cinéDIMANCHE #17 GEORGES PEREC & BERNARD QUEYSANNE Un Homme qui dort [1974]
Description
[ sottotitoli trad. O. Puecher ]
di Orsola Puecher
Un uomo che dorme [1967], terzo libro di Georges Perec, è la storia di un tentativo, non riuscito, di ritirarsi dalle cose del mondo, quelle stesse che nel suo precedente romanzo, Les choses,[1965] costituivano una fascinazione assoluta e divorante. Secondo Proust, ispiratore del titolo “Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a sé il filo delle ore, l’ordine degli anni e dei mondi.“, ma in questo di uomo, uno studente che ha 25 anni e 29 denti, una borsa di studio di 500 franchi al mese, e che un giorno in cui tutto gli si svuota di colpo di senso, decide di non andare a sostenere un esame di Sociologia, il sonno non ha alcun ordine pacificatore, ma è popolato di sogni inquieti in cui egli è mare nero e nave allo stesso tempo, un corpo diviso in parti separate, un grande occhio che vede se stesso. Nel film che Perec ne ha tratto insieme a Bernard Queysanne in realtà non si riposa mai un istante: seguiamo più che altro il suo vegliare vagamente catatonico nella tana casa rifugio, assediato dai suoni, ticchettio di sveglie, il gocciolio di un rubinetto sul pianerottolo, campane, rumori della strada, dei suoi vicini di casa; lo vediamo in un iterato mettere a bagno calzini, bere Nescafé con il latte condensato, seguire il percorso delle crepe sul soffitto, ripetere ossessivamente un solitario con le carte, che non gli riesce mai; lo accompagniamo in certe brasserie dai menù dozzinali, lo seguiamo nel suo vagabondare silenzioso, incessante, casuale, labirintico e notturno, in una Parigi immersa nel bianco e nero vellutato e lucente della pellicola. E c’ è una voce fuori campo. Le parole in dècalage non corrispondono, se non per brevi momenti di assonanza, alle immagini che scorrono. Una voce femminile, coscienza senza flusso, che parla in seconda persona singolare. TU. Cosi ripetuto, come è della lingua francese, da suonare come un continuo appello al tu estremamente plurale di
colui a cui si parla
colui che parla
colui di cui si parla.


Nota di Perec citata da
David Bellos
Georges Perec. Une vie dans le mots
SEUIL [1993 ]Pag. 366-367
La formula del tu di Perec, ha precise percentuali, prevale lo sguardo di un io oggettivato che diventa tu e sfocia in certi momenti in un diario dialogo. La voce narrativa in seconda persona crea una nuova concezione dello spazio del racconto. Evitando la prima persona e con essa l’immedesimazione passiva scrittore-personaggio, lettore-personaggio si crea una distanza di sicurezza, più pertinente ad una presa di coscienza lucida, mai in preda a distorsioni emotive. L’oggettività si crea in una lunga serie di frasi brevi, non coordinate fra loro, sempre al presente. La solitudine ha bisogno di un interlocutore, di un dialogo interiore. Il tu implica un io che parla e un io che ascolta. Per questo personaggio che rifiuta tutti i contatti con il mondo esterno, la notte e la camera sono luogo di rifugio, perché là si è al riparo da tutte le comunicazioni con gli altri. Ma se è possibile sottrarsi allo sguardo degli altri, diviene impossibile evitare il proprio e evitare di prendere coscienza del se come altro. Dell’esistere [ lat. exsistĕre, comp. di ĕx- ‘da, fuori’ e sistĕre ‘porsi, stare, fermarsi’; propr. ‘uscire, levarsi (dalla terra)’ e quindi ‘apparire, esistere’]. E la cosa sorprendente di questa distanza è che, soprattutto nel film, l’asciutta oggettività che ne deriva, provoca un’emozione, spesso una vera e propria commozione, che non ha l’epidermica superficialità dell’immedesimazione, ma tocca corde profonde che con quel tu e con il suo baratro di solitudine, di mancanza di volontà all’azione, nella società dell’attivismo programmatico, hanno una vicinanza che tocca e impaurisce. Riguardo poi a quel cinico, ironico 20% di c)una relazione fra autore e personaggio: Devo farlo morire? No il lettore si dispiacerebbe… (cf. la fine de La montagna incantata), esso dovrebbe esser per chi scrive, burattinaio dei propri personaggi, quel pizzico di dialogo interno alla scrittura, che non dovrebbe mai mancare per evitare trame da fiction, ingredienti fastfood e finali di facile estenuante prevedibilità.
Thomas Mann
La montagna incantata
T rd. E. Pocar
Corbaccio
E così nel trambusto, nella pioggia, nel crepuscolo, lo perdiamo di vista.
Addio, Hans Castorp, schietto pupillo della vita! La tua storia è terminata. L’abbiamo narrata sino alla fine; non fu né divertente né noiosa, fu una storia ermetica. L’abbiamo raccontata per se stessa, non per amor tuo, poiché tu eri semplice. Ma in fin dei conti era la storia tua; siccome è toccata a te, devi aver avuto una certa accortezza, e noi non neghiamo la simpatia pedagogica che ci prese nel narrarla e potrebbe anche indurci a passare delicatamente un polpastrello sull’angolo d’un occhio al pensiero che non ti vedremo e non ti ascolteremo in avvenire.
Addio… sia che tu sopravviva o muoia! Le tue probabili sorti sono brutte; la mala danza nella quale sei trascinato durerà ancora qualche anno, e noi non ci sentiamo di scommettere forte che ne uscirai salvo. Francamente non ci preoccupiamo gran che se la questione rimane aperta.
GEORGES PEREC
da UN HOMME QUI DORT texte intégral inédit du film
Paris 2007 La vie est belle film associés
Ho sempre amato il cinema, i western, le commedie musicali, i thriller e le commedie brillanti. Ma non mi fido molto di questo fascino che l’immagine sembra avere su numerosi scrittori contemporanei. Il cinema per me non è la forma più compiuta della scrittura, quella verso cui una necessità imperiosa mi avrebbe sempre spinto e che sarei infine riuscito, al termine di anni e anni di sforzi, a raggiungere, se non proprio a padroneggiare. Al contrario piuttosto tenderei a pensare che il cinema sia un modo di produzione grossolano e inefficace, interamente assoggettato a un’ideologia mercantile, che, nonostante ciò che si voglia o si faccia, funziona nel 92% dei casi come una costrizione riduttiva.
Eppure fare un film di Un uomo che dorme mi sembrava ovvio. E’ stata un’opinione che apparentemente sono stato il solo a condividere: per quel che ne so, nessun regista è mai parso tentato dal soggetto (per non parlare ovviamente dei produttori) e quelli che ho interpellato io stesso – anche se mi dicevano di aver amato il libro – non manifestavano che un entusiasmo tiepido verso questo progetto.
Era impossibile che facessi un film (questo film o un altro) ma Bernard Queysanne, a cui ho domandato:
a)se avesse letto il libro, b) se credesse che non fosse stupido il volerne fare un film, c) se volesse, lui, farne un film, ha risposto in modo affermativo alle mie tre domande: questa tripla approvazione ha considerevolmente semplificato i problemi che abbiamo incontrato dopo e ha portato, in un po’ meno di tre anni, a un film oggi compiuto.
Del libro non ho granché da dire: era insomma un affare tra lui e me: niente mi obbligava a scriverlo se non la necessità della sua propria esistenza (così è anche, suppongo, per tutti i libri – altrimenti perché scriviamo?) Per il film è meno semplice: ciò che mi sembrava evidente, era forse solamente un certo gusto per la scommessa: fare un lungometraggio con un solo personaggio, nessuna storia, nessuna peripezia, nessun dialogo, ma soltanto un testo letto da una voce fuori campo… Ma quando affermavo che Un Homme Qui Dort era il più “visivo” di tutti i miei libri, sapevo esattamente cosa volessi dire?
Fatte tutte le scelte, accettato ogni partito preso, è vedendo il film finito, davanti all’evidenza di questa prima copia che si lascia dietro, una volta per tutte, i nostri dubbi, le nostre incertezze, e quelle migliaia di metri di pellicola e di nastro magnetico triturati, tagliati, montati, aggiustati e riaggiustati, che posso comprendere con più precision

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