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Guida ai Siti Unesco del Veneto
Guida ai Siti Unesco del Veneto
Author: Irene Galifi
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Un viaggio alla scoperta di un patrimonio unico e prezioso che merita di essere conosciuto e custodito. Il Veneto è tra le regioni maggiormente rappresentate nella lista del Patrimonio Mondiale e qui vi raccontiamo le meraviglie tratte dal libro Guida ai Siti Unesco del Veneto. Editoriale Programma
Editoriale Programma è una casa editrice trevigiana, specializzata nella pubblicazione di libri di saggistica, storia, arte e cultura locale.
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Nata nel 2003, raccoglie l’eredita della prima arteria enologica italiana, la Strada del Vino Bianco, costituitasi 1966. Sono stati affiancati altri percorsi tematici allo storico per valorizzare tutto il territorio tra Conegliano e Valdobbiadene, i suoi diversi paesaggi viticoli, le cantine e le bellezze storico-artistiche. Uno scenario unico in cui godere di suggestive emozioni, gustare ottimo vino e assaggiare prodotti tipici gustosi. Oltre al percorso principale, lungo circa 90 chilometri, vale la pensa imboccare e perdersi lungo le stradine che si inerpicano per i colli e scoprire, immersi in un mare di vigneti ininterrotti, panorami suggestivi, eremi e pievi, antichi mulini e sorgenti termali, castelli antichi, borghi e ville aristocratiche. Le colline del prosecco sono diventate nel 2019 il 10° sito al mondo iscritto alla categoria “paesaggio culturale”, in cui il risultato visibile è dato dall’interazione, in continua evoluzione, tra l’uomo e l’ambiente, che dà vita ad uno scenario unico.
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Apice qualitativo del Prosecco DOCG Superiore, questo vino di altissimo livello (Grand Cru, la tipologia più elevata di prosecco) deve il proprio nome ad una piccolissima area di 108 ettari nel comune di Valdobbiadene, tra le colline di San Pietro di Barbozza Santo Stefano e Saccol. È una sottozona con microclima e terreno in grado di conferire al vino particolarità uniche di grande pregio. Le uve vengono vendemmiate solo una volta raggiunta una maturazione completa con alti livelli di zucchero quando può essere garantita una buona concentrazione di sapori e aromi. Queste colline sono di formazione tettonica quando 5 milioni di anni fa si sollevarono i fondali marini: il suolo, formato da morene e arenarie, nel tempo si è modellato sino a formate uno strato di argille spesso. Argilloso, ma non eccessivamente, il terreno, ricco di nutrienti, consente un veloce drenaggio dell’acqua piovana; al contempo garantisce però alle radici della di scendere in profondità ed avere quindi una riserva. Ogni anno vengono prodotte 1,2 milioni soltanto di bottiglie denominate Cartizze, esclusivamente nella versione Spumante (secondo metodo Martinotti, cioè con la seconda fermentazione in autoclave). Le uve possono essere vinificate soltanto all’interno del comune di Valdobbiadene e può essere venduto solo in bottiglia.
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Le uve del vitigno Glera, originariamente coltivato sul pendio carsico, che costeggia il mare vicino a Trieste nella località Prosecco, erano note già in epoca romana. La viticoltura è diffusa in quest’area fin da tempi assai remoti. Una stele funeraria riporta le parole di un centurione romano, indicando i vendemmiales (celebrazioni per la vendemmia). Prima del suo genere in Italia, nel 1876 venne fondata la Scuola Enologica di Conegliano, dove nacque il metodo di spumantizzazione Conegliano Valdobbiadene ideato da Antonio Carpenè. Nel 1969 per il Prosecco prodotto nei 15 comuni tra Conegliano Valdobbiadene arriva il riconoscimento a Denominazione di Origine Controllata. Un ulteriore riconoscimento è arrivato nel 2009 con la DOCG - Denominazione di Origine Controllata e Garantita. Oltre alla versione spumante (dal più secco, il Brut, al più amabile, il Dry), questo prosecco viene prodotto in altre due versioni. Una di moderata effervescenza, il frizzante, prodotto tutt’oggi in tutte le famiglie e conservato in bottiglia sui lieviti, ed una non effervescente, il tranquillo, meno nota variante di nicchia, proveniente dai vigneti più fitti e meno produttivi. In questi due casi il termine Prosecco non è seguito dall’aggettivo Superiore.
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Manifestazione della capacità di adattamento dell’uomo all’ambiente è il ciglione, una tipologia di terrazzamento stretto ed erboso con cui è stato modellato questo aspro terreno. Invece della pietra si impiega la terra inerbita che riduce l’erosione del suolo e concorre a mantenere solidi i versanti. Oltre alle caratteristiche forme paesaggistiche, conferiscono elementi di unicità e distinzione le architetture degli impianti viticoli insieme alle tecniche di allevamento. Conseguenza di una felice interazione tra uomo e ambiente trasmessasi nei secoli, l’opera di generazioni di piccoli viticoltori ha creato un paesaggio “a mosaico”, contraddistinto da piccoli appezzamenti vitati intervallati da boschi. Da più di trecento anni su queste colline il vitigno a bacca bianca Glera (componente principale del Prosecco) ha qui trovato il proprio ambiente ideale: i versanti dei colli assicurano che la pioggia sia sempre drenata e queste viti necessitano di molta acqua ma temono il ristagno. Gli acini di questi grappoli grandi e lunghi sono giallo-dorati, i tralci sono color nocciola. Nel prosecco la Glera rappresenta almeno l’85% delle uve adoperate, mentre la frazione residua può essere costituita da verdiso, perera, chardonnay, pinot e bianchetta.
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Un paesaggio agricolo e culturale unico ed un’attività produttiva di eccellenza che ha saputo sapientemente interagire con l’affascinante natura del territorio costituiscono questo recentissimo sito UNESCO. Una terra fortunatamente ancora estranea al turismo dei grandi numeri, che sa ammaliare, grazie ai panorami suggestivi, alle sue pievi e abbazie, agli antichi borghi e ai castelli, alle città murate e alle ville venete. Le colline del prosecco sono il 10° sito al mondo iscritto alla categoria “paesaggio culturale”, in cui il risultato visibile è dato dall’interazione, in continua evoluzione, tra l’uomo e l’ambiente. Dato che questi erti pendii (che talvolta raggiungono anche il 70%) rendono difficoltoso il lavoro meccanizzato, le vigne sono state sempre gestite da piccoli produttori che con amore hanno preservato queste splendide colline. Per coltivare un vigneto ci vogliono 600 ore (quattro volte quelle necessarie con la viticoltura meccanizzata). L’area si contraddistingue per la caratteristica conformazione geomorfologica, chiamata “hogback”, un sistema di rilievi, ripidi su entrambi i fianchi, con una stretta cresta che si allungano da est a ovest e tra i quali si aprono piccole valli parallele. Un ambiente scenografico, ma non certo facile, in cui nei secoli l’uomo si è adattato, plasmando gli scoscesi pendii e affinando le tecniche agricole.
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Detto Palù della Santissima, si tratta di un’area umida alle falde dell’Altopiano del Cansiglio, dove si trovano le sorgenti del fiume Livenza. Durante i lavori di scavo di un canale di drenaggio di acque stagnanti al centro del bacino, negli anni Sessanta dello scorso secolo, furono scoperte delle strutture lignee, molteplici strumenti in pietra e frammenti ceramici riconducibili ad un villaggio del Neolitico (seconda metà del V - prima metà del IV millennio a.C.). La copiosa disponibilità d’acqua (grazie alle tre sorgenti del Livenza), la particolarità geomorfologica del bacino e un ambiente assai ricco di risorse naturali hanno fatto in modo che fin dalla preistoria il sito fosse favorevole all’insediamento dell’uomo. La più ampia e intensa frequentazione della zona avvenne durante la fase finale del Neolitico con lo sviluppo di un abitato palafitticolo. Negli anni ‘90 del secolo scorso sono stati rinvenuti frammenti ceramici e strumenti in pietra scheggiata, ma anche un grande vaso e qualche frammento di pagaia in legno. Le insolite condizioni conservative del materiale organico ricoperto dall’acqua e le indagini e le ricerche archeologiche subacquee degli ultimi decenni hanno permesso una straordinaria conoscenza di queste primissime società contadine.
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Durante i primi anni del Cinquecento a Trieste si sentì la necessità di distinguere la ribolla da quella prodotta nei territori dei goriziani e istriani, che avevano costi inferiori. Venne di conseguenza definita una precisa geolocalizzazione, che si identificava con il luogo di produzione dell'antichità, il castellum nobile vino Pucinum, che coincideva con il Castello di Prosecco, nei pressi della omonima località di Prosecco. Il vitigno, vero elemento caratterizzante del Prosecco delle origini, si diffuse dapprima nel Goriziano, poi – tramite la Serenissima – anche in Dalmazia, a Vicenza e nel Trevigiano. Col passare dei secoli, la produzione nella zona d'origine andò scemando, ma vide un crescente sviluppo proprio nell'attuale provincia di Treviso, fra le colline di Conegliano, Asolo e Valdobbiadene. Il termine "Prosecco" comparve per la prima volta nel poemetto Il Roccolo Ditirambo, scritto nel 1754 da Valeriano Canati sotto lo pseudonimo di Aureliano Acanti, che scrive: "(...) Ed or ora immollarmi voglio il becco con quel melaromatico Prosecco...".
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Gli insediamenti sono stati iscritti nella lista del Patrimonio mondiale perché fondamentali per la comprensione delle prime società agrarie e dell’evoluzione delle comunità tra Neolitico e Età del Bronzo nelle aree alpine. Tali insediamenti preistorici, databili tra il 5000 e il 500 a.C., sorsero sulle rive di laghi, fiumi o in zone di torbiera. Grazie all’ambiente umido le condizioni conservative sono eccezionali, perché hanno permesso la sopravvivenza di quei materiali organici che oggi ci raccontano lo sviluppo di metallurgia, agricoltura e zootecnia e l’interazione di queste comunità con il territorio. Tipiche di questi insediamenti erano le capanne di paglia, legno o canne, erette su piattaforme lignee poggianti su pali fissati alla riva o nel fondo di laghi, fiumi, paludi o lagune, talvolta anche sul terreno asciutto. Tra le tipologie più conosciute vi sono le palafitte aeree, costruite su impalcature sospese sull’acqua e quelle di bonifica che sorgono su impalcature poggiate sulle rive del corso d’acqua o del lago. Vivere in questi villaggi aveva svariati vantaggi: consentiva di restare vicino alle fonti d’acqua e cibo, di proteggersi da animali o nemici e di adattarsi ai cambiamenti dei livelli dei laghi o dei fiumi.
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Di straordinaria importanza geologica, naturalistica e paesaggistica, questo sito si trova al confine ovest della provincia di Trento, nella parte più occidentale della regione dolomitica. Separate geograficamente dagli altri gruppi, le Dolomiti di Brenta se ne differenziano anche dal punto di vista morfologico, con imponenti strutture modellate dall’erosione in pinnacoli e guglie dalle molteplici forme e dimensioni: paradiso per escursionisti e alpinisti. L’area è tutelata dal 1988 dal Parco Naturale Adamello Brenta (il cui simbolo è l’orso). Esteso su una superficie di oltre 62.000 ettari, presenta una grande varietà di fauna: martore, volpi, tassi caprioli, camosci, stambecchi, cervi; più rari galli forcelli e cedroni, orsi e aquile. Fino a 1.800 metri boschi di aghifoglie ricoprono le pendici delle montagne, mentre più in alto, fino a sopra i 2.500 metri si trovano praterie e vegetazione rupestre. In estate vi è un’ampia scelta tra una fitta rete di percorsi escursionistici. Da non perdere anche il Lago di Molveno, tra i più belli del Trentino. Si trova qui il ghiacciaio dell’Adamello, uno dei più grandi d’Europa. Grazie ad un’eccezionale varietà di rocce, dal 2008 l’Adamello Brenta è anche geoparco.
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È un sentiero circolare che mira ad avvicinare l’escursionista al paesaggio naturale e culturale del Parco naturale Puez-Odle. I vari luoghi di sosta sono provvisti di pannelli di legno che raccontano genesi e particolarità naturalistiche del parco. È una strada sterrata dal fondo compatto, quindi praticabile anche ai visitatori in sedia a rotelle; inoltre, per le persone non vedenti sono state allestite alcune stazioni in scrittura Braille. La vegetazione annovera specie proprie del paesaggio d’alta montagna: pino cembro, abete rosso e larice, oltre a moltissime varietà di fiori come genziane blu, rododendri, stelle alpine, scarpette della Madonna, fiori di croco, papaveri alpini. Anche la fauna è quella tipica delle Alpi: marmotte, caprioli, camosci, cervi. Tra gli uccelli: gufi reali, fagiani di monte, galli cedroni. Grazie all’importanza e alla varietà geologica del suo territorio e ai suoi paesaggi, il Parco Naturale Puez-Odle viene spesso definito “il libro di storia della Terra”: presenta infatti tutti gli strati rocciosi caratteristici delle Dolomiti. Il parco naturale comprende i monti del gruppo Puez-Odle, quello Plose-Putia e quello dell’altopiano del Puez con il Sassongher.
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Il sistema, racchiuso tra Piave, alto corso del Tagliamento, Val Tramontina e Val Cellina, si estende nelle province di Pordenone e Udine e, per un breve tratto, anche in quella di Belluno. Sono un gruppo piuttosto unitario e compatto, un susseguirsi assai suggestivo di picchi e cime che offre inaspettati scenari e panorami straordinari. Ad esempio, nel gruppo degli Spalti di Toro (nell’alta Val Cimoliana) si trova lo spettacolare Campanile di Val Montanaia: prodotta dell’erosione alpina, è una guglia dolomitica di selvaggia bellezza. Per difendere e valorizzare il patrimonio geologico naturalistico del sistema, nel 1996 è stato istituito il Parco naturale delle Dolomiti Friulane: un’area di 37.000 ettari non attraversata da strade. Più che altrove, è qui possibile osservare tutta la potenza della natura con pochi segni di antropizzazione. La fauna comprende cervi, stambecchi, camosci, caprioli, aquile reali, picchi neri e perfino alcuni orsi giunti dal Tarvisiano. Anche la flora è molto varia: salendo dal fondovalle si incontrano distese di pino mugo, boschi di larice e di faggio; più in alto le praterie lasciano spazio alle rocce. Moltissimi gli arbusti alpini e i fiori (genziane, orchidee, rododendri, stelle alpine). Sono qui presenti anche molte rarità botaniche.
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Le Dolomiti devono il loro nome al geologo e naturalista francese Déodat de Dolomieu (1750-1801) che studiò per primo il caratteristico tipo di roccia della regione, prevalentemente calcarea, composta da carbonato doppio di calcio e magnesio. La genesi di questa roccia cominciò in un ambiente marino tropicale con calde acque poco profonde in cui si accumularono conchiglie, alghe e coralli (circa 250 milioni di anni fa, nel Triassico). Accumulatisi sul fondo di questo mare, centinaia di metri di sedimento diventarono roccia. In seguito, lo scontro tra la placca africana e quella europea fece alzare tali rocce a oltre 3000 metri sopra il livello del mare (orogenesi alpina). La composizione chimica minerale di queste rocce conferisce loro una particolare colorazione rossastra e diverse sfumature dal rosa al viola soprattutto al tramonto. È il cosiddetto fenomeno dell’enrosadira (“diventare di color rosa”), segno caratteristico delle Dolomiti e del loro eccezionale fascino. La definizione “Dolomiti” apparve per la prima volta in una guida edita a Londra nel 1837. Quando nel 1864 J. Gilbert e G.C. Churchill, due naturalisti inglesi, pubblicarono il loro racconto di viaggio The Dolomite Mountains, il termine fu infine diffuso a livello europeo.
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Con un’estensione di circa 22.000 metri quadrati, l’Orto conserva circa 7.000 esemplari appartenenti a 3.500 specie diverse. Grazie ai rapporti commerciali della Serenissima fino in estremo Oriente, nonché alle spedizioni dei prefetti, apparvero qui, per la prima volta nel Vecchio Continente, piante nuove, rare ed esotiche quali la patata, l’agave, il sesamo, la fresia, il girasole, il lillà. Le collezioni comprendono piante medicinali, velenose e insettivore, piante introdotte per la prima volta in Italia dall’Orto stesso, piante dei Colli Euganei, specie rare, piante carnivore, grasse e acquatiche. L’albero più vecchio è la Palma di Goethe messa qui a dimora nel 1585, conosciuta con questo nome da quando, dopo averla contemplata nel 1786, il poeta tedesco enunciò la sua intuizione evolutiva nel Saggio sulla metamorfosi delle piante (1790). Si possono inoltre ammirare, tra gli altri: un maestoso ginkgo all’interno della Porta Nord, importato nel 1750; un imponente platano orientale (1680) che continua a vegetare nonostante il fusto sia cavo a causa di un fungo; una magnolia, piantata probabilmente nel 1786, è considerata la più antica d’Europa; un cedro dell’Himalaya messo a dimora nel 1828, il primo esemplare di tale specie in Italia; una metasequoia (1961) detta “abete d’acqua” (il suo habitat ideale è il terreno ricco di acqua).
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L’Orto Botanico di Padova è stato creato nel XVI secolo e continua da allora la sua attività in qualità di centro scientifico. Iscritto dal 1997 nella lista del patrimonio mondiale UNESCO, è l’orto botanico più antico del mondo e il solo ad aver mantenuto sede e struttura originarie essenzialmente immutate. A causa dei dubbi circa l’identità di molteplici piante medicinali, all’epoca era frequente l’utilizzo di essenze sbagliate, talora perfino tossiche. Si verificavano inoltre casi di sofisticazione, soprattutto con le poco note e costose droghe esotiche. In seguito alle incalzanti richieste di studenti e docenti di arricchire l’insegnamento teorico di Lectura simplicium (con dimostrazioni pratiche), i Pregadi della Repubblica di Venezia decisero di realizzare un Horto medicinale annesso allo Studio patavino. Si rispondeva così a concrete esigenze di tutela della salute pubblica e gli studenti imparavano inoltre a identificare più agevolmente i “semplici” (le piante medicinali). L’Orto fu realizzato su un terreno del monastero benedettino di Santa Giustina: direttore dei lavori fu Andrea Moroni, responsabile della fabbrica cinquecentesca di quella basilica, mentre alle scelte progettuali intervenne il colto patrizio veneziano Daniele Barbaro (per il quale Palladio realizzò la famosa Villa di Maser).
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Committente fu il nobile canonico Paolo Almerico. Tra le espressioni più alte del genio palladiano, è una residenza suburbana progettata come un tempio grazie all’uso di volumi puri e simbolici come la sfera e il cubo. La villa ha pianta centrale: è un quadrato i cui vertici si rivolgono verso i quattro punti cardinali, con un salone circolare centrale su cui si imposta la cupola. Esternamente un pronao ionico, anticipato da scalinate e con frontone coronato da statue, si ripete identico sui quattro lati. Anche l’interno è caratterizzato da una assoluta simmetria che ruota intorno all’asse del salone centrale. La villa si sviluppa su tre livelli: pian terreno con locali di servizio, alla quota dei pronai il piano nobile e infine il piano attico, in origine usato come granaio, poi tramezzato. Fu conclusa nel 1620 dallo Scamozzi. Palladio fu in grado di proporre ai suoi abbienti committenti un modello di villa rurale capace di contentare sia le esigenze funzionali al governo del territorio circostante della proprietà agricola che la sua gestione. Senza perdere però di vista esigenze ricreative ed estetiche e desiderio di auto-rappresentazione dei committenti, nuovi gentiluomini di campagna portatori di una raffinata cultura cittadina.
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Palazzo Chiericati fu progettato in funzione di residenza nobiliare per i conti Chiericati; per il palazzo l’architetto adottò una tipologia che ricorda quella delle sue ville e comunque inedita per le dimore cittadine. La fabbrica risulta rialzata su un podio come i templi antichi, in realtà per essere protetta dai bovini che stavano nell’antistante mercato e dalle esondazioni del fiume. Portato a termine nella seconda metà del XVII secolo, oggi ospita il Museo Civico. Simbolo della rinascita del classicismo, la realizzazione del Teatro Olimpico rispondeva all’ispirazione umanistica di costruire una grande struttura teatrale come quelle dell’antichità classica. È il più antico teatro coperto del mondo: un grande proscenio rettangolare (dai cui ingressi partono a raggiera sette scene lignee prospettiche, opera dello Scamozzi) e una cavea semiellittica inscritta in un rettangolo schiacciato. La scena fissa è una ricostruzione ideale della città di Tebe. Già settantenne, Palladio ne diresse i lavori fino alla morte. La direzione passò poi al figlio Silla e infine a Vincenzo Scamozzi.
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Il nucleo dell’edificio è costituito dal gotico Palazzo della Ragione, che il Maestro rivestì con le celebri logge a partire dal 1546. A fine Quattrocento l’antica sede dell’autorità civile era cinta da un doppio ordine di logge che però crollarono. L’incarico di ricostruzione venne vinto da Palladio, preferito a celebrità quali Sansovino, Serlio, Sanmicheli e Giulio Romano. Sarà il trentottenne architetto a coniare, per il palazzo, coerentemente ai propri ideali, il nome di “basilica” (come nell’antica Roma il luogo deputato alla gestione di politica e affari). È questa la sua prima importante commissione pubblica, che lo consacrerà ufficialmente come architetto della città. Il progetto si basa sulla ripetizione del modulo della “serliana” (composta da un arco affiancato da due aperture laterali rettangolari). L’edificio è fasciato su tre lati da un doppio ordine di logge (al piano terra tuscaniche e al primo ioniche); la parte sommitale dei muri è decorata a losanghe; la copertura è a carena di nave. Assieme alla Basilica, la Loggia del Capitaniato connota l’immagine di Piazza dei Signori, principale spazio pubblico della città, qualificandone in misura straordinaria il valore urbanistico e simbolico di centro del tessuto cittadino e luogo identificativo dell’identità urbana.
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Il fatto che Vicenza sia nota come la “Città del Palladio” ci fa capire quanto sia importante il lascito impresso da un singolo artista. La maggior parte della produzione architettonica di Palladio fu realizzata in città a partire dal 1540: si tratta di committenze private e pubbliche, che cambiarono profondamente l’aspetto di Vicenza. Non solo i suoi interventi urbani hanno mutato la configurazione della città, ma tutta la sua opera ha notevolmente influenzato l’architettura europea ed extraeuropea, tanto che si diffuse il cosiddetto “palladianesimo”. Andrea Palladio non ebbe alcuna formazione artistica. Mentre lavorava nel cantiere della villa suburbana di Cricoli, tra il 1535 e il 1538, incontrò il committente: poeta e umanista, ma anche ambasciatore e architetto, Giangiorgio Trissino ne intuì il genio e lo prese sotto la sua protezione, stravolgendone vita e carriera. Guidandolo nella formazione culturale rivolta principalmente allo studio dei classici, lo soprannominerà “Palladio”. Noto per l’armonia delle proporzioni delle sue architetture e lo stile misurato, divenne famoso anche in Laguna, dove progettò soprattutto edifici sacri, come il SS. Redentore e San Giorgio Maggiore. A Venezia fu anche consulente architettonico della Serenissima.
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Nel 1994 la città di Vicenza è diventata parte del patrimonio mondale in quanto essa rappresenta un’opera unica frutto del genio di Andrea Palladio, che non solo ha lasciato un’impronta originale all’interno del territorio veneto, ma ha anche influenzato gli stili architettonici che si sono sviluppati in Europa e nel Nord America. L’antica Vicetia sorse nel II secolo a.C. su un insediamento della seconda Età del Ferro e divenne municipium romano nel 49 a.C., distinguendosi per la presenza di importanti edifici di cui sono visibili ragguardevoli tracce. Nell’arteria principale segnata dall’attuale corso Palladio è riconoscibile il decumano massimo, tratto urbano della via Postumia. Dal Quattrocento, grazie alla favorevole posizione geografica, alla vicinanza alle principali vie di comunicazione fluviali e terrestri, ma soprattutto grazie alla dominazione veneziana, che assicurò un lungo e pacifico periodo di stabilità, Vicenza fiorì. La cinta muraria fu ampliata e la città medievale si sviluppò uniformemente. Le aree più centrali si arricchirono di sfarzosi palazzi, ispirati all’architettura gotica veneziana. L’impianto assunto in quest’epoca resterà uguale fino agli ampliamenti del secondo e tardo XIX secolo.
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