. Le tempeste che mettono a nudo caratteri e paure. Gli incontri casuali che cambiano il corso degli eventi.Roberto ci porta dentro il cuore di questa storia impossibile. Nelle cabine dove si consuma il dramma. Nelle discussioni sussurrate quando la barca fila a otto nodi verso l'ignoto. Nei momenti in cui la bellezza del mare fa dimenticare tutto, e in quelli in cui le tensioni diventano esplosive.C'è la gelosia che cresce come un'onda. Ci sono i bambini che percepiscono tutto senza capire. C'è Chin che deve conquistarsi ogni giorno il suo posto a bordo. C'è Carla che combatte per la sua dignità. E c'è Doi, al timone della sua "arca", che deve tenere insieme non solo la rotta, ma un equipaggio sull'orlo della rivolta.L'Italia che osava sognareMa "Oceano Segreto" racconta anche di un'epoca irripetibile. Gli anni '70, quando Franco Busnelli - l'imprenditore dei divani con la B d'argento - sponsorizzava un giro del mondo perché credeva nei sogni impossibili. Quando una famiglia poteva decidere che la migliore scuola per i propri figli fosse l'oceano Atlantico. Quando due scimmiette amazzoniche potevano diventare membri ufficiali dell'equipaggio senza che nessuno trovasse nulla di strano.Era l'Italia del post-boom, quella che aveva il coraggio di sperimentare. Doi Malingri incarnava perfettamente questo spirito: un imprenditore che molla tutto per "creare, almeno temporaneamente, sul mare, una piccola comunità di gente libera e felice."Un viaggio che continuaCinquant'anni dopo, Roberto guarda indietro a quei mesi come al periodo che ha definito la sua vita. Le lezioni apprese in mare, le amicizie nate nelle tempeste, la consapevolezza che "la condizione umana, a tutte le latitudini, in mare come in terra," cerca sempre "un nuovo e più sincero modo di vivere.""Oceano Segreto" è questo: un'avventura che diventa metafora, un viaggio che diventa crescita, una storia che diventa leggenda. Dieci puntate per rivivere l'epoca in cui l'Italia sapeva ancora sognare in grande e trasformare i sogni in rotte oceaniche.Perché alcune storie meritano di essere raccontate. E alcuni viaggi cambiano davvero la vita.by Roberto Franzoni(English follows)“Secret Ocean” è disponibile in esclusiva su Yacht Lounge. Dieci episodi per dieci tappe indimenticabili. Il viaggio di una vita raccontato da chi lo ha vissuto.Hai apprezzato questo articolo? Condividilo con chi potrebbe amarlo quanto te!Iscriviti a Yacht Lounge, è gratuito. Un click ti apre un mondo di racconti autentici, lontani dai soliti schemi.Secret Ocean. A life Journey.January 5th, 1975. Santa Margherita Ligure wharf. A 19-meter schooner prepares to set sail on a voyage that will last a year and a half, crossing oceans, storms, and transformations. On board: a visionary skipper, a family with two children, young architects seeking adventure, and even two Amazon monkeys.This is "Secret Ocean," what Roberto calls "the story of a lifetime" divided into ten explosive stages, exclusively on Yacht Lounge. A modern odyssey where adventure and passions intertwine in unexpected ways.But Roberto's story is not just the account of a journey. It's a snapshot of an era when Italy had the courage to experiment, to break patterns, to seek new forms of life. But how had we become like that? And why did we stop?A Crew, A Thousand StoriesIn command, Doi Malingri, skipper fresh from the first Whitbread Round the World Race of 1973. A man who "had no desire to imagine a life away from boats" and who decided to load onto his 20-meter "ark" his entire world: wife, children, friends, contradictions, and dreams.With him, Carla, the wife transformed into "onboard teacher" to educate their children Micaela, 12, and Aimaro, 9, at sea. Two children who chose the ocean over school desks, learning geography from ocean currents and mathematics from the stars.Roberto "Beppe" Franzoni and Daniela Puppa, young architects fresh from university, taking what was then called a "sabbatical year" - a revolutionary concept for the time. Francesco "Ciri" della Porta, Paolo Mascheroni, and the living mascots: Pascoli and Carozzo, two marmoset monkeys native to the Amazon River.And then Elnora "Chin", the international model from the covers of Vogue and Cosmopolitan, with her Chinese father's eyes and her Indo-Amazonian mother's amber skin. The woman who turns everything upside down. Because Doi doesn't just fall in love with her: he brings her aboard. With his wife. And children.Imagine: twenty meters of boat, months of ocean navigation, and the skipper sleeping in the aft cabin with his lover while his wife Carla is relegated to the central cabin with friend Ciri. An emotional time bomb sailing toward America.High Seas Passions: The Impossible TriangleBut "Secret Ocean" is not just a sailing story. It's a psychological thriller in the middle of the ocean. How do you live for months on a 20-meter boat when the skipper has decided to bring with him wife, children... and mistress?The cabins become a maze of tensions. Doi and Chin in the aft cabin, the command center, next to the chart table and radio. A choice that's not just logistical: it's a declaration of war. Carla, the "official" wife, moved to the central cabin with Ciri, between children who don't understand and an atmosphere growing increasin
🇮🇹 Podcast Italian voice🇮🇹🇺🇸 Bilingual content: Italian first, English follows"Se andate a caccia di stelle potrete non prenderne nessuna ma non tornerete con un pugno di fango!" Leo BurnettQuesta frase racchiude la filosofia di una generazione di creativi che, negli anni '50 e '60, stava inconsapevolmente creando una nuova forma d'arte. Ma per comprendere appieno la portata di questa rivoluzione, dobbiamo guardare a un'evoluzione culturale che ha attraversato tre mondi apparentemente distanti.Leo Burnett nasce nel 1891 nel Michigan, figlio del midwest americano più genuino. Cresciuto nella cultura del sogno americano, della frontiera ancora fresca nella memoria collettiva, porta nella pubblicità quella fede incrollabile nel progresso e nell'ottimismo. Quando trasforma prodotti ordinari in archetipi universali - il Marlboro Man, Tony la Tigre, il Gigante Verde - non sta semplicemente vendendo. Sta creando una mitologia moderna, credendo davvero che ogni campagna possa elevare sia il prodotto che chi lo consuma.Dall'altra parte dell'Atlantico culturale, cresce Andy Warhol, figlio di immigrati slovacchi, in una Pittsburgh industriale e grigia. La sua sensibilità è già europea: più disincantata, più consapevole delle contraddizioni del capitalismo. Ma ecco il punto cruciale che spesso si trascura: prima di diventare l'icona della Pop Art, Warhol è un grafico pubblicitario di successo. Lavora per Glamour, Vogue, Tiffany. Conosce dall'interno quello stesso mondo che Burnett sta rivoluzionando.Nello stesso periodo, ma in un'Italia che si sta ricostruendo dopo la guerra, nasce una terza voce in questo dialogo creativo: Armando Testa. Torinese, classe 1917, porta nella pubblicità italiana una sensibilità unica che unisce la tradizione grafica europea con l'innovazione americana. Come Warhol, anche Testa inizia come grafico pubblicitario, ma con una differenza fondamentale: mentre l'americano osserva il consumismo con distacco critico, l'italiano lo vive come opportunità di costruire una nuova identità nazionale attraverso i brand.Questa esperienza pubblicitaria plasma profondamente il linguaggio artistico di entrambi. La sintesi grafica che renderà immortali le Campbell's Soup e le Marilyn di Warhol nasce proprio da quel training commerciale. Allo stesso modo, Testa sviluppa quella capacità di sintesi visiva che trasformerà i suoi manifesti in icone durature. Entrambi sanno come un'immagine debba "funzionare", come debba catturare lo sguardo, come debba rimanere impressa nella memoria. Sanno tutto questo prima ancora di essere riconosciuti come artisti.Il percorso di Testa verso il riconoscimento artistico è emblematico: nel 1960 vince il concorso per il manifesto delle Olimpiadi di Roma, portando la grafica italiana sulla scena mondiale. Nel 1968 riceve da Giulio Carlo Argan la medaglia d'oro del Ministero della Pubblica Istruzione per il suo contributo alle arti visive - un riconoscimento che sancisce ufficialmente quello che stava accadendo: la pubblicità era diventata arte. Nel 1970 trionfa alla Biennale del manifesto di Varsavia, confermando che il linguaggio visivo italiano aveva raggiunto una maturità internazionale.Quando negli anni '60 Warhol inizia a dipingere prodotti di consumo, non sta semplicemente appropriandosi dell'immaginario commerciale. Sta portando a compimento un dialogo che Burnett aveva iniziato inconsapevolmente e che Testa stava sviluppando in parallelo: la trasformazione del quotidiano in icona. Ma mentre Burnett ci credeva con la fede del pioniere americano e Testa con l'entusiasmo del costruttore di una nuova Italia, Warhol osserva con il distacco critico di chi ha già vissuto quella trasformazione dall'interno.Il 1971 segna un momento simbolico: muore Leo Burnett, proprio mentre Warhol scala la fama internazionale e Testa consolida la sua posizione di maestro della comunicazione visiva. È come se il testimone passasse da chi aveva creato il linguaggio a chi lo stava decostruendo artisticamente e a chi lo stava perfezionando nella sintesi. Tre generazioni, tre sensibilità, ma un unico filo conduttore: l'intuizione che l'immagine commerciale potesse diventare cultura.Questa rivoluzione non era solo americana. In quegli stessi anni, creativi come il nostro Armando Testa stavano compiendo la stessa magia in Italia: creare un linguaggio nuovo che non sapeva ancora di essere arte, ma che stava ridefinendo l'immaginario collettivo con la stessa ambizione di raggiungere le stelle, con la convinzione che anche un semplice spot potesse diventare cultura, memoria, mito.Armando Testa, come Warhol, ha saputo gestire il segno grafico come sintesi del messaggio, creando in Italia alcune delle icone della storia della pubblicità. La sua capacità di coniugare arte e comunicazione gli varrà nel 1989 la nomina a "Honor laureate" dall'Università di Fort Collins in Colorado, riconoscimento che suggella una carriera vissuta all'insegna di quella filosofia del "puntare alle stelle" che aveva attraversato l'Atlantico.Ho avuto la fortuna di lavorare direttamente con Armando Testa alla fine degli anni '80, e posso testimoniare che quella generazione aveva davvero nelle vene quella filosofia del "puntare alle stelle" - la convinzione che anche un semplice spot potesse diventare cultura, memoria, mito. Il vero lusso, forse, è stato assistere alla nascita di quest'arte inconsapevole, dove la pubblicità non sapeva ancora di essere arte, ma lo era già diventata.by Andrea Baracco(English follow)Hai apprezzato questo articolo? Condividilo con chi potrebbe amarlo quanto te!Iscriviti a Yacht Lounge, è gratuito. Un click ti apre un mondo di racconti autentici, lontani dai soliti schemi.Reaching for the Stars: The Journey from Advertising to Art with Burnett, Warhol and Testa."When you reach for the stars you may not quite get one, but you won't come down with a handful of mud either!" Leo Burnett This phrase encapsulates the philosophy of a generation of creatives who, in the 1950s and 1960s, were unconsciously creating a new form of art. But to fully understand the scope of this revolution, we must look at a cultural evolution that crossed three seemingly distant worlds.Leo Burnett was born in 1891 in Michigan, a son of the most genuine American Midwest. Raised in the culture of the American Dream, with the frontier still fresh in collective memory, he brought to advertising that unwavering faith in progress and optimism. When he transformed ordinary products into universal archetypes - the Marlboro Man, Tony the Tiger, the Jolly Green Giant - he wasn't simply selling. He was creating a modern mythology, truly believing that each campaign could elevate both the product and those who consumed it.On the other side of the cultural Atlantic, Andy Warhol grew up, son of Slovak immigrants, in an industrial and gray Pittsburgh. His sensibility was already European: more disenchanted, more aware of capitalism's contradictions. But here's the crucial point often overlooked: before becoming the icon of Pop Art, Warhol was a successful advertising graphic designer. He worked for Glamour, Vogue, Tiffany. He knew from the inside that same world Burnett was revolutionizing.During the same period, but in an Italy rebuilding itself after the war, a third voice was born in this creative dialogue: Armando Testa. From Turin, born in 1917, he brought to Italian advertising a unique sensibility that united European graphic tradition with American innovation. Like Warhol, Testa also started as an advertising graphic designer, but with a fundamental difference: while the American observed consumerism with critical detachment, the Italian experienced it as an opportunity to build a new national identity through brands.This advertising experience profoundly shaped the artistic language of both. The graphic synthesis that would make Warhol's Campbell's Soup and Marilyns immortal was born precisely from that commercial training. Similarly, Testa developed that capacity for visual synthesis that would transform his posters into lasting icons. Both knew how an image had to "work," how it had to capture the eye, how it had to remain impressed in memory. They knew all this even before being recognized as artists.Testa's path toward artistic recognition is emblematic: in 1960 he won the competition for the Rome Olympics poster, bringing Italian graphics onto the world stage. In 1968 he received the gold medal from the Ministry of Public Education from Giulio Carlo Argan for his contribution to visual arts - a recognition that officially sanctioned what was happening: advertising had become art. In 1970 he triumphed at the Warsaw Poster Biennial, confirming that Italian visual language had achieved international maturity.When in the 1960s Warhol began painting consumer products, he wasn't simply appropriating commercial imagery. He was bringing to completion a dialogue that Burnett had unconsciously initiated and that Testa was developing in parallel: the transformation of the everyday into icon. But while Burnett believed in it with the faith of the American pioneer and Testa with the enthusiasm of the builder of a new Italy, Warhol observed with the critical detachment of someone who had already lived that transformation from within.1971 marks a symbolic moment: Leo Burnett dies, just as Warhol scales international fame and Testa consolidates his position as master of visual communication. It's as if the baton passed from those who had created the language to those who were artistically deconstructing it and to those who were perfecting it in synthesis. Three generations, three sensibilities, but a single common thread: the intuition that commercial imagery could become culture.This revolution wasn't only American. In those same years, creatives like our Armando Testa were accomplishing the same magic in Italy: creating a new language that didn't yet know it was art, but was redefining collective imagination with the same ambition to reach for the sta
Se pensate che "il prezzo si dimentica, la qualità resta" sia la massimadi un santone del lusso, sappiate invece che il suo autore è Henry Royce: genio assoluto e, per ironia, un uomo partito dal basso, che da ragazzino vendeva giornali agli angoli delle strade, mica girava per salotti mondani.Royce, l'ultimo di cinque fratelli, ha visto la vita dalla parte di chilotta per ogni conquista. La sua adolescenza è stata un interminabile catalogo di lavoretti: tra una pagnotta e un telegramma consegnato, coltivava una passione bruciante per la meccanica.Così nel 1884, con i propri risparmi di 20 sterline, entrò in società con Ernest Claremont, un amico ed avviarono un'azienda che fabbricava apparecchi elettrici per la casa in un laboratorio presso Manchester, la: F.H.Royce & Co.La sua prima grande spesa? Un'auto francese che si rompeva più del necessario... tanto che Henry decise, sbuffando: "Meglio farsela da sé!". E nacque così la sua prima vettura, progettata fuori orario, tra un attrezzo e una visione notturna.La leggenda dell'incontro con Charles Rolls è degna di una commedia inglese. Royce, tutto dedizione e perfezione, Rolls più mondano e appassionato di motori. Si incontrano a Manchester, Royce mostra la sua creazione e Rolls si innamora al primo giro: "Ne voglio tutte quelle che riesci a costruire!". Condizioni? Si chiameranno Rolls-Royce, che fa più chic. È qui che nasce il mito, amato da sovrani, star e nuovi ricchi.Ma Royce rimane sempre un outsider: perfezionista fino all'ossessione, supervisionava ogni dettaglio. Perfino quando la salute lo costrinse allo stop, il suo cervello continuava a pensare a come migliorare ogni vite e bullone.La vera rivoluzione però era nella qualità: auto che resistono decenni, test incredibili come quello della "Silver Ghost", con chilometri macinati e solo un piccolo problema ad una valvola (un difetto si può perdonare anche ai miti!).Royce non era interessato solo al lusso, ma ad una qualità che sopravvive al tempo e all'oblio del prezzo. Se oggi molti citano la sua frase come mantra, sappiate che nasceva dalla fatica, dalla dedizione e, sì, anche dalla voglia di prendersi la rivincita sulla vecchia De Dion che lo fece imbestialire.Morale: Se c'è un personaggio che ha scardinato il concetto di "prezzoalto=snobismo", è proprio lui. Royce ha trasformato la qualità in eredità. Il prezzo diventa un dettaglio, la qualità resta... e fa sempre bella figura.by Andrea BaraccoHai apprezzato questo articolo? Condividilo con chi potrebbe amarlo quanto te!Henry Royce: The newsboy who invented quality... and a few Rolls tooIf you think "price is forgotten, quality remains" is the maxim of some luxury guru, know instead that its author is Henry Royce: absolute genius and, ironically, a man who started from the bottom, who as a boy sold newspapers on street corners, not strolling through high-society salons.Royce, the youngest of five brothers, saw life from the perspective of those who fight for every achievement. His adolescence was an endless catalog of odd jobs: between delivering a loaf of bread and a telegram, he cultivated a burning passion for mechanics.So in 1884, with his own savings of 20 pounds, he entered into partnership with Ernest Claremont, a friend, and they started a company that manufactured electrical household appliances in a workshop near Manchester: F.H.Royce & Co.His first big expense? A French car that broke down more than necessary... so much so that Henry decided, huffing: "Better to make one yourself!" And thus his first car was born, designed in his spare time, between one tool and a nocturnal vision.The legend of the meeting with Charles Rolls is worthy of an English comedy. Royce, all dedication and perfection, Rolls more worldly and passionate about engines. They meet in Manchester, Royce shows his creation and Rolls falls in love at first ride: "I want all the ones you can build!" Conditions? They'll be called Rolls-Royce, which sounds more chic. This is where the myth is born, beloved by sovereigns, stars and nouveau riche.But Royce always remains an outsider: perfectionist to the point of obsession, he supervised every detail. Even when his health forced him to stop, his brain continued to think about how to improve every screw and bolt.The real revolution, however, was in quality: cars that last decades, incredible tests like that of the "Silver Ghost", with thousands of miles covered and only a small problem with a valve (a defect can be forgiven even in myths!).Royce wasn't only interested in luxury, but in a quality that survives time and the oblivion of price. If today many quote his phrase as a mantra, know that it was born from hard work, dedication and, yes, also from the desire to get revenge on that old De Dion that drove him crazy.Moral: If there's a character who dismantled the concept of "high price = snobbery", it's him. Royce transformed quality into legacy. Price becomes a detail, quality remains... and always makes a good impression.by Andrea BaraccoEnjoyed this content? Share it with someone who would love it too!Podcast 🇺🇸 voice here 👉 This is a public episode. If you would like to discuss this with other subscribers or get access to bonus episodes, visit yachtlounge.substack.com
Quando Karl Lagerfeld scelse un hotel con la linea telefonica difettosa, lo fece con una motivazione lapidaria:“Non sentire nessuno è la forma più raffinata di vacanza.”Non è chiaro se l’abbia detto davvero — con Lagerfeld la realtà era sempre un po’ romanzata — ma è certo che avrebbe potuto dirlo.Perché per lui il lusso non era mai una questione di prezzo, ma di distanza, disciplina, e discrezione.Lagerfeld viveva in una Parigi tutta sua, circondato da pile di libri, gatti imperiali (Choupette, la vera erede) e abiti fatti su misura per lui solo. Parlava con pochissimi, dormiva poco, disegnava molto. E non sopportava il rumore — né reale, né metaforico.In un’epoca in cui tutto e tutti vogliono essere raggiungibili, visibili, commentabili, quell’aneddoto sull’hotel diventa un manifesto:Il vero lusso non urla. Si ritira in silenzio.Ecco perché lo yachting, quando non si piega all’ostentazione, è forse l’ultima forma di lusso autentico: nessun clamore, nessun selfie, nessuna condivisione obbligata.Solo vento, luce e silenzio.Una pausa. Non dal mondo, ma dal bisogno di mostrarlo.Perché il vero privilegio oggi non è partire.È sparire.by Andrea BaraccoSe ti è piaciuto questo episodio, condividilo e iscriviti per non perderti i prossimi.(English version below)When Karl Lagerfeld chose a hotel with a faulty telephone line, he did so with a lapidary motivation:"Not hearing from anyone is the most refined form of vacation."It's unclear whether he actually said it - with Lagerfeld, reality was always somewhat romanticized - but it's certain he could have said it.Because for him, luxury was never a matter of price, but of distance, discipline, and discretion.Lagerfeld lived in a Paris all his own, surrounded by stacks of books, imperial cats (Choupette, the true heir) and clothes tailored for him alone. He spoke to very few, slept little, drew much. And he couldn't stand noise, neither real nor metaphorical.In an era when everything and everyone wants to be reachable, visible, commentable, that hotel anecdote becomes a manifesto:True luxury doesn't shout. It withdraws in silence.This is why yachting, when it doesn't bow to ostentation, is perhaps the last form of authentic luxury: no clamor, no selfies, no obligatory sharing.Only wind, light and silence.A pause. Not from the world, but from the need to show it.Because true privilege today is not leaving.It's disappearing.By Andrea BaraccoFor a deeper exploration of this theme, listen to our podcast - available in Italian only.Enjoyed this episode? Share it and subscribe for the next ones.Podcast 🇺🇸 voice here 👉 This is a public episode. If you would like to discuss this with other subscribers or get access to bonus episodes, visit yachtlounge.substack.com
Comments 
loading