Napoli Noir

Esplora il lato oscuro della città partenopea. Un viaggio attraverso le storie dei delitti avvenuti nei palazzi e per le vie di Napoli. Loquis vi trasporta in questo racconto misterioso e inquietante della città principale del sud Italia. - Scarica l'app Loquis per iOS e Android.

L’attentato Di Via Calata San Marco

Il 14 aprile 1988 in via Calata San Marco c’è più fermento del solito: in quella strada c’è la sede dell’USO, un circolo frequentato da soldati americani, che quella sera è intento a organizzare i preparativi per una festa in onore di un cacciatorpediniere che qualche ora prima è attraccato al porto. Sempre sulla stessa via, ma a una cinquantina di metri dal circolo, ci sono anche tre dipendenti della società di Italgrani i cui uffici stanno per chiudere. Infine, per strada, come tutti i giorni c’è Antonio Gaezza, ribattezzato dai soldati americani “Popeye” come il popolare personaggio dei cartoni animati, che di mestiere fa il venditore di souvenir. Sarebbe una serata di fine lavoro per alcuni e di inizio festeggiamenti per altri, se non ché in quella via entra in scena un terzo personaggio: ha i tratti orientali e si aggira con un pesante borsone che lascia di fronte al civico dell’USO. Non sono neanche le 20 quando un’esplosione fortissima devasta via Calata San Marco: la strada si riempie di fumo, le auto vanno in fiamme, mentre le persone impazzite scappano in cerca di un riparo. Quel giorno una bomba è esplosa lasciando rovine, macerie, ma soprattutto cinque morti: quello di Popeye, quello dei tre dipendenti dell’Italgrani e quello di una donna che stava uscendo dal circolo USO. Investigatori italiani e statunitensi si attivano subito per cercare i colpevoli di quella strage e si arriva presto a un nome: è Junzo Okudaira, giapponese e già noto alla legge con il nome di “samurai della morte”. E’ infatti uno dei leader dell’Esercito Rosso, organizzazione nipponica con relazioni piuttosto forti con la jihad islamica. Quando inizia il processo l’imputato però non è purtroppo in aula e Okudaira continua tuttora a scampare alla legge sembrando un fantasma. Dal punto di vista processuale, dunque, la strage di Calata San Marco si conclude con cinque morti, ben sedici feriti e nessun colpevole.

02-05
01:58

L’omicidio Del Piccolo Silvestro: Violentato E Dato Alle Fiamme In Un Noccioleto

Il piccolo Silvestro Delle Cave aveva appena nove anni quando scomparve una mattina di novembre prima di entrare a scuola. Alla sua cuginetta, con la quale stava per varcare la soglia dell’istituto, disse di dover tornare a casa a prendere delle cose ma da quel momento si persero sue notizie. Fu l’idea di una maestra, che chiese ai suoi compagni di classe di scrivere un tema su Silvestro, che si rivelò fruttuosa per le indagini: venne infatti fuori che il piccolo, fin dalla seconda elementare, era solito girare con un portafogli pieno di soldi. Una quantità spropositata per un bimbo della sua età, una somma che di certo non aveva avuto dai suoi genitori. Silvestro era solito spenderli ai videogame ed era un grande frequentatore di bar nei quali passava il tempo a giocare, marinando la scuola. Solitamente quei bar, soprattutto di mattina, erano frequentati da adulti o anziani non sempre mossi da buone intenzioni. Anche grazie al fiuto di un cane poliziotto, spinto in un’abitazione vicino alla scuola frequentata da Silvestro, si chiuse presto il cerchio sul caso del piccolo Silvestro: vennero arrestati tre uomini dalle cui deposizioni emerse una lugubre storia di violenze e abusi sessuali nei confronti del bambino. La mattina dell’8 novembre Silvestro non entrò a scuola per andare al bar a giocare alle macchinette, prima però passò chiedere dei soldi a uno dei tre individui. L’anziano acconsentì, a patto che salisse a casa. Abusò di lui, e sicuramente non fu la prima volta, ma in quel momento entrò inaspettatamente in scena un terzo uomo. Anche lui voleva violentare Silvestro che però si ribellò, minacciandoli di raccontare tutto ai genitori. Per via di questa spiazzante reazione del piccolo, i due pedofili si trasformarono in feroci assassini uccidendo Silvestro a colpi di bastone. Chiamarono infine un terzo uomo per essere aiutati a sbarazzarsi del cadavere: lo fecero così a pezzi e lo trasportarono in un noccioleto nel Nolano dove lo diedero alle fiamme. L’agghiacciante racconto dell’uomo permise di condannare tutti e tre gli imputati a molti anni di carcere. Questi che rimasero comunque impassibili e disinvolti per tutta la durata del processo.

02-05
02:15

Il Musicista Ambulante Ucciso Dalla Camorra Alla Stazione Di Montesanto

Petru Birlandeanu fa il musicista ambulante per le strade di Napoli. Ha lasciato tutti i sogni di gioventù nel suo paese d’origine, la Romania, in cui giocava come centravanti in una squadra che militò anche in serie A. Lì infatti il calcio non è uno sport che arricchisce e così è arrivato in Italia convinto che suonando la sua fisarmonica avrebbe sfami più facilmente moglie e figli. Si sta facendo sera e quel giorno Petru e sua moglie stanno suonando vicino la stazione di Montesanto della Cumana. Non sanno che proprio lì affianco abita un membro di un clan camorristico colpevole di aver sottratto a un’altra famiglia alcune piazze per lo spaccio di droga. Proprio quell’abitazione quella sera è stata scelta come oggetto di un’azione dimostrativa da parte di alcuni criminali che, in sella a due scooter, cominciano a fare fuoco sulla porta del palazzo. Poco importa se a quell’ora la strada è gremita di gente: i killer, in preda a un delirio di onnipotenza, sparano in ogni direzione, ferendo un quattordicenne alla spalla e Petru al petto e a una gamba. Il musicista, agonizzante, trova riparo all’interno della stazione ma morirà prima dell’arrivo dei soccorsi. Un video pubblicato qualche tempo dopo dai quotidiani permette alle indagini di trovare i colpevoli del delitto, mandando alla sbarra tre degli uomini che quella sera parteciparono all’agguato. Lo stesso video testimonia però la tragica indifferenza dei passanti che, anche di fronte a quell’uomo agonizzante, parlano al telefono o obliterano i biglietti con una freddezza agghiacciante.

02-05
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Striscia La Notizia E Il Suicidio Di Lucio Montaina In Via Filippo Briganti

Nel gennaio del 2012 una troupe di Striscia la notizia, noto programma televisivo in onda su Canale 5, si mobilita per verificare la veridicità di alcune segnalazioni secondo le quali alcuni dipendenti del Catasto di Napoli rendono più rapide alcune pratiche a seguito di mazzette di venti euro. Una quota piuttosto modesta che si giustifica nell’innumerevole quantità di persone disposte a pagarla pur di non perdere tempo tra file e sportelli. E’ così che la troupe ingaggia un’attrice che fa da esca e che a seguito del pagamento di venti euro ottiene dei documenti altrimenti inaccessibili, confermando inoltre le numerose segnalazioni sul tema. Le immagini della registrazione sono piuttosto eloquenti e l’impiegato colto in flagrante viene presto licenziato per dimostrare che nessuno può passarla liscia. Oltre la perdita del lavoro, l’uomo si ritrova presto senza soldi e con la fama di corrotto. Pur essendo solo uno dei tanti a partecipare a quel sistema di corruzione, è l’unico ad essere punito, forse come monito agli altri che portavano avanti quell’illecita pratica. Quell’uomo è Lucio Montaina e i suoi nervi vanno presto in pezzi. Un tragico epilogo si consuma la mattina del 18 gennaio, quando l’uomo si getta dal palazzo in cui abitava in via Filippo Briganti. Montaina non aveva retto alla vergogna, schiacciato dal peso di quei venti euro presi illecitamente e documentati da una trasmissione al limite tra l’inchiesta e lo sciacallaggio. La colpa di quella tragedia viene addossata infatti interamente a Striscia la notizia, mentre la storia dell’impiegato si chiude con un’ultima colletta: quella per la corona di fiori comprata dai suoi colleghi il giorno del funerale.

02-05
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Omicidio Di Pasquale Romano, Morto Per Un Sms Che Non Arrivò

Pasquale Romano, da molti conosciuto come Lino, e Rosanna vengono da due famiglie per bene e vivono un felice fidanzamento. Stanno addirittura pensando al matrimonio e aspettano solo una maggiore stabilità economica per realizzare il loro grande sogno. La sera del 15 ottobre Lino è passato a casa della sua fidanzata, nel quartiere di Marianella, per un saluto fugace prima di andare a giocare una partita di calcio con i suoi amici. Uscito dal portone e salito a bordo della sua auto, viene però raggiunto da alcune persone che stazionavano sotto il palazzo e che gli scaricano addosso una serie innumerevole di colpi di proiettili. Quell’impressionante sequenza di spari allarma allora Rosanna che si precipita fuori dal portone e che apprende la terribile notizia della morte di Lino. Il giovane però quegli uomini non li aveva mai visti, come i killer non avevano mai visto Lino: si trattava infatti di un terribile caso di scambio di persona, un errore degli assassini che quella sera avrebbero dovuto giustiziare un altro uomo e che uccisero per sbaglio un innocente. A svelare il tragico scenario in cui si consumò il delitto fu Anna Altamura, una zia della fidanzata di Domenico Gargiulo, appartenente a una banda criminale da tempo in lotta con gli “scissionisti” per la gestione del traffico di droga. Altamura dichiarò agli agenti di essere stata coinvolta in un’imboscata ai danni di Gargiulo: quella sera era stata infatti invitata a cena dalla nipote, che viveva nello stesso palazzo di Rosanna, e dal compagno e che in accordo con i killer aveva il compito di inviare loro un SMS non appena Gargiulo fosse uscito di casa. I banditi però non attesero quel segnale e cominciarono a sparare sul primo ragazzo uscito dal portone senza farsi troppe domande e convinti che quella fosse la vittima predestinata. Mandanti ed esecutori finirono presto in manette e giustizia fu fatta. Da uno degli assassini saltò fuori un’assurda spiegazione sul perché continuò a sparare su Lino anche una volta resosi conto che stava facendo fuoco su un innocente. L’uomo, infatti, rispose agli agenti dicendo: «Io quando poi inizio a sparare non mi fermo più».

02-05
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Omicidio Liguori: Ucciso Per Errore In Via San Giorgio Vecchia

Mary Liguori è una preziosa collaboratrice di “Il Mattino” per cui scrive di cronaca nera in una Napoli spesso affollata da piccoli e grandi episodi di violenza. Mary però ha le spalle larghe e porta avanti con serietà, rigore e passione la sua professione. Con lo stesso piglio, la mattina del 13 gennaio 2011, su richiesta della redazione, si sta recando in via San Giorgio Vecchia poiché, a seguito di una sparatoria, sono state uccise due persone. Quella strada Mary la conosce bene: è lì infatti che il padre Vincenzo ha la sua officina dove lavora come meccanico. Mentre si sta recando sulla scena del crimine, in redazione arrivano però aggiornamenti sull’agguato: dei due uomini uccisi solo uno era un camorrista, l’altro era solo un povero innocente ucciso da una pallottola vagante. Quella vittima innocente era proprio il papà di Mary e, appena i suoi colleghi se ne rendono conto, chiamano la ragazza per invitarla a non andare più sul luogo poiché quel fatto di cronaca sarebbe stato affidato ad un'altra persona. Quando arriva la chiamata, Mary però è già sul posto e apprende presto la tragica notizia: il papà è morto, colpito per errore alla schiena da una delle pallottole scaricate contro il malavitoso Luigi Formicola. La notizia per la ragazza è raggelante e la situazione si fa ancora più assurda poiché la risoluzione del caso viene ostacolata dall’omertà dei testimoni che hanno assistito alla scena. Il rischio che il delitto di Vincenzo Liguori resti impunito viene scongiurato solo quando uno dei componenti della banda che l’ha organizzato finisce in manette e decide di collaborare con la giustizia. Così, a quasi due anni di distanza, altre tre persone vengono arrestate per l’omicidio di Vincenzo Liguori, anche conosciuto come Enzuccio o’ ciclista.

02-05
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Omicidio Buonocore, Uccisa Per Aver Denunciato Chi Molestò Sua Figlia

Quando la mattina del 20 settembre del 2010, Teresa Buonocore uscì di casa per andare al lavoro, non si accorse affatto di essere seguita da due persone in sella a un motorino. Arrivata in via Ponte dei Francesi, lo scooter si affiancò però all’auto della donna e l’uomo seduto sul sellino posteriore estrasse la pistola sparando ripetuti colpi su Teresa, che morì accasciata sul volante. Un’esecuzione che, a prima vista, sembrò avere tutte le caratteristiche di un delitto della camorra ma che fece emergere verità ben più torbide. A dare una svolta alle indagini fu un fatto fortuito, ossia la denuncia da parte di due giovani del furto di uno scooter la cui descrizione era perfettamente compatibile con il mezzo usato dai killer per compiere l’omicidio. A far trapelare la verità fu l’atteggiamento bizzarro e contraddittorio di uno dei due giovani che portò gli agenti a fare un controllo più approfondito sul suo nome e che permise di chiudere il cerchio sul delitto di via Ponte dei Francesi. L’uomo aveva infatti testimoniato a favore di Enrico Perillo, un uomo contro cui aveva invece testimoniato Teresa per aver molestato più volte la figlia e un’altra sua amichetta. Perillo, condannato al carcere e al pagamento di un risarcimento, aveva a sua volta minacciato la figlia di Teresa, che all’epoca aveva otto anni, dicendole che avrebbe fatto del male alla madre se le avesse mai detto qualcosa. Fu così che quella minaccia si tramutò in fatti e i due uomini, messi sotto torchio dagli inquirenti, confermarono infine di essere stati assoldati da Perillo per vendicarlo. L’uomo si dichiarò sempre estraneo ai fatti, arrivando per di più a infangare il nome della donna calunniandola di avere brutte frequentazioni. I magistrati lo condannarono però come mandante del delitto, mentre i due uomini vennero arrestati come esecutori materiali dell’omicidio. L’ultima beffa per i familiari di Teresa arrivò dopo la condanna all’ergastolo di Perillo: l’uomo infatti non diede loro neanche un euro del risarcimento poiché riuscì a liberarsi di tutti i suoi beni, risultando quindi nullatenente.

02-05
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Il Delitto Del “Re Del Grano” E Di Sua Moglie, Massacrati Nella Loro Villa In Discesa Gaiola

“Il re del grano”, così Franco Ambrosio era stato ribattezzato dai media per via del suo sontuoso conto in banca costruito grazie alla sua attività nel settore cerealicolo. A un fiorente periodo lavorativo, per via di alcune disavventure imprenditoriali, ne era però seguito uno meno radioso. Accusato e indagato per alcuni crimini finanziari, Ambrosio ne era comunque uscito pulito e aveva mantenuto un certo benessere economico che permetteva a lui e a sua moglie di vivere nella luccicante villa in discesa Gaiola. Il giorno in cui vennero rinvenuti i cadaveri dei coniugi, morti ammazzati proprio nella loro abitazione, il movente non ebbe però nulla a che fare con un raid punitivo, bensì con una goffa rapina finita male ad opera di tre maldestri ladruncoli rumeni che finirono poi all’ergastolo per omicidio. Tra i malviventi vi era anche un giardiniere che fino a qualche mese prima aveva lavorato per Ambrosio. L’uomo, insieme a tre complici, si era introdotto nella villa pensando che fosse disabitata. Dopo essersi ubriacata, la banda fece irruzione nell’abitazione e si trovò però di fronte il proprietario. Forse i fumi dell’alcol fecero perdere la ragione ai malviventi che, mal gestendo l’imprevisto, uccisero barbaramente il proprietario di casa e poi la moglie, accorsa nella stanza dove il marito stava agonizzando sotto i colpi di un girabacchino, un arnese utilizzato per avvitare i bulloni delle ruote delle auto, inferti dagli aguzzini. La banda, dopo aver compiuto il duplice omicidio, non si fermò a depredare le ricchezze degli Ambrosi, si prese piuttosto tutto il tempo per mangiare e bere quanto era riposto nella cucina dei coniugi, lasciando la villa solo all’alba. Le indagini misero presto in manette i colpevoli. Il giardiniere infedele, una volta condannato all’ergastolo, chiese più volte perdono ai familiari della vittima, ma il tentativo di riparare a quell’inutile spargimento di sangue si rivelò tanto tardivo quanto inefficace.

02-05
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La Piccola Di Due Mesi Uccisa Dallo Zio In Via Filomarino

Il 14 novembre 2010, nel suo appartamento in via Filomarino 7, la signora Regina è molto felice: può finalmente godersi un po’ di tempo con la piccola Sofia, la nipotina nata da poco meno di due mesi che la figlia e il compagno le hanno affidato per concedersi un po’ di tempo in compagnia di amici. Regina però quel giorno non è sola in casa, con lei c’è anche il figlio Raffaele Antonio Spinelli, un giovanotto di 29 anni conosciuto anche con il soprannome di Lello. La bambina si addormenta presto, ma come tutti i neonati ogni tanto si sveglia e piange forte. Sentendo le grida della piccola, la donna si appresta a consolarla, stringendola e cullandola tra le braccia. Prima che Sofia smetta di piangere arriva però Lello che pretende di occuparsi della bambina, chiedendo di prenderla in braccio. Il ragazzo sembra, in fondo, contento di passare un po’ di tempo con la propria nipotina e la nonna, dopo qualche insistenza gliela consegna. Sofia però nelle braccia di Lello sembra tutt’altro che calmarsi: piange ancora più forte, tanto che Regina insiste per farsela ridare in braccio. Qualcosa è scattato nella mente di Lello: forse l’atteggiamento della madre, “colpevole” di avergli sottratto Sofia con forza. Il ragazzo le riconsegna allora la piccola, esce dalla stanza ma torna poco dopo con un coltello da cucina con il quale colpisce la nipotina alla gola, uccidendola sul colpo. La terribile tragedia fu l’apice del tracollo psichico di Raffaele Antonio Spinelli al quale era già stato diagnosticato un grave disturbo bipolare che era stato tenuto a bada dai farmaci. Una misura che purtroppo non si rivelò però efficace e che portò alla morte una piccola innocente di appena cinquantaquattro giorni.

02-05
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Delitto Di Gianluca Cimminiello, Il Tatuatore Ucciso Per Una Foto Su Facebook

Gianluca Cimminiello vive a Casavatore, dove porta avanti l’attività di tatuatore nel suo studio “Zendark Tattoo” e dove coltiva le sue tante passioni tra cui annovera le arti marziali e il Napoli, di cui è fervido tifoso. Proprio sulla scia dell’entusiasmo per essere riuscito a scattare una foto insieme al grande campione del Napoli Ezequiel Lavezzi, Cimminiello realizza un fotomontaggio in cui i due sembrano essere stati immortalati proprio nello studio di Gianluca. Basterebbe leggere i commenti sotto quel post per dedurre che si tratta solo di un fotomontaggio, ma quell’idea sembra non essere comunque piaciuta alla concorrenza che vede in quella foto la possibilità che lo studio di Gianluca diventi più famoso e quotato del suo. Si tratta della gelosia di Vincenzo Donniacuo, un altro tatuatore che si rivolge a un clan camorristico affinché Gianluca riceva una lezione. La spedizione punitiva non sortisce però l’effetto sperato: quando tre uomini entrano nello studio di tatuaggi, nonostante mostrino un coltello e abbiano l’aria tutt’altro che pacifica, vengono bloccati da Gianluca che mette in pratica la sua abilità nelle arti marziali, stendendo con un colpo uno degli aggressori. Proprio quell’affronto porta però, qualche giorno più tardi, a far tornare un uomo armato nel negozio che stavolta aggredisce Gianluca sparandogli due colpi di pistola. Il ragazzo non fa in tempo ad arrivare in ospedale e muore quasi sul momento. Grazie alla testimonianza della fidanzata, presente nel locale il giorno del delitto, e di alcuni pentiti della camorra viene riconosciuto e arrestato Vincenzo Russo, ritenuto l’esecutore materiale del delitto. Viene poi confermato l’ergastolo per Arcangelo Abete e Raffaele Aprea, rispettivamente mandante ed organizzatore dell’omicidio, tutti appartenenti al clan terroristico. Il movente di questo tragico omicidio rimane tra i più assurdi e inverosimili. Lodevole è invece il coraggio della fidanzata di Gianluca che, per consentirgli di avere giustizia, è stata costretta a lasciare la città e vivere ora in una località segreta.

02-05
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Omicidio Raffaele De Rosa, Ucciso Per Una Partita Di Calcetto

La vita di Raffaele De Rosa a Casoria scorreva tranquilla tra il lavoro in un autolavaggio e qualche partita di calcetto. Proprio per quest’ultima passione Raffaele, in una sera d’aprile 2011, si trovava sul campo a giocare con i suoi compagni. Era una semplice partita dilettantistica, poiché il più delle volte il fair play era inesistente mentre il turpiloquio faceva da padrone. Quella sera fu per un’entrata platealmente violenta da parte di uno dei giocatori che gli animi dei giocatori si surriscaldarono: volarono parolacce, spintoni e grida. A toccare particolarmente uno dei giocatori fu un'allusione all’utilizzo di stupefacenti fatta dal fratello di De Rosa che, commentando un passaggio irruento di Salvatore Abbruzzese, gli urlò «Ma stai fatto!». Una frase che suscitò un’immediata reazione da parte di Abbruzzese che promise di vendicare quella ingiuria con il sangue. Non sembrava comunque nulla di nuovo e niente che non si sarebbe potuto risolvere davanti a una birra post partita dentro un pub. Previsione che non si rivelò però veritiera perché l’ira di Salvatore non svanì affatto e la sua minaccia si concretizzò la sera del 27 aprile nei confronti di Raffaele De Rosa. In una strada periferica di Casoria, il ragazzo venne accerchiato da sette persone che lo presero a calci e pugni e lo colpirono con una mazza da baseball. De Rosa urlò e, attirando l’attenzione di alcuni passanti, riuscì a mettere in fuga gli aggressori. A decretare la sua condanna a morte però, oltre all’agguato organizzato da Abbruzzese, fu la sua omertà che lo portò a dichiarare ai medici di essere rimasto solo vittima di un incidente stradale, rifiutando il ricovero. Raffaele morì infatti l’8 maggio per l’aggravarsi delle sue condizioni che lo portarono presto a tornare in ospedale, ma stavolta nel reparto di rianimazione dove morì poche ore dopo. Grazie a minuziose indagini i carabinieri riuscirono a risalire al reale svolgimento dei fatti, sconfiggendo il muro di silenzi e reticenze alzato persino da alcuni parenti della vittima. Tutti gli imputati vennero così arrestati e gli aggressori di Raffaele De Rosa puniti. Quella sera moriva comunque un giovane convinto che il silenzio lo avrebbe protetto, ma che invece lo portò alla morte.

02-05
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Omicidio Antonio Metafora: L’avvocato Ucciso Nel Suo Studio In Corso Umberto

Antonio Metafora è un ottimo avvocato civilista che porta avanti con serietà e dedizione la professione nel suo studio in corso Umberto. Pur non trattando di materie penali, che lo esporrebbero molto più facilmente a insidie e violente ritorsioni, non è del tutto al riparo da casi che non si svolgono in modi del tutto lineari. Uno di questi riguarda uno sfratto intimato a una società che gestisce un garage a Secondigliano che né sembra aver intenzione di saldare i propri oneri né ha intenzione di lasciare il locale. La faccenda comincia però a prendere una piega più che sinistra quando irrompe nella scena Salvatore Altieri, ventiquattrenne figlio della donna che gestisce il garage. Il ragazzo, seppur inizialmente con toni civili e garbati, manifesta chiaramente il suo volere: ottenere, senza se e senza ma, l’annullamento della procedura dello sfratto, seppur consapevole che la sua richiesta non è fondata su nessun sofisma legale. Per essere ancora più persuasivo Salvatore introduce la sua parentela a un clan della camorra, quello dei Licciardi, nella convinzione di intimidire l’avvocato. Metafora però rimane tutt’altro che impressionato e non mostra alcun segno di ripensamento rispetto a quella che ritiene essere una questione di giustizia. Nonostante le preoccupazioni del figlio che lavora con lui nello studio, dunque, non ha alcuna intenzione di tornare indietro. Salvatore prova allora a corrompere l’avvocato con una busta contenente una cospicua cifra di denaro, tentativo che si rivela ancora un buco nell’acqua e che porta il giovane a un momentaneo silenzio. Proprio quando le acque sembrano essersi calmate e di tentativi di ritorsione sembra non esserci più ombra, Salvatore e un suo amico bussano allo studio di Metafora. Sono le 20 del 5 dicembre e ad aprire la porta ai due uomini è proprio il figlio di Antonio che, riconoscendo Salvatore e considerando il suo atteggiamento pacifico, lo introduce nella stanza del padre con cui Altieri chiede di parlare. Tornato nella sua stanza però avverte dopo pochi secondi due sordi colpi di pistola provenire dalla stanza di Antonio. Il figlio, uscito dal suo studio, incontra Salvatore con la pistola ancora in mano che lo intima di non muoversi. Poco dopo troverà però il padre ormai cadavere e in un lago di sangue in mezzo ai fascicoli riguardanti il caso di sfratto. Non ci vuole allora molto a risalire al carnefice di quel delitto: Altieri verrà arrestato pochi giorni dopo e condannato all’ergastolo. Nel frattempo l’Ordine degli avvocati di Napoli annuncia che uno dei modi per non rendere vana l’uccisione di quel collega zelante è portare avanti il suo lavoro: lo sfratto viene allora eseguito il 7 aprile, alla presenza del sottosegretario agli Interni, mentre dal 2010 è stato istituito il Premio per la legalità “Antonio Metafora”.

02-05
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Il Giallo Del Dirigente Telecom Caduto Dal Ponte Della Tangenziale

Sono passate da poco le dodici, quando Adamo Bove, ex poliziotto e responsabile della sicurezza di Telecom Italia, parcheggia l’auto a lato della strada e si getta dal cavalcavia di via Cilea, nel quartiere del Vomero. Il manager muore sul colpo, dopo una caduta di circa venti metri che lo fa schiantare su una carreggiata della Tangenziale. Per l’uomo certo non era stato un periodo facile: il dirigente era infatti stato indagato per violazione della privacy nell’inchiesta sulle intercettazioni illegali che qualcuno aveva compiuto all’interno dell’azienda, per conto di terzi, ai danni di influenti personaggi della politica e dell'industria. Dunque il manager qualche preoccupazione deve averla avuta, tuttavia la famiglia accertò che non aveva mai riconosciuto negli atteggiamenti dell’uomo intenti suicidi. Che dunque Bove fosse stato istigato al suicidio e spinto da qualcuno a commettere l’estremo gesto? Se per la famiglia sembrerà sempre inaccettabile pensare che l’uomo si sia gettato da quel ponte per sua volontà, gli inquirenti chiusero il caso come un suicidio. Per la procura, dunque, nessuno lo spinse a gettarsi nel vuoto né a parole né materialmente. Secondo il magistrato, infatti, sarebbe stato sicuramente lui e soltanto lui a decidere di fermare l’auto a due passi dallo svincolo del Vomero e a buttarsi di sotto per liberarsi per sempre da quel senso di oppressione che gli aveva provocato lo scandalo sulle intercettazioni illegali.

02-05
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Il Delitto Irrisolto Del Consuocero Di Dario Fo

L'ingegnere Emilio Albanese, ex dirigente dell’Alenia, non è un pensionato qualunque perché è il papà di Eleonora Albanese, compagna di Jacopo Fo, figlio di Dario, celeberrimo artista e Premio Nobel per la Letteratura, e dell’attrice Franca Rame. Un’illustre parentela che, all’indomani della sua morte violenta, gli impedisce di sparire dalle cronache dei giornali ma che non permetterà tuttavia di portare in cella i suoi assassini. E’ il 3 maggio 2005 quando l’ingegnere esce di mattina presto dalla sua abitazione in via Santa Maria a Costantinopoli 9 per prelevare alcuni soldi dal suo conto e poi tornare a casa. A quell’ora non c’è fila agli sportelli, tuttavia nella filiale di via Toledo una banda di rapinatori ha deciso di realizzare un colpo attraverso la tecnica del cosiddetto “filo”. A Napoli questa pratica è assai diffusa e consiste nell’urtare il malcapitato all’uscita della banca, lasciare addosso alla vittima un filo che permetterà a un complice di individuare la preda e assalirla poco distante e nel momento più opportuno. Così accade anche ad Albanese che, una volta prelevato il cospicuo bottino, si accinge inconsapevole a tornare a casa. Proprio sotto al suo portone viene aggredito da alcuni uomini che dopo averlo rapinato, spaventati dalle urla dell’uomo, lo spingono facendolo cadere. L’uomo batte così la testa e muore sul colpo prima dell’arrivo dei soccorsi. Diffusasi la notizia del decesso, i media sono inevitabilmente attratti dalla notizia. A parlarne sono politici, familiari e immancabilmente anche Dario Fo. A distanza di anni però i killer che quella mattina uccisero Albanese e scapparono con i suoi soldi non sono mai stati individuati e col passare del tempo anche in questo caso, come da copione, la ricerca della verità per la sorte toccata al mite ingegnere imparentato col Premio Nobel è caduta nel dimenticatoio.

02-05
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Omicidio Angelo Prisco Sul Monte Somma

Angelo Prisco ha ventotto anni ed è Maresciallo della Guardia di Finanza. E’ un ecologista intransigente, tanto da essersi guadagnato tra gli amici il soprannome di “Rambo” per la personalissima guerra che porta avanti contro chi non rispetta l’ambiente. Proprio questo suo amore verso la natura lo porta spesso a fare lunghe passeggiate nei boschi della sua terra e così anche quella mattina del 19 dicembre esce presto di casa per fare una passeggiata in montagna. Calata la luce, però, i genitori e la compagna cominciano ad allarmarsi perché non lo vedono rientrare. Partono così le prime ricerche e solo all’alba del 20 dicembre un velivolo della Finanza porta notizie sulla sorte di Angelo. Il Maresciallo viene trovato privo di vita sul Monte Somma, ammazzato da una distanza ravvicinata da un proiettile esploso da uno di quei fucili che si adoperano nella caccia alle lepri. Ha le mani sul volto, come se avesse voluto proteggersi, mentre accanto al cadavere c’è la sua pistola d’ordinanza. Il giovane era una persona mite e per bene, che non avrebbe mai fatto male a una mosca. Chi mai dunque avrebbe voluto la sua morte? A distanza di più di vent'anni questo delitto rimane purtroppo ancora nella lista dei casi irrisolti. La pista più plausibile rimane comunque quella del bracconaggio contro cui Prisco si era sempre battuto. Probabilmente quel giorno Angelo ha incontrato un gruppo di bracconieri, ha acceso con loro una discussione che è degenerata e culminata in una fucilata al petto del finanziere. Non sarebbe stata infatti la prima volta che Angelo ammoniva alcuni di loro di non farsi più vedere in giro. Uno zelo che evidentemente non è mai stato ben visto e che qualcuno potrebbe aver deciso di fermare premendo il grilletto di un fucile.

02-05
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Fabio De Pandi: Ucciso A 11 Anni In Via Catone Da Una Pallottola Vagante

E’ il 20 luglio 1991 e Fabio e Stefania De Pandi stanno trascorrendo una splendida serata di giochi in compagnia dei figli degli Alfano, amici di famiglia da cui sono andati a cena insieme ai genitori. Risate e divertimento hanno fatto trascorrere il tempo velocemente, tanto che papà Gaetano e mamma Rosaria decidono che è ora di riportare a casa i piccoli per metterli a letto. Salutati gli amici, escono dal portone in via Catone e si dirigono verso la loro macchina, parcheggiata a pochi metri dall’abitazione. E’ sera tarda e in strada non c’è quasi nessuno. A popolare quella via solo un gruppetto di tre ragazzi, tutt’altro che tranquilli perché hanno tutti precedenti penali e si guadagnano da vivere vendendo droga e sigarette. Proprio mentre i De Pandi si affrettano a raggiungere la macchina, un’auto sfreccia nella via e dal finestrino partono alcuni colpi di pistola, indirizzati proprio a quella poco raccomandabile comitiva che si era messa a smerciare droga in una zona già presidiata. Una resa dei conti in piena regola, dunque, che farà però perdere la vita solo a un piccolo innocente. L’unico ad essere colpito da quei proiettili vaganti è infatti Fabio De Pandi che viene colpito al braccio da una pallottola che conclude però la sua corsa nel petto. «Mi brucia il braccio». Questa l’ultima frase che pronuncia il bambino prima di perdere conoscenza e morire nel suo trasporto verso l’ospedale. In quella zona comanda il clan Puccinelli, quei proiettili erano indirizzati a personaggi il cui stile di vita era lontano anni luce da quello della famiglia De Pandi. Non è la prima volta, però, che nella guerra della malavita a rimetterci la vita sono dei poveri innocenti.

02-05
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La Strage Della Famiglia Di Cicciano In Via Risigliano

La vicenda che riguarda la strage della famiglia di Cicciano racconta una storia degna dei più crudi romanzi noir, di quelli che prevedono il colpo di scena finale con un movente inimmaginabile e un assassino insospettabile. In una sera di fine marzo 1989, in via Risigliano, un urlo squarcia il silenzio: «Mi sento male, aiutatemi». Ad urlare è Santolo Camerino, un imprenditore e padre di famiglia che viene subito portato in ospedale dai familiari perché accusa dolorosissime fitte in tutto il corpo. I medici accertano che a causare quei dolori è stato il Paraquat, un erbicida potentissimo e tanto nocivo da non poter essere irrorato su piante e ortaggi perché li brucerebbe. Infatti per Camerino quell’erbicida è fatale, portandolo in pochi giorni alla morte. Ma com’è possibile che l’uomo abbia ingerito quel diserbante? Le indagini individuano subito la causa di quel decesso nel cibo consumato da Camerino la sera prima di sentirsi male. Una pista che allarma subito la gente che abita nella zona, assalita dal terribile sospetto di aver consumato prodotti contaminati. Ad accrescere il panico tra gli abitanti è il successivo ricovero di una decina di familiari dell’imprenditore: moglie, sorella, cognate, cognati, nipoti. Tutti hanno gli stessi sintomi di Camerino e, dunque, sono tutte vittime del Paraquat. Nell’arco di un paio di giorni a perdere la vita sono anche la suocera dell’uomo, Antonietta De Stefano, la sorella, Giuseppina, e Jolanda De Stefano, moglie dell’imprenditore. Tra la popolazione di Cicciano si diffonde il terrore che quella terribile sostanza sia allora contenuta nell’acqua, ma ci si accorge presto che l’avvelenamento ha riguardato solo quella particolare famiglia, da tutti ritenuta tranquilla e senza nemici. Le indagini si concentrano sulle loro frequentazioni ed è allora che si arriva al colpo di scena: l’idea di sterminare i parenti, avvelenando il loro cibo, era stata pianificata con grande lucidità dalla settantenne vedova Carmela De Stefano, che abitava a pochi metri dalla famiglia con cui era imparentata. Una persona dalla mente instabile che era stata più volte ricoverata con TSO e l’unica che aveva rapporti tempestosi con tutto il parentado. La donna, afflitta da manie di persecuzione e paranoie, era convinta che la sua famiglia volesse bruciarle casa e derubarla di tutti i suoi averi. Così con un piano elaborato decise di farli fuori tutti avvelenando il cibo delle povere vittime. La donna, che dapprima negò la sua colpevolezza, confessò poi tutte le sue colpe agli agenti. Venne così accusata di strage e tentato omicidio plurimo, dopodiché venne inevitabilmente ricoverata in una struttura psichiatrica.

02-05
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Via Mazzini: Attentato Al Prete Custode Dei Segreti Di Raffaele Cutolo

Nella storia della cronaca nera italiana non era mai accaduto un agguato mortale a un uomo con la tonaca. Quell’uomo era Don Peppino Romano, sacerdote di Somma Vesuviana, rimasto gravemente ferito in un agguato da cui si salvò per miracolo, ma che morì poco dopo in ospedale, proprio quando sembrava ormai essere fuori pericolo. Era la mattina del 5 gennaio 1086 e Don Peppino stava guidando la sua auto quando, all’altezza di via Mazzini, venne raggiunto dai suoi sicari che gli spararono mirando ad organi vitali. Il parroco sembrava essersi miracolosamente salvato ma fu proprio nel letto di ospedale che, quando sembrava stare avendo netti miglioramenti, morì all’improvviso suscitando lo stupore dei medici. Era dunque evidente: qualcuno aveva ucciso Don Peppino. Per quanto riguardava il movente non fu difficile risalirvi: il parroco era rimasto uno degli ultimi custodi dei segreti di Raffaele Cutolo, forse il componente più autorevole di quella ristretta cerchia che conosceva vita, morte e miracoli degli uomini che componevano la NCO. Don Peppino era infatti stato uno strettissimo conoscente del boss ricordato come “‘’O Professore”, che conosceva da quando Cutolo faceva il chierichetto in parrocchia e che aveva uno strettissimo legame con la sorella Rosetta. Per i suoi legami con la camorra, inoltre, il prete venne anche arrestato, scontando un certo tempo in cella. Ma una volta uscito, assistette da libero cittadino alla progressiva demolizione del clan messo in piedi da Cutolo, spazzato via dalla Nuova Famiglia di Carmine Alfieri. D’altronde Don Peppino non prese mai le distanze da quelle discutibili frequentazioni e benché avesse saldato il suo debito con la giustizia, aveva ancora qualche conto da regolare con la Nuova Famiglia di Alfieri nella cui lista di persone da eliminare vi era anche il prete amico di Cutolo. I nomi dei sicari che uccisero Don Peppino rimangono ancora senza nome, il movente di quel delitto però resta chiaro: la colpa del prete fu quella di essere stato il “custode” dei segreti di Raffaele Cutolo.

02-05
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Raffaella Esposito, La Bambina Vendicata Dai Camorristi

«Tutti i componenti della vera camorra sono uomini d’onore che si estraniano da tutti i tipi di rapimento». Con queste parole Pasquale D’Amico, considerato uno dei più feroci luogotenenti di Raffaele Cutolo, reagiva alle accuse che ipotizzavano un legame tra la camorra e il rapimento di Raffaella Esposito, intimando ai veri sequestratori il rilascio della piccola rapita il 13 gennaio 1981 mentre tornava da scuola. Raffaella aveva dieci anni e, come tutti i suoi coetanei, ancora non sapeva ben distinguere il bene dal male. Ingenuamente, infatti, avrebbe accettato il passaggio di un uomo, forse già conosciuto dalla piccola, che gli promise di accompagnarla a casa ma che invece la rapì. Le indagini seguirono varie piste: forse Raffaella era stata scomoda testimone oculare di qualche fatto illecito e per questo doveva essere eliminata? O forse era diventata preda di qualche pedofilo? La pista mafiosa venne presto esclusa a seguito della lettera che D’Amico indirizzò al giornale Il Mattino, nella quale promise inoltre che la camorra avrebbe vendicato chiunque avesse fatto del male a Raffaella. La famiglia, però, con l’organizzazione non aveva mai avuto nulla a che fare, pensò così racimolare 10 milioni di lire da consegnare a chiunque avesse dato notizie utili a ritrovare la loro figlioletta. Fu così che uscì un primo testimone secondo il quale nel giorno della scomparsa aveva visto una bambina simile Raffaella salire a bordo di una Fiat 127 di colore rosso. Le indagini approdarono dunque a un nome: Giuseppe Castiello, conoscente della bambina perché lavorava per suo zio. Castiello, però, aveva un alibi di ferro e venne presto rilasciato per mancanza di indizi. Un tragico evento avvenne due mesi dopo la scomparsa: il proprietario di un fondo agricolo in contrada Cinquevie, a San Gennarello, una frazione di Ottaviano, ritrovò il cadavere di Raffaella nel pozzo mentre era intento a prendere l’acqua. Sgomento, l’uomo denunciò il ritrovamento del cadavere ai carabinieri le cui indagini non riuscirono però a incastrare il colpevole. Se dunque per la giustizia Castiello non poteva essere condannato, la camorra emise una sentenza diversa. Come promesso nel comunicato pubblicato per Il Mattino, quando di mezzo ci sono anime innocenti sarebbe stata pronta ad ammazzare. Così successe a trenta giorni dal ritrovamento del cadavere di Raffaella: Castiello venne ucciso sotto casa da alcuni proiettili e l’organizzazione rivendicò l’esecuzione pubblicando un ulteriore comunicato sul quotidiano in cui affermava: «La camorra ha giustiziato l’assassino della piccola Raffaella Esposito: i bambini non si toccano».

02-05
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Mimmo Beneventano: Il Medico Comunista Di Ottaviano Ucciso Dalla Camorra

Mimmo Beneventano era un giovane di appena 32 anni con una già brillante carriera alle spalle e una vita piena di interessi e passione. Di professione era medico chirurgo presso l’ospedale San Gennaro di Napoli e medico di base a Ottaviano, ma nel suo comune natale era conosciuto anche per il suo impegno politico che lo portò presto a diventare consigliere comunale del PCI. Istintivo ed esuberante portò sempre avanti con impegno questo ruolo, confrontandosi senza titubanze con progetti speculativi e traffici illegali organizzati dalla Camorra. Proprio la lotta alla malapolitica e alla Camorra, al tempo capeggiata da Raffaele Cutolo, non tardarono a inserire il nome di Beneventano nella lista nera delle persone “scomode”, decretando la sua condanna a morte. Fu così che la mattina del 7 novembre 1980, mentre Mimmo saliva in auto per recarsi al lavoro, fu raggiunto da più colpi di pistola che lo colpirono alla gola e alla testa. Prima di premere il grilletto, i sicari chiamarono Beneventano dalla loro auto “Dottore!”, non dando però alla vittima neanche il tempo di girarsi. Alla tragica esecuzione, in pieno stile camorristico, assistette la madre che era intenta a salutare il figlio affacciata dalla finestra. Durante le indagini apparve subito chiaro agli inquirenti che il delitto fosse legato all’organizzazione criminale di Cutolo il quale, però, durante il processo venne prosciolto. Ancora oggi, a distanza di così tanti anni, i nomi degli assassini del medico di Ottaviano non hanno ancora un nome e la sua morte attende ancora di avere giustizia. Quello che è certo è che questo giovane uomo coraggioso pagò con il piombo il suo eroico tentativo di opporsi al patto politico-malavitoso che condizionava la politica comunale di Ottaviano.

02-05
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