DiscoverLE RECENSIONI IGNORANTI
LE RECENSIONI IGNORANTI
Claim Ownership

LE RECENSIONI IGNORANTI

Author: BLACKCANDY PRODUZIONI

Subscribed: 2Played: 23
Share

Description

“Nella vita di ognuno arriva prima o poi quel momento in cui
siamo troppo logorroici, troppo felici, troppo paranoici o lamentosi anche per chi ci ha sempre
voluto bene. Di certo non sono io quella che si sostituisce a loro, non ne ho né tempo né voglia e poi
chi vi conosce, ma con questo podcast vorrei trovare una soluzione salvifica che ovvia al problema
di dover tediare amici e parenti. I libri sono un mezzo incredibile se usati con criterio: possono
risollevare gli animi, gettare nello sconforto, accendere l’adrenalina, rispondere a domande che
neanche sapevamo di avere e farcene di nuove (mannaggia), ci danno un La, ci divertono, ci
riportano indietro nel tempo e un sacco di altre cose belle (ma pure brutte). Eccallà, la soluzione:
vorrei semplicemente dare un’idea, un perché sì (un perché no), una situazione in cui leggere quel
determinato libro può essere una finestra per un dialogo con sé stessi invece che sfrantumare in
mille minuscoli pezzi le gonadi degli altri, oppure convincervi che se le cose vanno alla grande
perché dovete andare a pescare libri motivazionali – in caso contrario la responsabilità non è mia.
Roba breve, senza pretese, ma soprattutto senza volermi spacciare per una critica d’alto rango;
quando veniva distribuita l’abilità letteraria io ero in fila da lampredottaro: sono venuta su con
qualche disagio nell’eleganza, ma com’era bòno quel panino.”
54 Episodes
Reverse
No, non oserei mai. Figurati. Ho pianto mentre ridevo, o meglio, ho riso mentre piangevo. Le due cose sono un po’ diverse anche se cambia solo l’ordine degli addendi. Apparentemente uguale, se Camillo ha 5 mele e poi ne compra altre 3, oppure ha 3 mele e poi ne compra altre 5, sono sempre 8. Ma è il bisogno delle mele che cambia, non so se mi spiego: al secondo Camillo tre mele non bastano proprio, tant’è che ne compra non altre 3, ma 5, ed evidentemente io avevo più bisogno di piangere fiumi di lacrime. Spero di essere stata chiara. Al di là delle vignette riderecce sulla difficoltà di condividere le emozioni, soprattutto se ne nella società sei chiamato a rappresentare la figura statuaria dell’uomo™️, la gestione delle emozioni è qualcosa che finché non ti trovi in un burrone pensi che sia una fanfaronata da femmine e pure da femmine senza self empowerment (aggiungo io). Gestire le emozioni, arrabbiarsi con criterio, soffrire guardando al futuro son quelle cose da compito a casa che non trovano applicazione nella realtà: complicare i comportamenti - invece - fa parte della realtà. In questo graphic novel si intrecciano la vita reale, la vita immaginata, la vita temuta, le relazioni reali, immaginate, temute; un invito a guardare dentro sé stessi per imparare a rapportarsi con gli altri, un piccolo diamante per ritrovare le grosse piattaforme salvagenti sparse nell’oceano dei dubbi e delle insicurezze, frasi che sembrano fatte, pensieri che sembrano banali ma che fanno rifiorire, il tutto tra un molto virile e poco collaborativo Batman e una molto fiscale e poco inclusiva Queer police. Tutto racchiudibile in una metafora che ho amato: sta meglio chi ca*a o chi sta a guardare?
Sono quel tipo di persona che per aprire questo libro - e per scrivere queste parole - ha dovuto fare un difficile passo: per prima cosa ho paura di stuzzicare il destino e poi sapevo che mi sarei imbattuta in una personalità molto familiare. Tante volte da piccola, ma anche adesso, penso alla fine del mondo e penso alle bare che volteggiano nell’universo - penso alla fine di tutto. Tipo anche “che ne sarà dei libri” o anche “ma le persone che conosco adesso le ritroverò in un’altra vira” “esiste un’altra vita. Sono quel tipo di persona che prima di pensare al proprio stato emotivo pensa a risollevare e preservare quello altrui, sono una tartaruga che ritira testa e gambe nel suo guscio ma che silenziosa osserva il mondo. O almeno credo. A tanta gente dire di essere così suonerebbe strano, perché una vera azione positiva verso gli altri non c’è mai, c’è sempre, boh, la speranza, la parola, un abbraccio nella testa e un’infinita tristezza quando vedo dell’infelicità. I gesti gentili nei miei confronti mi fanno piangere, le parole gentili nei miei confronti mi fanno piangere. L’altro giorno ho scritto alla mia libraia che forse non sarei andata ad un incontro perché avevo passato una pessima notte - e una pessima mattina: se qualcuno fosse rimasto senza posto, che cedesse pure il mio di fronte alla certezza di un’occupazione. Mi ha risposto dicendo “per te un posto ci sarà sempre” e io ho pianto ancora di più, in macchina da sola e in coda per entrare a lavoro, perché dare valore allo spazio che una persona occupa la avvolge di un bene e di una consapevolezza di esistenza che non sempre è limpida. Questo è un po’ il punto di questa storia: dare e ricevere conferma del valore del nostro spazio occupato; non tanto scegliendo la felicità come suggeriscono frasi instagrammabili di persone che hanno fortemente voluto la felicità attraendola - la felicità non sempre è una scelta - ma ascoltando e riconoscendo le nostre azioni nel mucchio di tutta la discarica di pensieri che abbiamo nel cervello, lasciandoci ascoltare da chi vuole farlo e accettando con serenità che sì, anche noi siamo importanti per qualcuno. Non è vero che si riparte sempre da noi stessi e da noi da soli. Delle volte si riparte dagli altri e dalle mani che ci vengono tese in aiuto. «Ecco, te lo ricordi quel vuoto assoluto tutto intorno? E la paura - il terrore - che un posto per te forse nel mondo non esiste?» «Be’, bada bene ora, io sono un difensore dell’inalienabile diritto alla lagna, eh. E toglierei i diritti civili a chi ti caca il cazzo con i vari “c’è chi sta peggio”. Però ecco… Magari ricordare la strada che hai fatto per arrivare a questo punto…ti aiuta a camminare col cuore più leggero» Zerocalcare, Chiccazzomelaffattofa’
Benevolenza cosmica è la parafrasi poetica di “serie inspiegabilmente lunga di floridi eventi”. È il cosmo che ti mette una mano sulla testa e te le fa andare tutte bene e se una deve fartela andare così così o al massimo maluccio, allora ti rende indietro una fortuna triplamente più rigogliosa. Chi non desidererebbe per qualche tempo avere una serie di fortunati eventi? Ma perché ho il sospetto che l’abitudine alla nostra realtà non ci farebbe godere una sega, ma anzi, ci lascerebbe diffidenti verso cotanta buona ventura? Forse per quell’incontrastabile verità cantata da Mago Merlino: “Per ogni men c’è sempre un più”, che peraltro potrebbe non riguardare solo le nostra persona, ma pure legami karmici inconsapevoli. Potremmo pure dire che per ogni Benevolenza cosmica, potrebbero essere scritti altrettanti Malevolenza cosmica. Invece che godersi questa scia a pieno e mettersi a vivere come un nababbo - che è quello che ci si aspetta dagli altri ma chissà se capitasse a noi, l’uomo comune e soprattutto l’uomo che fa del raziocinio la base della sua esistenza, crolla lentamente in una paranoia in costante crescita dovuta all’inspiegabilità di questo fenomeno (pur avendo qualche sprazzo di fiducia nella fortuna).  Guidati nella vita dalla ricerca della conferma della legge di Murphy in ogni circostanza, siamo noi che leggiamo a diffidare di questa fiorente e continua prosperità, quasi forse più del protagonista stesso. Con qualche variazione sul tema, credo che tuttə saremmo dei degni protagonisti di questa vicenda surreale - ad eccezione deə sognatorə: loro sì, che sanno godersi tutte le fortune.
Interrompere una relazione che si pensa già sistemata è causa di due grossi traumi:Ci ritroviamo da soliLe nostre certezze precipitanoCosa ne sarà di me? Cosa ne sarà pure dell’altra persona, che bene o male andrà avanti per la sua strada e reciprocamente non esisteremo più, o meglio, non esisteremo più come esistevamo prima: con l’intimità di prima, con gli abbracci e le carezze, le debolezze e i gossip e le freddure “da non dire a nessuno”. Da un momento all’altro quei gossip rimangono dentro di noi, senza poter avere un complice. Per l’appunto, l’altra sera ero ad ascoltare il concerto di un amico, che ha deciso di chiudere con una canzone dedicata ad una coppia di amici - Accompagnami sempre. Scrive, canta “Amare vuol dire poco o niente, seguire le stagioni poi non serve a capire la differenza tra volerti bene e farlo consapevolmente”. L’amore da adulti è fatto di tutto ciò che eravamo prima, di tutto ciò che ci aspettavamo in netto contrasto con quello che abbiamo creato e che a volte si scontra il passato e le aspettative di un altro. Per questo la consapevolezza di amare è un tratto fondamentale di questo sentimento che distingue l’amore trepidante/gioioso/disperato/totalizzante che proviamo da giovanissimi da quello cauto/un po’ disilluso/forse abitudinario/progettuale che sui trent’anni iniziamo a ricercare. Ahinoi, a volte l’amore consapevole si tramuta in amore nonostante la consapevolezza. Ed è qui che ci si incastra, imbarazzati e disperati per la nostra condizione di innamorati impetuosi e giovani in un corpo di qualche anno di più.
Quando sono nate Le Recensioni Ignoranti, avevo in testa di voler essere sincera con chi mi avrebbe letto. Su tutto: leggo un libro che non mi piace? E io ve lo dico che non mi piace, che è scritto così così, che sembra un minestrone. Poi però mi sono ricordata di quella volta, in cui facendo esattamente questo, in nome di una non ben motivata onestà verso “il mio pubblico” come se fossi una gran sommelier dei libri, ricevetti un commento risentito da parte dell’autore che avevo criticato e ci rimasi di merda. IO. Al di là dell’egocentrismo della questione in cui io critico e sempre io ci rimango di merda, quando ci ho ripensato è scattata la molla: scelgo di parlare di libri su un social, dove le motivazioni scritte possono essere travisate, mal interpretate oppure mal motivate proprio da parte mia, come posso scegliere di criticare pubblicamente il lavoro di un’altra persona quando posso semplicemente scegliere di non parlarne in questo luogo? Vorrei che tante persone leggessero questo saggio sulla vita online, perché spesso assisto a manifestazioni delle proprie opinioni che sarebbero adatte, che so, ad una conversazione con gli amici stretti: questo libro ricorda che il contesto in cui si affronta un tema è importante e sarebbe davvero bello, prima di aprir bocca, pensare “questa cosa la direi a voce alta mentre sono per la strada?”. Anche negli ultimi giorni, alcuni avvenimenti scatenati proprio da opinioni online hanno riacceso in tutte le classi di utenti - anche i non esperti - il dibattito sulla pericolosità del privilegio che abbiamo di poter esprimere le nostre idee/dubbi, senza alcun filtro in mezzo (e tristemente spesso senza alcun titolo). Da bambini ci insegnano a scrivere, a parlare, a porci in situazioni sociali più disparate: «Non si dicono le parolacce in pubblico» «Non si può scorreggiare in tram» «Al cinema si sta zitti» «A scuola non si possono mettere le gambe sul banco e si alza la mano se si vuole parlare» e nessuno ci ha spiegato il funzionamento e l’educazione ai social network come luoghi a sé stanti e pertanto bisognosi di regole perché alla loro nascita erano - nonostante si professassero come tali - una sorta di non luoghi in cui l’ego era il motore della nostra presenza, ma anche perché erano sostanzialmente fruibili nel tempo libero e per un lasso davvero minimo rispetto alla vita che passavamo offline. Non so se sia desueto o cringe definire un libro necessario, ma questo per me lo è: ho riflettuto su come mi pongo, sulla persona che vorrei essere, sui commenti a cui vorrei rispondere urlando, sui giustizieri ad ogni costo asfaltando persone sconosciute, sulle volte in cui lascio fare perché gli urlatori hanno virato su argomenti che non c’entrano niente, sulla parte di ascolto che manca, sulle tempeste nate intorno ai personaggi famosi, su Zerocalcare costretto da alcuni ad esprimersi su tematiche per le quali riteneva in quel momento di far silenzio, sulla politica che è diventata un post e sul becerismo che entra in politica. Ho parlato molto, adesso sto zitta.
Ho sempre vissuto la figura di Britney Spears come un’icona di sregolatezza, frivolezze ed eccessi di ogni tipo. L’unico contatto che avevo con la sua figura, non amando il pop, era quello fornitomi dai giornalini di gossip che nient’altro fanno che alimentare un paradosso distopico al massimo: permettono a degli sconosciuti di conoscere unilateralmente la vita intima di altri azzerando la distanza solo da una parte. Questa storia è una riflessione profonda sul ruolo dei rotocalchi, dei giornalisti nel descrivere la realtà delle persone pubbliche, che hanno diritto, come ogni essere vivente, all’intimità e alla vita privata - priva dell’intrusione dei paparazzi. Britney Spears è sempre stata il modello della “bionda”, per me che non conoscevo la sua storia, il modello da non emulare, la ragazzina che del sogno di tanti aveva fatto un disastro. Invece, nella realtà dei fatti, è una donna che ha avuto il coraggio di parlare di salute mentale, degli abusi subiti, della cattiveria di chi si è approfittato della sua carriera artistica, della depressione post partum, della benevolenza riservata agli artisti rispetto alla totale inclemenza destinata alle artiste, madri non degne di questo ruolo, donne alle prese con il giudizio costante del loro corpo e non del loro lavoro. The woman in me è il riscatto di una persona che rivendica il suo diritto di essere, di esistere attraverso la sua voce, e non più solo quella di chi voleva metterla a tacere.
Beh, è andato tutto storto e sono vivo Quest'anno scorso in fondo è stato solo positivo Anche se a volte nello specchio non mi riconoscoComincio così, con Bellissimo di Ghemon, questo mio pensiero su 25. Come ne I miei stupidi intenti, Zannoni racconta una storia improbabile che però è impressionabilmente condivisibile: una voce forte della nostra generazione che attraverso la figura di Gero e delle sue numerose folli ma normali disavventure parla del malessere di una generazione intera, che non sa ma deve scegliere tra gli scarti rimasti, invidiando i liceali che hanno davanti a sé la spregiudicatezza della gioventù senza l’onere di dimostrare che non solo si è cresciuti ma anche realizzati, arrivati, ma che forse proprio per questo si perde in un bicchier d’acqua e se ne vergogna, non ne parla riducendo alla fuga - in ogni senso - l’unica soluzione; un protagonista specchio di una generazione che galleggia in un fluido denso di desideri e compromessi, da una parte in gabbia e dall’altro troppo libero, forzatamente frenetico verso una direzione ignota. Commossa dal finale, Zannoni ha ricreato alla perfezione quel momento di leggerezza alla fine di un’esperienza sfiancante in cui coscienti dei problemi li si guarda con tenerezza e rinnovata fiducia; ché dopo essere rimbalzati come in un flipper lanciati da asticelle non sempre comandate da noi, rendersi conto che forse tutto questo sbatacchiare in qua e in là freneticamente ci ha portato ad essere lì - così leggeri, fa bene al cuore. L'aria stamattina è strana Senti l'energia che emana
La donna è strega.
Avete presente quando alla fine dei concerti il fiume di gente si riversa verso le uscite e voi vi lasciate trasportare piuttosto che cambiare direzione, perché quest’ultima azione implicherebbe farsi travolgere? Alla fine vi ritrovate ad un ingresso lontanissimo da quello che avevate previsto, maledicendovi ché per evitare la rottura di coglioni di sbattere contro un centinaio di persone adesso vi aggroppate una camminata di una mezz’oretta per arrivare dall’altra parte dell’arena con la fatica addosso di chi ha circumnavigato il globo: più o meno a 30 anni, se non si è al passo con gli standard che ci siamo imposti vivendo nella comunità, si sta così. Quando la mia migliore amica era in crisi perché compiva 30 anni l’ho derisa, salvo poi entrare in crisi anche io sei mesi dopo; il punto non è l’età, il punto è che a quell’età si è deciso che si tirano le somme di quello che abbiamo compicciato in previsione di quello che compicceremo, come se la nostra vita fosse un lavoro dinamico e sempre in costante ed obbligata crescita; tipo un esercizio commerciale che se cicca un obiettivo allora tira giù il bandone. Insomma, tirando queste somme non mi sembrava di aver fatto chissà cosa, e questo mi ha gettato nell’estremo sconforto, ma soprattutto nella voglia di tornare a 22 anni prima quando tornata il sabato sera dopo la canonica pizza alla festa dell’Unità con la famiglia mi mettevo a letto con la finestra aperta a sentire i rumori e gli odori dell’estate - che non era neanche torrida e devastata come adesso. Scusate, divago: non mi fido mai dei libri scritti dalle persone che vedo attive sui social in veste diversa da quella di autori, ma ecco che questo romanzo mi ha stimolato tutta questa pappardella della vita come azienda, il valore dei traguardi e della diversità, l’invenzione dei passaggi da collezionare a delle età stabilite da nonsochi come fossimo su un ponte di listoni traballanti sospeso nel vuoto, il peso fittiziamente inestimabile che nei secoli abbiamo dato ai trent’anni e che trova terreno fertile in quel mezzo del cammin di nostra vita; del resto anche Dante qualche problema a 30 anni evidentemente lo aveva, dato che la diritta via era smarrita: potessimo dirglielo adesso che cosa ha compicciato a trent’anni.
Nel 2020 mi sono lasciata e ho deciso di non essere solo una testa (come mi disse a suo tempo il mio ex fidanzato riferendosi al fatto che avevo molta più cura della mia routine skincare rispetto a quella che avevo per il resto del corpo) e allora mi sono messa ad allenarmi come una forsennata e a mangiare come se dovessi iscrivermi al mondiale di culturismo. La verità è che io stavo comunque bene, non avevo alcun tipo di problema per il quale il mio corpo esigesse una cura ulteriore o diversa da quella che avevo portato avanti fino a quel momento. Il fatto che io me ne ricordi ancora, però, la dice lunga sul tipo di ferita che ha aperto dentro di me. Una parte della mia coscienza diceva che era un maleducato perché niente mi aveva mai portato all’attenzione il “problema” della mia forma; l’altra parte di me, quella che viveva inserita nella società, urlava che aveva ragione. Ma quando ci siamo lasciati appunto - in realtà mi aveva lasciata lui, io entrai in questo loop di non accettazione del mio corpo e guardavo i suoi following su Instagram, notando con mio grande rammarico che tutte le ragazze avevano fisici ultratonici, palestratissimi e “curatissimi”: dovevo esserlo anche io. Da quel momento, sono un corpo conforme, più o meno, e con conforme intendo magro. Non tornerei indietro, no: però tutto questo mi fa stare bene non tanto fisicamente ma emotivamente, mi fa sentire nel giusto, mi fa sentire potenzialmente non sbagliata almeno sotto questo punto di vista - sono giusta, passatemi il termine sbagliato. Sarò pazza, sfigata, sola, stupida, boccalona, ma almeno sono nella norma e questo mi rende all’apparenza una persona che rientra nei canoni socialmente accettati. CORRETTI. Nessuno può guardarmi con giudizio o compassione almeno per questo. Questa graphic novel è l’esempio di come siamo condizionati dai modelli pressanti che ci propongono, di come l’ambiente esterno ci rende diversi, misurabili e valutabili, di come ci giudicano il cibo, l’outfit e le abitudini, di come siamo spinti a confrontarci con gli altri piuttosto che con la versione migliore di noi per noi e non per qualcosa che ha deciso al nostro posto. Di come l’acqua restituisce ai corpi la loro unicità eliminando il termine conformità in un argomento in cui il confronto non dovrebbe far parte del campo semantico. dovrebbe esistere.
Il cimitero è il posto in cui i vivi possono fisicamente commemorare i propri cari. Li tengono in vita in un modo che va oltre un semplice ricordo; i protagonisti di questa storia hanno costruito vere e proprie case di villeggiatura nel cimitero in cui riposano i loro congiunti e ogni estate, come in un normale campeggio, passano del tempo lì trasferendovi la loro quotidianità di panni da stendere e compiti da fare. La m0rte non è un argomento che si affronta con razionalità e un sacco di autori ne hanno scritto in modo totalizzante, evidenziando soprattutto i vuoti che le persone che non ci sono più lasciano nelle nostre esistenze. Quello che invece racconta SantaMatita è la vita che continua nonostante la m0rte e con la m0rte, e lo fa attraverso i panni stesi di cui prima, amori adolescenziali, c4ttiverie, pettegolezzi, piante di pomodoro e leggende metropolitane. Non so bene come esprimere questo concetto, ma l’umanità in questa storia che si legge in un paio d’ore è disarmantemente semplice: le persone entrano ed escono dai nostri percorsi e nel frattempo noi curiamo le piante, giochiamo, nuotiamo, scopriamo, curiosiamo, conosciamo altre persone, ci nascondiamo, stendiamo i panni, ceniamo, offriamo aiuto, piangiamo, facciamo amicizia, facciamo del bene a persone che non rivedremo forse mai più, riceviamo aiuto, beviamo caffè, ripariamo e sempre nel frattempo continuiamo a costruire, costruire, costruire intorno alla m0rte e paradossalmente circondati dalla m0rte. Questo è quello che succede in questa graphic novel tra la libertà del campeggio estivo e la pressione costante di questa cosa della vita che accade e che ci cambia lo scorrere del tempo.
Avevo giusto sentito parlare di questa notizia - ora ve la dico, ma prima di riportarla volevo vedere il video in questione, a mio rischio e pericolo. E appunto, l’ho guardato con incredulità, quindi ecco la notizia: l’ultratitolato climatologo Simone Rugiati, il cuoco che mi stava un po’ antipatico perché accentuava la sua toscanità in “Cuochi e fiamme” finendo per scatenare lo Stanis La Rochelle che è in me, ci spiega chiaramente che è in corso una manipolazione climatica per la quale hanno da qualche tempo iniziato a spruzzare o non spruzzare misteriose miscele (boh) per fare o non far piovere. Io da piccola pensavo che di notte la Terra si scoperchiasse dal suo cappuccio celeste per lasciare spazio al cielo blu della notte e che per piovere la procedura fosse più o meno quella espressa dal cuoco neo climatologo, o meglio, ci fosse un cappuccio pieno di acqua. Poi non riuscendo mai ad assistere all’esatto momento del cambio di coperchio ho lasciato stare questa mirabolante idea. Questo libro racchiude teorie che per fortuna al momento sono molto meno pericolose di questa che vi ho appena raccontato (quella di Rugiati, non la mia) ma che ai loro tempi hanno scatenato dibattiti infiniti di scienziati e improvvisati tali. In queste storie splende come il giorno che anche gli uomini di scienza (veri) incappavano in assurde teorie solo perché non riuscivano a capire il mondo, così come è chiaro che sicuramente anche ora staranno pensando a qualche teoria sbagliata ignari di dati di cui forse beneficeranno i posteri. Teorie assurde, tipo che il Titanic sarebbe affondato per colpa dei viaggiatori nel tempo, o che le piante in vaso potessero essere usate come testimoni oculari di delitti. Ma non sono solo storie di teorie scientifiche fallaci che ritrovano la loro verità grazie ai dati, ma anche storie di superstizioni, di garofani rossi, partite benedette - per davvero, di misteri inspiegabili e coincidenze che generano l’idea che il cosmo ci strizzi l’occhio, proprio a noi. Un libro che parla all’angolo incolto della nostra mente, quello che si sollazza a leggere stranezze con la spensieratezza di chi non stenterebbe a crederci ma che dialogando con la razionalità ci spinge a cercare una risposta o accettare con serenità il senso di una coincidenza. O perché no, per una volta credere e basta, senza costruirci sopra ulteriori congetture. Insomma, il suggerimento iniziale di questo saggio è “Fate quello che volete nel vostro privato, ma quando le conseguenze delle vostre idee non riguardano soltanto voi, attenti a credere sulla fiducia.” (E ci sono delle verità scientifiche inconfutabili).
Caro stronzo, un paradosso sarcastico che finisce per diventare sincero nel rapporto tra Rebecca e Oscar. Lei lo appella così, perché effettivamente è stato uno stronzo, sentendosi in diritto di postare un aggiornamento di un social in cui la giudicava dopo averla vista al bar, invecchiata. Questo diritto con cui Oscar va a braccetto però lo ha messo in un guaio più grande, perché una stagista della casa editrice per cui pubblica lo ha denunciato sul suo blog per molestia; dice che gli rendeva la vita impossibile, che la fissava, che cercava il contatto fisico addirittura un giorno facendola scappare dall’ufficio. Lui non se ne capacita perché a suo parere era un intento senza cattiveria, lui era davvero preso e invaghito, non avrebbe voluto farle del male. E invece. Invece la bilancia di ciò che piace a me e ciò che piace a te è diversa e non tutti la rispettano: Virginie Despentes si pone sopra le parti della bilancia, racchiudendo tutti in una bolla enorme del diagramma di Venn (so che vi ho sbloccato un ricordo). Una bolla che da sola ci riunisce perché siamo tutti sensibili a qualcosa; è questo qualcosa che poi ci differenzia da alcuni ma ci unisce profondamente ad altri, in quanto tossicodipendenti, in quanto genitori, in quanto appartenenti ad un genere. Il nodo delle differenze si stringe a soffocare l’umanità che abbiamo di fronte al giudizio, che in parte subiamo ma con cui in parte soggioghiamo il prossimo imponendo il nostro pensiero. Se in fondo siamo tutti umani e uguali, uniti dalle nostre debolezze, la società ci mette in condizioni di sentirci migliori o peggiori di altri in base a criteri comunemente presi come assiomi, uno dei quali il dualismo tra i generi assegnati alla nascita che divide non tanto sul piano biologico ma sull’approccio al mondo. Al mondo delle parole, al mondo della rabbia, dell’espressione di sé, del giudizio, della sfera pubblica e privata. Un libro su quanto le frecce del carnefice e della vittima puntino sempre su qualcuno di diverso, sul potere e sul cadere rovinosamente, ricevendo aiuto dall’ultima persona che avremmo pensato di avere accanto.
C’è una canzone che ascolto sempre quando il mio corpo sente che ho bisogno di piangere ma il mio cervello continua a pedalare come un forsennato: Imitation of life, dei REM. A dire il vero l’ho messa in sottofondo - più che sottofondo, a dire il verissimissimo, perché mi ci sto bucando le orecchie. È la canzone che mi ricorda che ci sono mille montagne da scalare, e che anzi non sono mille montagne, bensì mille fiancate che percorriamo come se dovessimo arrivare ad una cima che però si rivela un nuovo punto di partenza per una fiancata nuova, sempre in salita e sempre cercando di dimostrare. In questo pezzo Michael Stipe racconta dell’adolescenza, quel momento della vita in cui vorremmo essere altro e se è vero che i millennials sono eterni adolescenti allora è perfettamente in tema con ciò che abbiamo raccolto con le nostre mani: un futuro incerto, chi più chi meno, sotto diversi aspetti della vita, piani A che si tramutano in B, poi in C e velocemente fino a rendersi conto che il ventaglio di possibilità che Kierkegaard affida ad ogni essere umano alla nascita si sta riducendo ad una linea che ci rassegniamo a percorrere con qualche tentativo di fuga. La dieta da lunedì, lo sport da domani, la parete dipinta per cambiare, comprare un quadro nuovo da appendere, lo shopping compulsivo, iniziare ad amare sé stessi: niente che ci distolga da quella linea dritta che continuiamo a percorrere senza neanche accorgercene. Per questo ascolto Imitation of life, per quello special che dice “This hurricane, I’m not afraid” perché se una parte di me sente un uragano costante e in qualche modo necessario, l’altra è impassibile spettatrice di ciò che nella società della performance sarebbe da considerare una Caporetto da ogni parte la si guardi. E non sto dicendo che sono orgogliosa dei miei fallimenti e di non essere ciò che volevo essere da bambina: sto dicendo che se nessuno stereotipo di successo costruito nel tempo dal mondo intero mi avesse costretto a vedermi realizzata in una certa maniera soltanto, adesso forse non la vivrei così; adesso vivrei il flusso dei cambiamenti con entusiasmo, vigore. Cavalcando l’onda di ciò in cui mi sto trasformando. Ho letto diversi pareri negativi su questo libro, e sinceramente mi accodo a chi pensa che non sia troppo profondo, con la verità scritta fra le righe; vedo piuttosto una compartecipazione nostra nello “scrivere” il resto della storia, come tanti libri che sono apparentemente semplici e che ho amato follemente. È ciò che ci scatenano, quello che ci rimane al di là di una trentenne lamentosa e irrisolta, persa in una realtà che non riconosce più e che vive con passiva inerzia. Come on, come on, no one can see you cry.
Wabi-sabi nella filosofia giapponese rappresenta l’accettazione della transitorietà delle cose e dell’imperfezione della bellezza fondendo così la malinconia di una completezza oggettiva mancata e la meraviglia di una completezza “a modo nostro”. In questo libro, più che al raggiungimento del wabi-sabi, si assiste allo svilente percorso del “wabi-sabi a tutti i costi” con pratiche disumanizzanti e spersonalizzanti. Che poi, alla fine, pare terrificante letto così, ma quanti di noi schiacciano pezzi di sé per dimostrare qualcosa ogni giorno che passa? Pure verso noi stessi, eh, per vedere il bello a tutti i costi: «Sono forte perché sopporto una situazione che nessuno potrebbe tollerare», «Da questo dolore sto imparando tantissimo!!!», «Acci come sto sviluppando la mia forza emotiva!» in nome di una resilienza che ci vogliamo guadagnare dopo esserci autoinflitti delle tonanti, dolorose, a volte gratuite, irrecuperabili e irrimediabili sofferenze. Cioè, capito? Il fondo lo vogliamo toccare perché patire ci rende eroi della nostra storia. Ingrid sviluppa la sindrome di Stoccolma nei confronti della nave da crociera sulla quale lavora, quella stessa nave che le ha tolto i suoi vestiti, le sue inclinazioni e altre cose che leggerete - ma pure i suoi vizi e i suoi ricordi scomodi. Il patto è chiaro: rinuncia a ciò che di bello può essere pur di slegarsi per un po’ da quei ricordi amari (che comunque non la abbandonano mica del tutto: scappa pure dai problemi, ma ti verranno dietro). Io credo di non aver capito tuttissimo di questa storia; ho capito però che delle volte toccare il fondo non fa così bene, anzi fa schifo e ci trasforma da persone ad automi o da persone buone a persone cattive. Che autoproclamarsi leader non fa di te un leader. Che sforzarsi a patire come cani senza valutarne minimamente le conseguenze è una vite che ci piantiamo giù nella carne: lascerà un buco e un gran male. Che impegnarsi al solo fine di dimostrare non solo non ci arricchisce, ma ci accolla un peso che alla lunga non ci farà più galleggiare. Scusate ma mica è un libro che la fa prender bene, farfalle e fiorellini.
Le saghe familiari non mi attraggono per svariati motivi e io ho comprato Blackwater perché erano dei bellissimi libri in senso estetico. Dopo aver finito Blackwater non vorrei mai più leggere una saga: sono innamorata, sfinita, legata emotivamente a questi sei volumi, come se avessi vissuto a Perdido e ne fossi stata sputata fuori brutalmente allo scoccare dell’ultima parola dell’ultima pagina dell’ultimo libro. Pubblicato nel 1983 racconta una storia che inizia nel 1919, continua fino agli anni del boom economico e pur seguendo il corso della Storia, ha in sé tratti gotici e horror che per paradosso contribuiscono a rendere ancora più reali le vicende di Perdido. La cosa più magica di questi sei volumi, però, è la celebrazione della diversità tra gli esseri umani che si fa largo tra queste pagine e che nel corso dei capitoli dimentica le superstizioni e fluidifica ogni gerarchia trasformandola in una famiglia i cui perni fondanti mettono le basi sulle peculiarità di ciascuno. Di questa famiglia mi sono sentita parte anche io, ho presenziato alle cene, alle discussioni e parteggiato per l’uno o per l’altro contendente; ho sospettato, ho compreso e contrastato decisioni, ho sofferto i lutti e sono invecchiata con lo scorrere della storia: Blackwater racconta di una Perdido viva, che nasce, cresce rigogliosa con vigore e rallenta stanca insieme ai suoi abitanti sotto il peso del tempo. Mi mancherà Perdido, mi mancheranno tutti perché se all’inizio non sopportavo nessuno, tutti hanno avuto la tenacia di svelarsi limpidi e umani di fronte a me, di crescere e maturare sotto i miei occhi meritando una fiducia vera e sentita, che poche volte si riserva a personaggi “non del tutto reali”.
Turchina non è solo la storia della bambina che ha ispirato Collodi per la figura della Fata. Turchina è l’esempio di come si tramandano le storie nel tempo dai nonni ai nipoti, e di come - come dicono i Bluvertigo “semplicemente, anche un fatto da niente, attraversato dalla corrente nello spazio e nel tempo nasce piccolo infinitamente, poi diventa troppo importante” -. Giovanna era un’umile cameriera, dice lei: com’è possibile che possa apparire in un libro? Giovanna diventa “famosa”, racconta la sua storia e quella della nascita di Pinocchio, racconta di questo scrittore borghese che se l’è presa sotto l’ala, del senso di famiglia e della costruzione debole delle classi sociali quando a farne parte sono persone con l’animo nobile. Alla fine tutto è storia, nella nostra vita quotidiana, anche quando il mondo vorrebbe che tu non la raccontassi. È il potere della libertà di raccontare e di tramandare che gli spaventati dittatori vogliono mutare e di fronte al quale niente possono fare se non impedire, minacciare, uccidere. Turchina è anche il racconto di un rapporto che va oltre la morte, che nelle strade di Sesto Fiorentino racchiude non solo i luoghi di Pinocchio, ma i cambiamenti più incisivi del secolo appena trascorso: Elena Triolo racconta la vita di Giovanna, e attraverso questa la nascita di Pinocchio, e attraverso questa la Storia. Ho pianto dall’inizio alla fine, ininterrottamente, una graphic novel che trabocca di sensibilità che non so come altro descrivere, perché a leggerla ci vuole un’oretta, a metabolizzarla ancora non lo so, soprattutto quando da sestese vedo in quei disegni e in quella Storia posti che tutt’oggi frequento quasi quotidianamente. Questo libro è un dono incredibile e io mi sento davvero fortunata ad esserci incappata.
Sono sempre molto incline a vedere negli uomini di scienza, e ancor più nei fisici, e ancor più più negli astrofisici ça va sans dire, degli esseri viventi impregnati di una creatività e di un’immaginazione tendenti al sovrumano. È scontato pensare che ogni teoria e ogni legge messa a punto siano nate da un’idea; ci vuole di esser folli veri per montare tutto un ingranaggio sulla base di un pensiero. Ci vuole di essere innamorati, caparbi, ragionevolmente dubbiosi. Per me le formule sono sempre state una roba astrusa e se posso permettermi - per la maggior parte del tempo che ho passato a studiarla - anche messe lì per rompere i coglioni per risolvere problemi e altre robe che non mi spiegavano, di fatto, niente. Alla fine veniva fuori che Gaetano seduto nella terza carrozza sul treno per Napoli Afragola andava alla velocità di 55 kg/L. Ora, io certo non sono una cima in materia, ma credo che se avessi avuto Rovelli come professore, con il suo romantico e tangibile modo di spiegare anche le incertezze legate all’universo, dando una faccia a quello che ci gira intorno e un motivo visibile di esistere a quelle formule invece che costanti e lettere sparate a cartucciera, forse sarebbero state più piacevolmente applicabili. Questa non vuole essere una critica a chi ha cercato di spiegarmi la fisica negli anni - in me scarseggia il senso creativo per tutto ciò che è scientifico - ma un ragionamento basico su quanto, spesso, ci ritroviamo a studiare cose col solo fine di capirle, mentre a volte è proprio il buio totale che ci costringe a spingerci oltre (più o meno è successo in tutte le scoperte fantasmagoriche del mondo, anche quelle che hanno dato vita a invenzioni catastrofiche). Par retorico, ma è quando non le capiamo che abbiamo l’opportunità di una crescita. Invece dobbiamo capire e chi non capisce non è adatto. Rovelli ci ha detto il contrario, che anche l’argomento più complesso è alla portata di tutti, basta trovare il modo di comunicare idoneo ai destinatari del messaggio. E ci dice anche un’altra cosa: che il confronto, la collaborazione, i dubbi, gli errori, tanto la perseveranza quanto l’abbandono di un’idea siano fruttuosi sempre, per ogni sviluppo, anche se in un primo momento quest’ultimo tuoni come un umiliante fallimento. «Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto dell'oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato.»
C’era una volta una principessa bianca e bellissima che per colpa di una strega brutta e invidiosa finisce inerme da qualche parte e solo l’amore di un aitante uomo valoroso e bianco la può salvare. Cenerentola era una stronza, Raperonzolo faceva sesso (malandrina!), nella versione di Basile La bella addormentata nel bosco si sveglia dopo aver partorito (…). Le storie sono di chi le legge, e - cliché radicati a parte, nel XXI secolo si iniziano a trovare degli inghippi in queste fiabe in cui l’amore è sempre il solito e i personaggi sono stereotipati: la principessa da salvare, il principe eroico, cattivi uomini che sono cattivi per qualche mostruoso espediente magico e cattive donne che sono cattive perché sono gelose senza magia (eheheheheh), ma a parte i nuovissimi film Disney in cui le principesse bastano a sé stesse, più o meno, il marketing sarà sempre governato da vestiti con gli sbrillùccichi e scarpette di cristallo per le bambine e spade e vestiti da principe per i bambini (andate almeno una volta in un negozio di giocattoli). Saranno anche sicuramente esistite storie con relazioni omosessuali dato che la mitologia ne riporta assai, ma non ci è mai arrivata traccia - si dice che La Sirenetta fosse la voce dell’amore di Andersen per un uomo, ma chissà. Lou Loubie guarda le fiabe attraverso la storia e la storia attraverso le fiabe, specchio incontestabile della società in cui nascono e si evolvono: trattasi infatti per lo più di storie eteronormative, abiliste, razziste e sessiste che si sono tramandate con qualche modifica attraverso i secoli ma che mai hanno perso il loro piglio discriminatorio. E con questo piglio discriminatorio, siamo cresciuti noi (ma forse non i nostri figli/nipoti? Chissà se fra qualche secolo saremo considerati i primi ad aver raccontato una società più inclusiva. Spoiler: ci credo poco). Nel nostro immaginario che volente o nolente queste fiabe hanno contribuito a plasmare non c’è spazio per le personalità in cui non ci riconosciamo a pieno. E così, ora, i cattivi non sono cattivi davvero (cit), ma hanno un background doloroso che li ha trasformati; i personaggi seppur rimangano stereotipati vengono inseriti in un contesto condivisibile, i riadattamenti si fanno più inclusivi ma con quella vena ancora troppo inclusivitywashing (si dice?) che tende a invalidare l’intera causa. Ma questo lo penso io, fra 600 anni magari, la Disney, persa per la strada qualche testimonianza della realtà odierna in cui una donna nera rimane all’ultimo gradino di una struttura gerarchica definita sonantemente, col suo live action de La Sirenetta sarà considerata la pioniera di un cambiamento della società. Ahinoi, la Storia non viene scritta dai vinti, ma anche le storie non vengono raccontate dai discriminati.
Non so bene come pormi rispetto a questo decalogo di princìpi guida: mi ci sono avvicinata perché, banalmente, ne avevo bisogno. Avevo bisogno di una luce che riportasse ogni bega alla sua reale importanza, ogni preoccupazione alla sua scarsa influenza, ogni cosa bella alla sua potente luminosità, ogni giudizio bieco e cattivo al suo misero valore e che rendesse alla fiducia in me stessa quell’oggettività e quella potenza che a volte vedo scemare, vuoi per indole tendenzialmente autodistruttiva, vuoi perché suggestionata dalle malelingue i cui pareri, a volte, invece che essere supportivi anche nelle piccole cose (ma per me molto significative), suonano come infide e stridenti unghie sulla lavagna. Quindi ecco perché dovreste leggerlo anche voi: Raffaella Carrà ha fatto della sua vita un manifesto umano che proprio per la sua purezza si è presto trasformato in un manifesto politico che cantava la libertà in ogni sua forma. Quella di amare chi ci pare, di esprimere noi stessi seguendo le nostre naturali inclinazioni, di pretendere rispetto, di desiderare chi vogliamo, di creare con estro lavorando duramente per quello che realmente vorremmo essere. Mi viene da piangere, tanta è la semplicità di questi concetti che per una paradossale ingiustizia sono anche i più contrastati, socialmente ed emotivamente. Con la sua rivoluzione limpida ma in qualche modo “silenziosa” ha fatto un rumore che suona ancora oggi proprio perché così ben definita e consapevolmente piazzata. Vorrei svegliarmi più Raffaella, più leggera ma sempre sul pezzo, e vorrei pure, se un giorno putacaso non fossi sul pezzo, arrogarmi il diritto di lasciarmi avvolgere dall’ombra per trovare una soluzione lucida senza dover smaniare per dimostrare qualcosa a qualcuno, senza dovermi improvvisare inscalfibile ma senza pensare che quella è l’infelicità che mi merito e che sono destinata ad avere. (Si, si può. Mi vorrei un instante riposare per un po' e poi subito ricominciare)
loading
Comments 
Download from Google Play
Download from App Store